Salvatore Sechi, La stazione dei sogni.

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| 09 Settembre 2011

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Salvatore Sechi, La stazione dei sogni

di Attilio Mastino

Ho letto tutto d’un fiato La stazione dei sogni di Salvatore Sechi, in una sera di pioggia a Bosa, senza riuscire a staccarmi da quelle pagine.

Mi è sembrato di trovare la chiave di tutta la storia in quel sogno terribile che conduce il protagonista tra le tombe di un cimitero, tra le croci seminate entro un bosco di betulle sferzate dalla pioggia ed illuminate dai fulmini, entro una foresta inquietante e silenziosa, bagnata dalle lacrime senza tempo.

Quasi atterrito, alla fine della storia, Dario scopre che per assurdo una forza ineluttabile lo ha condotto a ripercorrere gli stessi sentieri percorsi dal fratello Bachis, un gigante buono che calzava stivali lucidi, scomparso quaranta anni prima in guerra, ma accolto dall’ospitalità caritatevole dei monaci, divenuto per tutti un esempio di umanità e di fede.

Le pagine più belle del romanzo sono sicuramente quelle ambientate all’interno del monastero francese in Argonne, non diverso dal Cistercium fondato da Roberto di Champagne in Borgogna, dove il protagonista riesce a ritrovare l’equilibrio perduto: anche qui le suggestioni di Umberto Eco, il labirinto dell’abbazia de Il nome della rosa, sono solo un’eco lontana, anche se vitalissima.

Ma Salvatore Sechi ha origini sindiesi e coltiva dentro di sé fin da ragazzo un mito straordinario ed originale, quello di un Medioevo animato dalle colonizzazioni dei monaci cistercensi, delle grandi abbazie collegate tra loro in rete, al di là del mare ed al di là dei confini degli stati nazionali: quello della suggestione dei riti religiosi che ipnotizzano e che conducono alla verità, quella delle grandi cattedrali gotiche, con le loro guglie che cercano Dio svettando a pinnacolo nella profondità del cielo, costruite da architetti che devono essere penetrati nel mistero del trascendente. Sindia è uno di quei luoghi dove più forte è la memoria e più chiaro è il significato della presenza dell’ordine cistercense in Sardegna alla fine del Medioevo: Sindia conserva due degli otto insediamenti cistercensi documentati in Sardegna ed una delle due chiese con dignità abbaziale, Sancta Maria capitis aquarum, dedicata in un sito particolarmente fertile e ricco di sorgenti d’acqua. Opere attribuite dalla tradizione alla pietà della giudicessa Marcusa de Gunale, a suo figlio il giudice Gonario di Torrres ed a San Bernardo di Chiaravalle, espressione di un gusto raffinato e di una sensibilità artistica senza confronti in un territorio, quello della Planargia, fortemente condizionato da una generale situazione di povertà e di sottosviluppo, che non sempre ha permesso l’affermazione di una capacità architettonica ed artistica evoluta ed autonoma. È in questo lembo dell’antica diocesi di Bosa che si concentrò maggiormente la presenza di un ordine monastico che si andò specializzando nel lavoro manuale, nella bonifica e nella messa a coltura dei terreni abbandonati e delle aree acquitrinose e malariche, nel favorire l’insediamento agricolo là dove si era svolto in precedenza un fenomeno di spopolamento e di desertificazione.

Su questi insediamenti monastici da sempre sono fiorite leggende popolari, che ci conservano un sapore antico: in una novella di Pietro Casu, Il tesoro di Pedrasenta, è narrata la tragedia dei monaci di Sindia, costretti con l’inganno dal re di Ardara a lasciare il monastero ed a nascondere i loro tesori nei sotterranei segreti del convento di Pedrasenta, Sant’Ippolito di Sirone a Suni, dove ancora oggi sarebbero protetti da una bestiaccia immonda, un cane demoniaco, pronto ad addentare gli incauti visitatori.

Ma Salvatore Sechi con questo romanzo ci riporta alla Sardegna di oggi, a questo caro paese di provincia, Domomentis, battuto dal vento, dove l’autore ambienta una storia che ci conserva gli odori ed i colori dell’isola del sole, gli stridi dei rapaci, i canti dell’allodola, l’aroma della ferula, i profumi del maestrale che agita le fronde delle vecchie querce, il suono delle campane, le feste come per la tosatura delle pecore. Domomentis è il paese attraversato dal vento della fanciullezza, dove il protagonista ha conosciuto il silenzio dei meriggi estivi, lo scorrere del torrente domato dalla veemenza del sole. Un paese popolato da vecchi saggi, forse analfabeti, ma che hanno appreso l’arte magica dell’affabulazione alla nobile scuola dei narratori aedi.

Il protagonista inquieto cerca sentieri ignoti, abbandona le vie conosciute ed agevoli, perché c’è un Ulisse dentro ognuno di noi. Ma le radici rimangono tanto forti da non poter essere spezzate neppure dal tempo, dall’odio, dalla tragedia, dall’angoscia, dal dolore senza fine, come quello che prova un padre per la morte del figlio, un cucciolo cresciuto che vuole imprudentemente esplorare e guardarsi intorno, che vuole sfidare la morte. Le radici non significano solo ritrovare la tomba del fratello oppure riportare a casa la salma di un figlio; significano lasciarsi coinvolgere in una faida apparentemente estranea, pagare per le colpe dei padri, accettare con naturalezza il sacrificio di chi ci ama.

Salvatore Sechi reinterpreta efficacemente in chiave moderna tante prevenzioni arcaiche della società sarda, riesce a valorizzarle e qualche volta anche a farle apprezzare: emerge la diffidenza atavica per la Giustizia, per alcuni magistrati prepotenti ed incapaci; emerge l’insofferenza e l’intolleranza di chi pensa di essere accusato ingiustamente. L’esempio che viene proposto al lettore è quello di un pubblico ministero esaltato che si sente giustiziere, impegnato allo spasimo contro i sequestratori sardi, quasi uno specialista nel suo campo; oppure quello della dottoressa Conigliani, un magistrato implacabile ma insieme, ipocritamente, una “pia donna”, che si dedica ad opere di carità, che frequenta gli alti prelati: un giudice che non cerca la verità ma che si accontenta dei capri espiatori, per dare un esempio e per fare carriera. Salvatore Sechi accoglie il punto di vista dell’innocente perseguitato ed offeso, tanto da finire per deformare i fatti e da identificare il magistrato con l’assassino. In questa sua intolleranza di fronte all’ingiustizia l’autore ci appare veramente in sintonia con la sua terra, ma talvolta anche capace di razionalizzare, di leggere e di giudicare con occhi moderni, di combattere i moralismi e le ipocrisie.

Dalla tradizione viene a Salvatore Sechi anche l’orrore per la perdita dell’identità, per l’alienazione del carcere e dell’ospedale, dove i pazienti vengono intruppati e smarriscono la loro personalità, diventando solo un numero, disprezzati o derisi da medici ed infermieri incapaci, stolidamente collusi con amministratori semianalfabeti ed inetti.  Eppure proprio nelle corsie di un ospedale fiorisce l’amore tra il protagonista e la sua donna, quando la storia di Dario finisce per intersecarsi con il dramma di Eleonora, il medico al quale il protagonista deve la sua guarigione e la stessa libertà.

E ancora l’ammirazione per la saggezza dei vecchi, il fatalismo, la forza d’animo, l’orgoglio, la solidarietà tra conoscenti, tutti valori della tradizione sarda, che Dario riesce ad apprezzare nella lontana Parigi.

Ma anche la prevenzione nei confronti di quei sacerdoti che vendono fumo, nei confronti dei bigotti privi di elasticità mentale, la bestemmia pronunciata nel dolore lancinante oppure la razionale presa di distanza dalla fede di un intellettuale inquieto, che è innanzi tutto alla ricerca di se stesso.

E infine il giudizio severo per il modello sociale corrotto che va affermandosi, per il mondo nuovo e inquietante della droga, che incombe e che disgrega.

Eppure, attraverso la sofferenza e l’incubo, Dario riesce a combattere l’odio e riesce a perdonare e a riemergere per tornare alla tenerezza dei sentimenti, alla passione per una donna: supera il suo agnosticismo razionalistico, perviene alla tolleranza nei confronti degli altri, combatte il fatalismo ancestrale.

Se è vero che le radici contano in questo volume, è anche vero che Salvatore Sechi ha ormai superato i confini, con espressione latina i termini antichi del suo paese della sua città della sua isola. Il suo ambiente è il mondo, sia che si muova in Sardegna, sia che visiti da intenditore con la competenza di un archeologo e di un epigrafista il foro romano, sia che raggiunga Milano o Zurigo o Parigi o le Ardenne. Parigi soprattutto è la città del cuore, dove Dario incontra la solidarietà del vecchio mezzadro Antonio Carrela, la città della liberazione e della svolta, così vicina per tanti versi alla triste Parigi descritta dal poeta di Modolo, Orlando Biddau, nel suo desolato romanzo Predestinazione: una città dove è bello smarrirsi sino a dimenticarsi, anche se per Salvatore Sechi non è più vero che alla fine c’è solo – sono versi del Biddau – «la sala d’attesa d’una vecchia stazione / a termine d’un binario morto».

Questa di Salvatore Sechi è un’altra stazione: la stazione dei sogni, una stazione vivace, con infiniti scambi ferroviari, dove i sogni si rincorrono tra memoria e immaginazione. Un luogo forse simile alla «stazione degli eucalipti» di Orlando Biddau, qui a Bosa, lungo il viale o dalla città alla marina, dove il poeta si scuote dall’incoscienza, «grazie al sole che scioglie l’inerzia ed al singulto del vento».

Del resto c’è in entrambi gli autori, Sechi e Biddau, questo strano esperimento, questo cavalcare tra l’affascinante vita turbolenta di una grande città ed il solitario paesaggio amato del microscopico villaggio avito, che riporta all’indietro, dove solo – sono versi di Orlando Biddau – si può «aspirare l’antico odore d’infanzia, / può rinascere lieve l’illusione, / rinverdire la formula, l’idillio / che schiuda l’incantesimo».

Questo esperimento, che rende in qualche modo simili i due scrittori tanto diversi tra loro ma anche tanto diversi dagli altri romanzieri sardi, c’era già stato nell’opera prima di Salvatore Sechi, il bellissimo romanzo Fuga nella memoria, ambientato per la metà in Sardegna e per la metà a Roma. Anche qui la faida tradizionale sconvolge la vita del protagonista, Giosuè Funeseda, che perde in una notte terribile lo Zio Giacomo, le vacche, tutto il gregge nella tanca, tra gli olmi e le acacie; una tragedia che segna e distrugge un’intera famiglia. Eppure anche in quella vicenda c’è un fratello, Samuele, che indica la strada per arrivare alla verità, tornando in sogno dalla dimensione dei morti; anche lì il distacco temporaneo, l’allontanamento dall’ambiente, l’amore per una donna, gli interessi nuovi coltivati con passione consentono al protagonista di raggiungere la serenità, di guardare e meditare per comprendere e per capire, di assaggiare tutti i sapori dell’esistenza, – mi perdonerete la citazione un poco frivola – di mordere quello che Robin William nel film «L’attimo sfuggente» ha chiamato «il midollo della vita».

Eppure anche a Parigi, anche nel cuore della metropoli tentacolare, anche nel solitario monastero di Janua coeli, si possono cogliere profumi antichi; hanno un peso ed una dimensione l’introspezione ed i drammi tutti interni degli emigrati.

C’è in questo romanzo una sorta di dissidio tra eventi, mentalità, culture ancestrali che rimangono come pietrificati nel cuore di ognuno e la capacità che hanno i protagonisti di costruire, di adattarsi ai tempi nuovi, con la forza della saggezza e del dolore. C’è il dissidio quasi schizofrenico della Sardegna di oggi tra un passato che continua ad essere vitale e che continua a pulsare violento nelle vene ed un presente, quello del villaggio globale, nel quale le culture egemoni minacciano di soffocare e di omologare gli individui, di travolgere le identità, di eliminare la comunicazione e il dialogo. L’autore è uomo di oggi, che però rivaluta la cultura antica, che non conosceva la solitudine; esprime ammirazione per la saggezza del vecchio monaco, il Padre Pierre, che lo invita a percorrere fino in fondo la strada della comprensione e del perdono, una volta conosciute le proprie radici, rivalutato il proprio passato, accettandolo con le inevitabili passioni, le oscurità, le incertezze.

Questa storia finisce drammaticamente per essere anche un’alternativa tra cultura laica e fede cristana, tra scienza e fede. E anche chi non è fortunato e non riesce a raggiungere come Dario una fede rocciosa, trasmessagli per vie misteriose dal fratello Bachis, anche per lui è possibile la felicità.

Ultimo aggiornamento Venerdì 09 Settembre 2011 11:24

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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