Presentazione del volume di Paolo Savona: Dalla fine del laissez-faire alla fine della liberal-democrazia.

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Scritto da Administrator | 31 Maggio 2016

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Presentazione del volume di Paolo Savona
Dalla fine del laissez-faire alla fine della liberal-democrazia.
L’attrazione fatale per la giustizia sociale e la molla di una nuova rivoluzione sociale
,

Rubettino, 2016
Sassari, martedì 31 maggio 2016

Solo la mia incoscienza può giustificare il fatto che io abbia accettato l’invito di Carlo Delfino e oggi sia seduto qui a questo tavolo a presentare questo difficile e ruvido volume  di Paolo Savona, un vero e proprio manuale per studiosi di economia, dedicato alla formazione dei giovani economisti, che in modo inusuale si muove lungo i secoli, attraversa la storia e si interessa delle radici filosofiche del pensiero politico, partendo da figure che amiamo, come Pericle, Platone, Aristotele ad Atene, Cicerone, Orazio e Marco Aurelio a Roma, Agostino a Ippona, fino ai grandi pensatori dei nostri tempi, tra i quali James McGill Buchanan scomparso negli Stati Uniti appena tre anni fa, Ralf Gustav Dahrendorf in Germania e Robert Nozick a Cambridge, ultimo dei 100 componenti il Pantheon dei liberali più amati dall’autore. Proprio in Inghilterra, nel Nuffield College dell’Università di Oxford del resto questo libro è stato scritto, a breve distanza da quel Christ Church College fondato dal Cardinale Thomas Wolsey sotto Enrico VIII, dove anch’io ho studiato per qualche tempo l’epigrafia romana, frequentando l’annessa cattedrale anglicana e mangiando nella grande sala decorata coi ritratti dei professori, con sulla tavola  i piatti e le posate che ostentano lo stemma cardinalizio cinquecentesco. Un rimpianto lontano per la chiesa di Roma.  Luoghi che amiamo per la dimensione raccolta dei centri di ricerca, degli archivi,  delle biblioteche, perfino dei musei, ma anche per i fiumi e i canali con le  gare di canottaggio, i ponti, i boschi, il verde dei prati, gli edifici gotici e medioevali, soprattutto per il silenzio e il rispetto verso chi è impegnato in una ricerca.

Ma questo lavoro in realtà è iniziato nel silenzio e nella bellezza della natura di San Giovanni di Sinis in Sardegna, per opera di un autore che in un’altra vita ho conosciuto come ministro dell’industria del commercio e dell’artigianato nel Governo Ciampi, nel 1993, quando rappresentavo la Provincia di Nuoro nel grandissimo tavolo di confronto di Via Veneto, sopra la scalinata monumentale. Tempi lontanissimi e davvero oggi rimpianti, soprattutto per questa capacità del Ministro di ascoltare, di costruire, di affrontare i problemi, fi fare sintesi – lo abbiamo constatato stasera – senza trascurare l’ironia.

Ho letto velocemente queste pagine difficili, aspre, talvolta impietose, nel corso del mio ultimo lungo e tormentato viaggio in Algeria, con attese anche di 10 ore in aeroporto e con negli occhi l’impressione fortissima della spirale di inefficienze, ritardi, incapacità che si accompagna alla crescente minaccia del terrorismo, che impone al mondo che viviamo tempi e strategie sempre più complesse e temo inefficaci, di fronte al salto di qualità, all’inventiva e alla crescente capacità tecnica di chi vuole mettere ostacoli alla libera circolazione e al rapporto tra le due rive del Mediterraneo. A Constantine poi la mia impressione incerta sul contenuto dei primi capitoli di queste pagine era rafforzata vedendo il ruolo che, a dispetto della modernizzazione, la religione nelle sue forme più arcaiche continua ad occupare ancora oggi nella storia. E poi gli schizofrenici controlli di polizia sotto le autovetture, i visti d’ingresso e le pratiche doganali. Eppure qualcosa si muove, se è vero che la società del Regno Unito Mariott ha costruito a Constantine un hotel a 5 stelle senza uguali in Italia o la Società Pizzarotti di Parma, ha realizzato una metropolitana di superficie ben migliore di quella costruita dalla stessa impresa a Sassari. E Constantine ha celebrato l’anno scorso il suo ruolo di capitale mondiale della cultura araba con i finanziamenti dell’ALECSO, ovviamente dimenticandosi del Museo Archeologico di Cirta, rimasto purtroppo in una dimensione Ottocentesca e coloniale, condannato ad un antistorico culto per l’antiquariato che appare sgradevolissimo a chi lavora come me in questo campo al confine tra culture e guarda verso il futuro del patrimonio. Non ho taciuto questa mia impressione e questo mio disagio.

Tornando a questo libro, di fronte ad un impianto storico quanto mai ampio e articolato, ad una ricostruzione accuratissima del pensiero liberale, inizialmente l’interpretazione di fondo dell’autore non mi aveva convinto: e cioè che la ricetta da adottare per lo sviluppo fosse semplicemente il ritorno al liberalismo classico, ad uno Stato minimo, ad una assistenza sociale meno costosa e meno diffusa, ad un calmieramento delle pretese di chi si aspetta dal Governo interventi miracolistici senza impegnarsi personalmente davvero. Non siamo abituati a mettere in discussione il tema di una “giustizia sociale” che per Savona è più una formula astratta che crea aspettative sempre più ampie in un orizzonte di attese che - a causa dei vincoli oggettivi del contesto - non potranno realizzarsi pienamente o che provocheranno scompensi e ingiustizie ulteriori, senza proteggere le libertà degli individui e senza favorire l’impegno personale, la fatica necessaria per raggiungere i risultati, le veglie, il meccanismo di competizione che determina il successo o l’insuccesso delle persone come delle imprese e dei paesi. Dunque il tema della sostenibilità economica della giustizia sociale e dello sviluppo sostenibile pur con il riconoscimento del valore della proprietà privata, partendo dalle diverse posizioni politiche, filosofiche, economiche attraverso il pensiero di grandissimi maestri, oggi però in un mondo sempre più globale, nel quale teorie diverse finiscono per incrociarsi inquinandosi a vicenda.

Insomma, nel confronto che si è sviluppato soprattutto nell’ultimo secolo tra i due estremi del Capitalismo senza regole e del Comunismo, per Savona entrambi ormai da abbandonare dopo il loro evidente insuccesso, a vincere non sarebbe stato il liberalismo puro o classico ma il socialismo che prometteva ricette miracolistiche a buon mercato, attraverso lo stato sociale che sembrava garantire protezione per le persone, ma con un livellamento sempre più verso il basso.  E insieme poneva al vertice i diritti della società, a scapito dei diritti individuali. La scomparsa quasi ovunque della liberal-democrazia non è per Savona un fatto positivo, perché da quando l’individuo ha compreso che poteva esser assistito per raggiungere il benessere, ha cessato di guadagnarselo lottando e percorrendo una propria strada.

Il più maturo liberalismo classico è ben rappresentato nel decalogo sul modello interpretativo dell’economia che Savona ha ricavato (a p. 179) dalla Scuola di Chicago dei premi Nobel George Stigler e Milton Friedman e dalla Scuola austriaca di Economia di Carl Menger, che sotto la definizione di neoclassici  comprende liberisti e liberali conservatori, tutti personaggi attivi nel mondo contemporaneo, che testimoniano la fortissima attualità degli studi compiuti dall’autore negli ultimi mesi, alla ricerca delle novità di pensiero sulle possibili strade dello sviluppo.

Viceversa il decalogo attribuito in parallelo a p. 180 ai liberali riformisti della Scuola inglese di Cambridge, al Nobel John R. Hicks della Scuola di Oxford e a Lawrence R. Klein, che vengono classificati come neo classici keynesiani, testimonia come prioritario un obiettivo di per sé secondario, quello di conquistare consensi elettorali in Europa e negli Stati Uniti e dimostra come i liberali riformisti tendano a scivolare progressivamente verso il socialismo, adottando metodi estranei al pensiero originario dei liberali, inquinando e snaturando così l’originario messaggio di innovazione e giocando a favore dell’avversario, che però continua ad avere più frecce al proprio arco perché gioca in casa. Il passaggio da De Gasperi alla ultima democrazia cristiana in Italia gli sembra un passaggio dal liberalismo alla socialdemocrazia, per quanto già l’articolo 1 della Costituzione con l’enfasi posta sul lavoro alla base della Repubblica solleva il problema quasi ontologico della non costituzionalità della disoccupazione giovanile, che pure di fatto oggi ci travolge.  Del resto ai nostri giorni ormai anche il socialismo finisce per diventare obsoleto e arcaico.

Il rischio che ovviamente si corre in queste circostanze è quello di banalizzare un pensiero profondo, di non riuscire a cogliere la carica positiva e propositiva di quest’opera monumentale, che nasconde una personalità ricca, un autore colto, ricco di esperienze internazionali, attento a non dire cose che possano semplicemente accattivargli la simpatia del lettore, ma interessato a tagliare chirurgicamente il cancro dei nostri tempi, prima che le basi stesse della democrazia vegano distrutte dal fallimento dello stato sociale causato in Italia dal mostruoso debito pubblico, da politiche economiche errate che non garantiscono una sostenibilità nel tempo, da attese sociali che rischiano di travolgere tutti, ricchi e poveri.

Il nostro compianto Preside Marco Tangheroni, polemizzando con il marxismo, citava un aforisma fulminante di Nicolás Gómez Dávila, un arguto pensatore colombiano morto vent’anni fa:  «quello che non è complicato è falso». Si parlava allora di storia, una storia che doveva essere più capace di mettere l’uomo al centro del dibattito, che doveva superare interpretazioni schematiche e superficiali, dominate dalle forze materialistiche così come proposto da una storiografia marxista, che tendeva a concentrarsi su una sola causa, mentre la storia è frutto di più cause concomitanti e diverse. Gli storici marxisti ormai obsoleti e stanchi erano costantemente oggetto di ironia e di polemica, perché rischiavano di trasformare la storia in una disputa teologica, dimenticando l’oggetto stesso della ricerca, proponendo generalizzazioni che apparivano agli studiosi di un’ingenuità che inteneriva, come a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, i concetti di rifeudalizzazione o di crisi della borghesia, il tema meccanicistico del determinismo e della necessità causale. Del resto Gómez Dávila aveva osservato che un lessico di dieci parole era sufficiente al marxismo per spiegare la storia.

Naturalmente anche quella di Tangheroni era una ingenua e ingiusta esemplificazione datata – proprio come quella marxista - nella quale non mi ritrovo pienamente, che deve rimanere sullo sfondo, partendo però dalla consapevolezza che la realtà è più complessa: non capiremmo l’espandersi dell’economia cinese negli ultimi anni, diceva ieri Savona presentando il volume di Paolo Fadda sulla “storia di successo” della famiglia Pinna; né capiremmo, mi permetto di aggiungere, il debito che il mondo di oggi ha nei confronti di giganti che hanno animato l’antifascismo come Antonio Gramsci, tra gli operai di Torino, la Pietrogrado d’Italia.

Ora che i partiti – se ancora esistono - non possono più chiamare in causa il pericolo del comunismo, divenuto un vero e proprio fantasma, nessuno riesce più a mobilitare gli elettori contro il nemico da battere, magari utilizzando la scomunica della Chiesa: allo stesso modo nell’antica Roma l’età terribile della rivoluzione graccana era iniziata solo quando era stata distrutta Cartagine e si era spenta l’enorme energia fondata sul metus hostilis, la paura per il nemico, che  aveva sostenuto e reso dinamica l’età dell’imperialismo ma che non aveva più ragione di esistere con la pace.

Questo libro ha il merito di tentare di render conto della complessità del mondo di oggi, nel quale il liberalismo è in pena ritirata per il suo cedimento anche culturale di fronte al socialismo, per la sua incapacità di parlare alla gente, di spiegare criticamente i meccanismi dell’economia, di sostenere la competizione contro l’assistenzialismo, di formare persone consapevoli dei propri doveri, di affermare la responsabilità individuale, di costruire partiti che non siano solo interessati ad una miope politica di acquisizione di consenso ma che siano in grado di guardare lontano.  Del resto in uno Stato minimo con un mercato libero e competitivo, la democrazia massima significa non affidarsi pigramente alla guida di élites che si auto-proclamano in grado di interpretare astrattamente i bisogni dei cittadini ma siano effettivamente capaci di costruire meccanismi decisionali tali da non pregiudicare il futuro per un Paese.

Osservazioni che forse possono essere poco digeribili per lo stomaco delicato ma che è fondamentale capire se si vuole garantire uno sviluppo crescente e sostenibile delle nostre società, affermando il rispetto della legge e combattendo la corruzione, l’evasione fiscale e il malgoverno, senza caricare il fardello dei nostri debiti sulle spalle delle generazioni future, a causa del crescere malsano della finanziarizzazione dell’economia (penso ai contratti derivati e alla speculazione finanziaria):  proprio l’economia che conosciamo lamenta una evidente scarsità di risorse reali.  Sullo sfondo per Savona rimane limpida la lezione di Croce che sottolinea il valore assoluto della libertà individuale rispetto a quello relativo di giustizia sociale: <<come potevano osare, questi impenitenti e sprovveduti neo democratici, cattivi filosofi e cattivi politici, mettere insieme sullo stesso piano, vero e proprio “ircocervo” [animale mitologico per metà caprone e per metà cervo] un principio filosofico come la libertà e un concetto empirico come la giustizia ?>>.  Del resto le libertà non possono essere barattate con il benessere.

Anche l’innovazione tecnologica può essere un rischio: emerge da queste pagine l’insoddisfazione profonda di un democratico vero per il processo di globalizzazione ancora confuso e contraddittorio, che porterà comunque a superare i vecchi vizi, oligopoli, stati invadenti e accentratori,  populismi, nazionalismi, poteri economico-finanziari forti, concentrazioni di capitali.

Oggi sono all’ordine del giorno privatizzazioni, liberalizzazioni, interventi a favore di imprese e banche, accompagnati da un depotenziamento del potere sindacale dei lavoratori, con una solo rituale richiesta di ridimensionamento del welfare e della burocrazia, mentre i due accordi internazionali del libero scambio nell’area dell’Atlantico TTIP e del Pacifico TPP rischiano di aprire la strada ad una nuova forma di colonialismo, il colonialismo economico. Nuovi poteri si affermano, nuovi sovrani dematerializzati impongono il proprio ruolo.

Il tema allora è quello del rapporto tra democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione economica. L’ex sindaco conservatore di Londra Boris Johnson ha parlato di Unione Europea come nuovo Hitler che rischia di trascinare il vecchio continente in una tragedia. Certo Savona non condivide questi toni rozzi e sguaiati, ma non ignora i pericoli di una burocrazia europea capace di espropriare gli individui e gli stati. Dunque gli errori di chi dirige le banche centrali, perfino la Banca d’Italia che non è più quella di Guido Carli, la progressiva socializzazione delle perdite (penso a Banca Etruria) e la progressiva privatizzazione dei profitti. Le  distorsioni di un capitalismo senza governo di uno stato democratico, espropriato comunque dei suoi poteri. Una moneta, l’euro, senza stato; e uno stato federale, un super-stato, l’Europa, che ancora non nasce e che comunque non ha una moneta unica e un’autorità centrale davvero forte che possa competere  con la Federal Reserve. Un euro ben diverso da quello sognato inizialmente, che è anche diverso dalla bizzarra moneta internazionale (il bancor)  immaginata fin dal 1943 negli ultimi scritti di John Maynard Keynes, di cui al recente volume curato da Luca Fantacci per Il Saggiarore, sul tema della Moneta Internazionale, un piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario. Un’idea concepita nel cuore della guerra e naufragata l’anno dopo nella conferenza di Bretton Woods.  Allora stravinse il dollaro, oggi l’euro non riesce ad allargarsi a tutti gli stati europei.

Ancora oggi permane l’esigenza di ripensare il rapporto tra Banca Mondiale, Banche Centrali, Fondo Monetario Internazionale; è necessario progettare il superamento delle distorsioni nel regime di cambio. Naturalmente abbiamo in mente la recente riflessione di Paolo Savona e di Giovanni Farese per Rubettino su Eugene R. Black, il banchiere del mondo, il Presidente della Banca mondiale negli anni della ricostruzione mondiale, teorico della cultura dello sviluppo. Quella cultura di cui si avverte oggi l'assenza, anche e soprattutto all'interno dell'Unione economica e monetaria. Fu la Banca di Black, nello scambio con Donato Menichella e con gli economisti italiani, ad ispirare la stagione migliore della Cassa per il Mezzogiorno, lo strumento voluto da De Gasperi nel 1950 per esprimere una solidarietà non solo di facciata per recuperare ritardi storici, non fondata sull’assistenzialismo ma proiettata verso lo sviluppo in una Sardegna che ancora oggi deve sconfiggere il suo isolamento.

Proprio sullo sviluppo, c’è in questo libro una chiara presa di coscienza: l’Unione Europea non può esprimere comportamenti favorevoli allo sviluppo, non essendo configurata per farlo, avendo il mandato di garantire solo la stabilità monetaria e fiscale. Questo spiega il succedersi delle crisi, i problemi della Grecia, il disagio del Regno Unito, l’insoddisfazione in Italia. Forse – diceva ieri Savona – uno shock come l’Uscita del Regno Unito potrebbe essere salutare per introdurre innovazioni fiscali e superare la dimensione monetaria.

In un quadro così ampio, che parte dall’analisi del pensiero politico, economico, filosofico soprattutto degli ultimi secoli, c’è un po’ di spazio anche per la Sardegna, per quel Francesco Cocco Ortu del PLI che fu il leale avversario di Malagodi nel 1954, nipote del più celebre ministro omonimo che nel 1922 fu uno dei pochi liberali che votò contro il governo Mussolini; un po’ di spazio soprattutto per il suo più stretto collaboratore il cui ricordo continua ad essermi davvero caro, Antonio Romagnino, scomparso nel 2011. Ho visto che in questi giorni Savona lo ha ricordato con affetto sulla stampa: io oggi vorrei ricordare il suo ruolo nel Liceo Dettori, più tardi in Italia Nostra e negli Amici del libro. Avevo ammirato la sua serenità di fronte degli attacchi dell’estremismo studentesco nell’aula magna proprio del Dettori, il suo sdegno, il suo spirito critico.  Mi legavano ad Antonio Romagnino rapporti di stima e di amicizia profondi, che si sono sviluppati nelle grandi battaglie degli anni 70 per la difesa dell’ambiente, lui presidente ed io segretario regionale di Italia Nostra, un’associazione allora certamente unica protagonista di tanti eventi fondamentali per il futuro della Sardegna.

Debbo dire che gli ultimi capitoli correggono non poco l’amarezza iniziale, affermano l’ottimismo della volontà, ricordano che non c’è niente di cui veramente disperarsi se si confida nella forza della ragione, perché non siamo arrivati alla fine della storia, ma esiste ancora una strada maestra, quella di coltivare i talenti che sono stati affidati a ciascun individuo, secondo la parabola raccontata da Matteo 25, 14-30.  E’ proprio nelle ultime pagine di questo libro che Paolo Savona dimostra di non essere affatto un conservatore ma di essere un progressista vero, forse più di sinistra, se così posso esprimermi, di quanto egli non voglia ammettere, con questa sua insistenza sul tema dei diritti degli individui, sulla libertà di parola e di espressione, sulla libertà dal bisogno e dalla paura per usare le parole di Franklin Delano Roosvelt forse con un debito nei confronti proprio di Eugene R. Black, sulla consapevolezza delle differenze di partenza tra individui, gruppi sociali, stati, continenti che debbono recuperare ritardi storici, combattere la povertà e l’emarginazione sociale che genera disperazione, estremismo, intolleranza e aggressività. Sulla necessità di tener conto delle distorsioni provocate dal mercato e dalle politiche di integrazione sovrannazionali: dunque il rifiuto delle dittature, il diritto all’istruzione, il completamento della parità dei diritti delle donne e la tutela dell’ambiente, la lotta alla burocrazia, l’occupazione, il benessere materiale; la libertà di pensiero e di movimento. In questo campo vedo qualche differenza rispetto alla posizione espressa proprio in questi giorni da Vincenzo Boccia il nuovo presidente della Confindustria in tema del rapporto tra salario e produttività, anche se la meta è identica, quella della necessità di crescer di più, di eliminare i freni dello sviluppo, di confrontarci alla pari in una prospettiva europea e internazionale.

Temi sui quali il liberalismo classico ha assunto storicamente una posizione nel tempo che purtroppo è – secondo Savona - tuttora disorganica e priva di una vera unità logica per l’incrociarsi di riflessioni collocate in luoghi e in tempi differenti, opera di studiosi di altissima levatura europei e statunitensi e non solo, più o meno sensibili al tema dello sviluppo, pur con un minimo comune denominatore: i diritti della collettività non possono essere mai considerati più importanti dei diritti degli individui, il populismo non può essere la misura per giudicare i governi, le fondamenta della società partono dalla formazione consapevole dei singoli individui che votano spesso solo obbedendo a istinti, mode passeggere, suggestioni, forse nella più totale ignoranza. In questo senso Savona si colloca in una posizione di aristocratico distacco, ma pure esalta un’educazione civile che tenga conto degli svantaggi e consenta anche ai più poveri di accedere ad un ascensore sociale anche partendo dai piani più bassi, solo che ci sia impegno, responsabilità, senso del dovere, merito.  Il ruolo della Scuola e dell’Università.

Il Presidente Francesco Pigliaru nei giorni scorsi diceva in Aula Magna qui a Sassari che gli investitori cinesi non chiedono alla Regione se esistono industrie in Sardegna, ma solo se ci sono due università qualificate, competitive, internazionali.

Contro le politiche conservatrici, Savona pensa dunque ad una società mobile nella quale l’individuo diventi il vero protagonista della propria sorte,  non si illuda di poter essere protetto dalla culla alla tomba da uno Stato che lamenta sempre di più la scarsità di risorse reali. Savona ritiene che ci sia spazio anche in politica per un liberalismo che non si metta all’inseguimento di una giustizia sociale che non ha confini, perché l’orizzonte lontano che di volta in volta si profila non verrà mai raggiunto, provocherà illusioni e fallimenti, introdurrà regimi autoritari, finirà per ridurre i posti di lavoro, mentre l’incompetenza la farà da padrone.

Forse è un’utopia, l’autore ne è lucidamente consapevole, ma l’occasione che le nuove generazioni hanno davanti è preziosa, se si vuole superare l’arretratezza e la povertà, dopo tanti fallimenti del capitalismo liberistico, due guerre mondiali, il fanatismo religioso, l’attuale depressione dell’economia. Occorre allora allargare gli spazi delle libertà individuali, ridurre il ruolo dello Stato, favorire l’iniziativa privata, soprattutto combattere l’incompetenza e formare il vero sovrano dei nostri tempi, il popolo.

La soluzione è forse a portata di mano: anche sul tema della distribuzione del reddito e della ricchezza va applicato il criterio della giusta misura delle Satire di Orazio: C’è una giusta misura nelle cose, ci sono giusti confini al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta: Est modus in rebus, sunt certi denique fines | quos ultra citraque nequit consistere rectum.

Allo stesso modo deve essere apprezzato il punto critico di Luigi Einaudi, che non può essere determinato a priori, ma che in una società aperta si colloca nel tempo e nello spazio sulla base della buona volontà degli uomini, in possesso di diritti inviolabili, posti alla base dei sistemi di libertà.Lezioni antiche che mantengono un valore e un’attualità oggi.

Ultimo aggiornamento Giovedì 02 Giugno 2016 10:15

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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