In ricordo di Giovanni Lilliu.

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Scritto da Administrator | 19 Febbraio 2012

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In ricordo di Giovanni Lilliu
Sassari, 19 febbraio 2012

di Attilio Mastino

Ho iniziato a leggere La civiltà dei Sardi di Giovanni Lilliu quasi cinquanta anni fa, all'inizio degli anni sessanta, quando avevo ancora i calzoni corti, a Bosa: ricordo un volume rosso, rilegato con cura, gonfio a soffietto con i ritagli degli articoli pubblicati da Lilliu su "L'Unione Sarda",  che mio padre aveva iniziato a raccogliere negli anni e che riguardavano i temi più diversi.

Se c'è un aspetto singolare nella produzione scientifica di Giovanni Lilliu è stata questa penetrazione capillare dei suoi scritti nelle città, nei paesi e nei villaggi della Sardegna, fino a raggiungere un pubblico vastissimo, anche in misura superiore a quanto l'autore stesso non immaginasse, in parallelo con le tante pubblicazioni specialistiche pubblicate in Italia e all'estero.

Da allora è iniziato un rapporto che durava da tanti anni: un periodo lungo della mia vita - anche se Lilliu aveva iniziato a pubblicare già trent'anni prima - che ha visto in Sardegna una straordinaria crescita dell'archelogia, soprattutto quella preistorica, e non solo a livello di metodi di indagine, come disciplina incardinata nell'accademia, ma anche come passione, come tema di discussione per tanti insegnanti, per tanti studenti, ma soprattutto per tanta gente qualunque, appassionata del proprio territorio, alla ricerca delle proprie radici: un fenomeno culturale di massa che ha coinvolto intere generazioni.

Per Lilliu l'archeologia non era solo pura tecnica di scavo, ma era anche sintesi, riflessione, interpretazione, ricostruzione storica, infine scelta politica; in questo senso Lilliu considerava lo storico un protagonista,  un uomo non inutile né senza speranza.

Così a caldo mi sembra che possiamo descrivere Giovanni Lilliu come un uomo inquieto e ruvido, carico di insoddisfazioni, un democratico pieno di sentimenti e di desideri, senza pace, che non si rassegnava e che intendeva combattere per la sua terra, contro la subalternità e l'emarginazione; il suo pensiero, nutrito a volte di utopie e di asprezze, si era arricchito progressivamente nel tempo, sino a giungere ad una straordinaria coerenza, pure attraverso un'incredibile varietà di interessi.

Lilliu si considerava un uomo di campagna che aveva avuto il privilegio di accedere all'incanto dell'archeologia, per lui una fatica ma anche un diletto aristocratico. Del resto egli  era orgoglioso delle sue origini contadine e leggeva la sua esperienza in continuità ideale con la storia della sua famiglia originaria di Barumini, con generazioni e generazioni di antenati che lo riportavano sempre più indietro, fino agli eroici costruttori del nuraghe: continuità che era innanzi tutto un persistente legame affettivo con gli spazi, con i monumenti, con il territorio, con l'ambiente fisico che contribuiva a costruire un'identità. Il tema dell'identità del resto era centrale nei lavori di Lilliu, che pensava ad un'identità non fossile, ma aperta al nuovo, non digiuna del moderno, culturalmente e storicamente dinamica.

E allora la lingua sarda, innanzi tutto, che avrebbe voluto insegnata nelle scuole ed utilizzata liberamente nelle sedi ufficiali, in modo che si affermasse il biliguismo. Lilliu aveva seguito costantemente il dibattito in Consiglio Regionale sul problema, fino alla legge regionale a tutela della lingua, della cultura e della civiltà del popolo sardo.

Egli aveva anche indicato una strada coraggiosa nel dibattito sul trasferimento delle competenze in materia di Beni Culturali dallo Stato alle Regioni, alle Province ed ai Comuni, insomma al sistema delle autonomie: ci ha spesso sorpreso la sua abilità, la capacità di presentare la sua posizione, spesso anche molto coraggiosa ed estremistica, senza asprezze ed intemperanze, con equilibrio, riuscendo a non urtare suscettibilità profonde, come sulla spinosa questione di Tuvixeddu.

Per Lilliu la storia della Sardegna era fondata su un mito, il mito dell'età dell'oro dell'epoca nuragica, una cultura non pacifica ed imbelle ma conflittuale, quando le armi venivano usate dagli eroi per difendere l'autonomia,  l'autogoverno, la sovranità del popolo sardo, quando i sardi erano protagonisti e padroni del loro mare. La preistoria e la protostoria furono il tempo della libertà, prima che i popoli vincitori e colonizzatori imponessero una cultura altra. Gli altipiani ed i monti al centro dell'isola gli sembravano l'antico grande regno dei pastori indipendenti.

Furono i Cartaginesi e poi i Romani a creare una Sardegna bipolare, quella dei mercanti e dei collaborazionisti della costa e quella dei guerrieri resistenti dell'interno: verso questo popolo della Barbagia accerchiato ed assediato andavano le simpatie di Lilliu, che denunciava la violenza dell'imperalismo e del colonialismo romano, giunto fino ad espropriare i Sardi della loro terra, della loro libertà, perfino della loro lingua. Eppure in Barbagia e sul Tirso sopravviveva uno zoccolo duro conservativo, resistente e chiuso, che giustificava la continuità di una linea culturale ed artistica barbarica ed anticlassica, che per Lilliu era possibile seguire e documentare fino ai nostri giorni. Nei momenti di passaggio tra una potenza e l'altra, questa cultura locale riuscì ad esprimersi con prepotenza in maniera decisamente originale.

Ricorrono nei suoi scritti alcuni grandi maestri, come non citare Antonio Gramsci, ma anche Camillo Bellieni, Emilio Lussu, quest'ultimo visto come il Sardus Pater, che nel Santuario di Santa Vittoria di Serri, assieme a Ranuccio Bianchi Bandinelli, gli sembrava il demiurgo ideale della sua gente.

La storia della Sardegna era fondata dunque su quella che Lilliu chiamava una costante residenziale e libertaria dei Sardi, che illuminava il fondo dell'identità di un popolo perseguitato ed oppresso ma non vinto. A quest'anima profonda di una nazione vietata e compressa, di una nazione perduta o proibita (come non pensare a Camillo Bellieni ?) rimanderebbe la cultura alternativa popolare sarda, non quella delle città, ma quella dei paesi dell'interno: anche la nomenclatura ed i valori erano allora ribaltati, se barbarica e selvaggia erano due categorie positive e contrastive della diversità del processo della storia del mondo, contro l'integrazione e la monocultura imposta dall'esterno.

Lilliu ha certo anticipato gli studi più recenti sulla resistenza, che hanno anche un profondo significato politico e che si proiettano sull'attualità, per costruire la nuova autonomia della Sardegna contro ogni forma di dipendenza, per Lussu una di quelle pazzie che sono il sale della terra: da qui l'invito agli uomini del palazzo, ai Consiglieri Regionali perché recidessero ogni cordone ombelicale che li legava alle case madri.

Nel clima un po' triste del fallimento del regionalismo per l'azione deludente, debole e svogliata di tanti politici sardi, c'era forse ancora una strada maestra, per Lilliu ed era quella di riprendersi il passato e di farlo giocare come elemento di identificazione nella società che cambia, perché contro la crisi esistenziale della Sardegna occorreva ribadire che un popolo che non ha memorie è un gigante dai piedi d'argilla.

Quando il Presidente Soru gli conferì cinque anni fa l'onorificenza del Sardus Pater, Lilliu aveva rinnovato il suo appello contro ogni forma di centralismo, per il trasferimento di competenze in materia di beni culturali dallo Stato alla Regione, perché riteneva che il patrimonio culturale potesse essere un insieme di risorse umane e ambientali capaci di produrre  una domanda sociale. E il patrimonio archeologico gli sembrava un insieme di materiali per l'identità della terra e del popolo sardo.

Oggi il nostro Maestro lascia all'Università, alle Soprintendenze, all'Istituto Regionale Superiore Etnografico, ai suoi allivi, a tutti i Sardi, tanti messaggi vitali e tante raccomandazioni preziose, un'eredità fatta di speranze, di emozioni, di progetti.

Ultimo aggiornamento Domenica 19 Febbraio 2012 22:30

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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