Stimoli e delusioni nel post-Concilio. Facoltà Teologica della Sardegna.

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Scritto da Administrator | 15 Aprile 2013

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Stimoli e delusioni nel post-Concilio
Facoltà Teologica della Sardegna
Intervento del prof. Attilio Mastino
Sassari, 12 aprile 2013

Cari amici,

cinquanta anni fa, l'11 ottobre 1962 all'immediata vigilia della crisi per i missili sovietici a Cuba, con il discorso Gaudet Mater Ecclesia Giovanni XXIII apriva a Roma il XXI Concilio Ecumenico, il Vaticano II, l'evento più notevole della chiesa del secolo scorso, quasi un vessillo innalzato tra le nazioni, un evento di profezia e di resurrezione: il Papa chiedeva che la Chiesa  riprendesse a parlare con il mondo, anziché arroccarsi su posizioni difensive e interpretasse positivamente i “segni dei tempi”, riprendendo la polemica di Cristo con Farisei e Sadducei riferita da Matteo 16,3: <<Quando si fa sera, voi dite: "Bel tempo, perché il cielo rosseggia!" e la mattina dite: "Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo!" L'aspetto del cielo lo sapete dunque discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli?>>. Nella stessa serata, forse ispirandosi proprio al vangelo di Matteo, Giovanni XXIII improvvisava quel discorso della luna che ci è rimasto nel cuore e che rende bene l'offerta di amore al mondo che stava dietro la convocazione del Concilio.

Temi che Paolo VI nel suo primo radiomessaggio del 22 giugno 1963 avrebbe poi interpretato a suo modo, ponendo tra i principali obiettivi del Concilio il rinnovamento della chiesa cattolica e il dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo. Pochi mesi dopo, il 22 novembre successivo sarebbe stato ucciso a Dallas il Presidente Kennedy.

La mia età mi consente di ricostruire a distanza di tanti anni l'emozione di quei giorni e di tentare di recuperare alla memoria qualche ricordo di quegli straordinari resoconti sul Concilio che dal pulpito in Cattedrale faceva costantemente il vescovo Francesco Spanedda, arrivato a Bosa nel 1956: il vescovo era stato chiamato a far parte della Commissione teologica internazionale ed era nella Commissione De doctrina fidei et mororum e ci raccontava il Concilio con lo stupore di chi assisteva ad un evento storico, osservava commosso le nuove aperture di una teologia troppo chiusa come quella italiana, entrava in contatto per la prima volta con i teologi francesi e tedeschi,  istituiva rapporti e legami con decine di altri vescovi in particolare di oltrecortina, che si sarebbero sviluppati nel tempo. C'era nelle sue parole il sapore fresco di un avvenimento che in qualche modo settimana dopo settimana egli riusciva a farci vivere insieme con lui, soprattutto nell'Azione Cattolica, nel Centro Sportivo Italiano, in parrocchia, sul settimanale Libertà. Un avvenimento che per tre anni ci avrebbe riguardato tutti.

Ho visto che Raimondo Turtas  nel volume sulla Storia della Chiesa in Sardegna ridimensiona severamente il ruolo svolto dai vescovi sardi al Concilio, mi sembra con la sola eccezione di Mons. Giovanni Pirastru, di Iglesias, impegnato a sollecitare interventi convergenti dei vescovi sardi sul versante della dignità umana e dei diritti della persona. Eppure sono convinto che nessun altro vescovo sardo come Spanedda ebbe in quegli anni una dimensione internazionale e un ascolto altrettanto ampio. Ho visto citati da Tonino Cabizzosu i numerosi interventi scritti di mons. Spanedda, uno dei quali intitolato ad finem Concilii, gli emendamenti e le sue adesioni agli interventi di colleghi sui temi de apostolatu laicorum e De sacrorum alumnis formanndis. Infine la sua firna su molte costituzioni conciliari, penso a quella sulle chiese orientali (penso al culto di San Costantino), sull’ecumenismo, ancora sull’apostolato dei laici.

Era del resto il vescovo nel cui territorio operava da cinquanta anni a Cuglieri il Pontificio Seminario tridentino regionale,  la Facoltà di teologia e filosofia, che  costituì una delle preoccupazioni dei vescovi isolani, che certo si riflettono in alcune pagine del Concilio. Mio nonno risiedeva del resto proprio a Cuglieri. Infine le sue origini sassaresi (era nato a Ploaghe) e il suo ministero lo portavano a enfatizzare con noi il ruolo del Collegium, Mazzotti e la casa di accoglienza di La Madonnina di Santulussurgiu, che allora frequentavamo spesso sotto la guida del compianto don Giuseppe Budroni.

Chiuso il Concilio il 7 dicembre 1965, fui invitato dal vescovo a partecipare, e lo feci con successo, al Concorso nazionale di borse di studio Veritas sul tema “Gli studenti e la chiesa”. La parte del diavolo fu affidata allora a Mons. Giovanni Pes, particolarmente critico nei confronti del mio elaborato ma ciò non impedì al vescovo di pubblicare a puntate su Libertà il mio testo. Ero in I liceo classico ed ho ritrovato tra le mie carte una oscura relazione dattiloscritta di oltre 30 pagine, datata Bosa 12 luglio 1966, scritta a 6 mesi dalla cerimonia con la quale Paolo VI aveva chiuso il Concilio con la celebre allocuzione e con gli otto messaggi al mondo: ai padri conciliari, ai governanti, agli intellettuali (consegnato simbolicamente a Jacques Maritain), agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, agli ammalati, ai giovani.  Avevo messo a frutto l'insegnamento del vescovo Spanedda con l'aiuto di Mons. Antonio Francesco Spada, che mi aveva seguito nella ricerca partendo dall'antologia sui documenti del Concilio Vaticano II pubblicati dalle Edizioni Dehoniane, un volume analogo a quello edito dalle Paoline che Mons. Antonio Loriga mi ha  donato nei mesi scorsi.

Avevo commentato i capitoli sul Popolo di Dio e sui laici della Costituzione sinodale Lumen Gentium del 21 novembre 1964, soprattutto avevo letto la citatissima Costituzione pastorale Gaudium et Spes dell'anno successivo, con riferimento al capitolo dedicato alla promozione del progresso della cultura e ai doveri dei giovani e dei genitori. E poi il tema vitale dell'Ecumenismo del Decreto Conciliare Unitatis Redintegratio, del 21 novembre 1964. Ancora l'apostolato dei laici nel Decreto Conciliare Apostolicam Actuositatem del 18 novembre 1965, con i capitoli dedicati ai giovani e all'Azione Cattolica. Infine la Dichiarazione conciliare Gravissimum educationis del 28 ottobre 1965 sull'educazione cristiana, con le pagine dedicate alla scuola e all'Università.  Sotto quest'ultimo aspetto, mi ero permesso anche qualche critica al rapporto effettivamente un poco squilibrato tra scuola non cattolica e scuola cattolica – la bizzarra distinzione è conciliare -, per l'insistenza sui convitti e i centri universitari cattolici, sul coordinamento delle scuole cattoliche e sulle facoltà di teologia. Eppure oggi a distanza di 50 anni sorprendono le aperture del Concilio sulle scuole superiori e sull'università, se si ribadisce che le diverse discipline debbono essere <<coltivate secondo i propri principi e il proprio metodo, con la libertà propria della ricerca scientifica>>.

Infastidisce oggi in quelle mie pagine troppo acerbe un commento talvolta pretenzioso e saccente, qualche bigotteria, l'accettazione acritica di una realtà di fatto che il Concilio ci avrebbe costretto a superare, come la marcata divisione tra studenti e lavoratori e tra maschi e femmine in Azione Cattolica, nel CSI e nella FARI. C'era ancora in molti di noi inconsapevolmente il senso orgoglioso di una superiorità degli studenti rispetto ai giovani lavoratori, la convinzione che i giovani della GIAC, la Gioventù maschile di Azione Cattolica, fossero dei privilegiati capaci di scorgere più di altri una strada, forse anche meglio – il pensiero sotterraneo qua e là riemerge – rispetto alle colleghe della Gioventù Femminile, rigorosamente separate in parrocchia anche se frequentate a scuola.  Forse è la stessa superiorità che i tesserati di Azione Cattolica e della FUCI avrebbero mostrato negli anni successivi  verso gli amici di Comunione e Liberazione.

In realtà prendevo lo spunto da alcune affermazioni conciliari, perché “lo studente è dei giovani il più rettamente formato, quello che avrà più orgoglio per la posizione acquistata”, con la sua maturità, anche perché, recita la Gaudium et Spes “lo scopo della Scuola è quello di suscitare uomini e donne non tanto raffinati intellettualmente, ma di forte personalità, come è richiesto fortemente dal nostro tempo”.

Sentivamo in quei giorni la novità di un tempo nuovo, la gioia per la rinnovata dimensione universale della Chiesa, ancora il desiderio di una rinascita etica, il senso della fine di una storia,  se chiudendo la mia ricerca dedicata agli studenti osservavo: <<Vorrei terminare qui con le ultime parole che il Concilio, chiudendo la sua opera, ha rivolto ai giovani: “Siate generosi, puri, rispettosi, sinceri... La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore... Guardatela, e voi ritroverete in essa il volto di Cristo, il vero eroe, umile e saggio, il profeta della verità e dell'amore, il compagno e l'amico dei giovani. Ed è appunto in nome di Cristo che noi vi salutiamo, che noi vi esortiamo, che noi vi benediciamo”>>. E aggiungevo, dando il senso di una frattura, di una fine, forse anche di una perdita irreparabile, con parole che oggi mi sembrano eccessive e anche retoriche: <<Così il concilio muore, così si spegne. Ma no, l'opera sua rimane, lo fa rivivere, lo fa rinascere. Il Concilio non è finito, incomincia ad essere solo ora>>.

Sarebbe arrivata due anni dopo l'Università a Cagliari, le speranze del 68, l'impegno in Azione Cattolica a livello regionale, i Campi scuola, il CSI, l'esperienza politica, poi forse anche qualche dubbio e qualche tradimento e infedeltà. Eppure quelle letture sono rimaste sullo sfondo, quella esperienza è stata in qualche modo una luce e un punto di riferimento, anche a proposito di un tema che continua a dividere ma di fronte al quale non possiamo fare passi indietro, quello del diritto alla vita e della condanna dell'aborto. Il dato rivelato nei giorni scorsi degli oltre 300 milioni di aborti in Cina rimane sulle coscienze di tutti noi.

Poi negli anni 80 avremmo celebrato il Sinodo diocesano con Mons. Giovanni Pes impegnato nelle quattro sessioni di Cuglieri, Alghero, Bosa e Macomer, più tardi a partire dal 1986 ebbi l'onore di esser chiamato a partecipare alle commissioni antepreparatorie del Concilio plenario sardo concluso solo nel 1999: occasione  che  avrebbe rappresentato un primo bilancio ancora forse prematuro sulla attuazione del Vaticano II in Sardegna.

Chiedo scusa se ho pensato di aprire questo mio intervento dando una dimensione autobiografica troppo limitata ad un evento storico che ha cambiato la Chiesa e la vita di milioni di persone, - uso le parole del Cardinale Cicognani -  <<per l'immagine splendente dell'universalità della Chiesa, per i ponti lanciati verso una nuova comprensione di rispetto e di stima verso i fratelli separati, per il palpito di amore e di comprensione rivolto al mondo d'oggi, alle sue ansie e speranze>>. Ma il Concilio è stato innanzi tutto – per dirla con Paolo VI – una sorgente dalla quale scaturisce un fiume; <<la sorgente può essere lontana, la corrente del fiume ci segue>> perché <<il Concilio lascia qualche cosa dietro di sé che dura e continua ad agire>>.

Definire oggi i confini, dire il peso che concretamente il Concilio ha avuto nella vita di ciascuno di noi, indicare le tante delusioni è certo difficile: ma personalmente sono convinto che senza il Concilio non avremmo avuto il grande papa Giovanni Paolo Magno, e poi Benedetto XVI e il nostro Francesco, e la Chiesa avrebbe avuto una dimensione più provinciale e meno ecumenica.  Il Concilio ci ha rivelato la giovinezza della Chiesa – scrivevo 45 anni fa – e la sua fiducia in tutti i giovani del mondo: la nostra è l'età che il mondo deve ascoltare e la nostra risposta non è solo gratitudine, gioia e fierezza di appartenere a questa Chiesa che per Paolo VI “non ha mai cessato di nascere: è anche l'impegno di battere le strade che il Concilio ha aperto”.

Il tema centrale ruota attorno al senso della responsabilità che gli educatori debbono indicare ai giovani, per sviluppare generosità, altruismo, impegno personale. E poi il desiderio di dialogo, di confronto, di adesione convinta, perché anche il dubbio ha diritto di cittadinanza, contro ogni dogma e ogni imposizione dall'alto. Dunque la formazione all'apostolato dei laici con una flessibilità e una tolleranza nuova, cui il Concilio ha dato un impulso straordinario.

Insomma, percepivamo il senso di un'opportunità che ci veniva offerta, sentivamo di agire in uno scenario più ampio, avvertivamo che tante barriere sarebbero state abbattute, anche con riferimento all'impegno ambientale.

Le parole che il nostro Papa Francesco il 19 marzo ha usato nell'omelia della Messa per l'inizio del suo pontificato sono in questa linea, nell'invito a tutti gli uomini di buona volontà di essere <<custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, dell'altro e dell'ambiente>>.

Avevo allora tentato di presentare un quadro dell'associazionismo cattolico in diocesi, indicando i dati sulla partecipazione alla messa domenicale, i sacramenti, il peccato, la fede, l'adesione alle attività caritative. Avevo pensato di distinguere gli studenti appartenenti all'Azione Cattolica dagli studenti cattolici non praticanti, dagli studenti senza alcuna ideologia religiosa (così mi esprimevo), dagli studenti appartenenti ad associazioni filocomuniste (penso alle foto che mons. Pietro Meloni ci faceva vedere negli anni 70 con le file dei clienti in una macelleria polacca sotto la neve nella notte). Anche questa quadripartizione la dice lunga sull'immaturità di chi scriveva con un linguaggio ancora inadeguato, tentando di presentare una storia lunga, uno sviluppo nel tempo, una novità e insieme una preoccupazione, quella di una volontà debole, di un falso rispetto umano, di un facile compromesso con la propria coscienza.

Eppure si scorge in quelle pagine un'impressione profonda che ancora oggi sopravvive, forse una preoccupazione, cioè che le organizzazioni cattoliche effettivamente avevano sentito una violentissima scossa, quando il Concilio aveva proposto loro nuovi metodi, nuovi interessi, nuove responsabilità e autonomie sulla strada dell'evangelizzazione  e dell'ascolto della Parola di Dio. Allora mi ero dichiarato convinto che il Concilio avrebbe segnato una ripresa straordinaria, perché le organizzazioni di Azione Cattolica <<hanno voluto seguire il Concilio, hanno rivoluzionato tutto quello su cui fino a quel momento avevano lavorato e hanno incominciato tutto di nuovo. Esse hanno capito che quello che il Concilio esigeva lo volevano i tempi, lo volevano gli uomini>>, anche perché l'Azione Cattolica nel dopoguerra in Italia aveva in qualche modo preparato la via al Concilio.

Ora il Concilio apriva in maniera sconfinata la porta all'apostolato dei laici che i sacerdoti avrebbero dovuto sostenere e incoraggiare, invitava i giovani a farsi testimoni di verità, responsabilizzava gli studenti cattolici ad operare tra i compagni e nell'ambiente a favore del bene comune, anche nello sport e nel tempo libero, li invitava ad associarsi in cellule, in gruppi, in comunità cittadine e diocesane, diventando “pasta lievitata nella pasta”. Il Concilio aveva mostrato come la Chiesa sappia adeguarsi alle esigenze dei tempi, pur restando sempre fedele e vicina all'insegnamento del Cristo.

In quei mesi il Digest religioso (da “Teologia e Vita”) scriveva alcune frasi di sintesi che avevo voluto riprendere: <<L'entusiasmo giovanile è uno slancio naturale verso la perfezione, che deve essere orientato verso il bene. Allora i giovani scopriranno nel Messaggio Evangelico lo sbocco naturale, il solo possibile, del dinamismo che portano in sé. In caso contrario, il loro orrore per la mediocrità, il loro desiderio di valorizzare la loro vita, li spingerà ad allontanarsi dalla Chiesa e a cercare altrove un ideale di bontà e di grandezza capace di appagare il loro cuore>>.

Oggi tornano in mente le straordinarie parole della costituzione “Apostolicam Actuositatem”, che appaiono attualissime: <<I giovani esercitano un influsso di somma importanza sulla società odierna. Le circostanze della loro vita, le mentalità e gli stessi rapporti con la propria famiglia sono grandemente mutati. Essi passano spesso troppo rapidamente ad una nuova condizione sociale ed economica. Mentre cresce sempre di più la loro importanza sociale ed anche politica, appaiono quasi impari ad affrontare adeguatamente i loro nuovi compiti>>.  <<L'accresciuto loro peso nella società esige da essi una corrispondente attività apostolica: del resto lo stesso carattere naturale li dispone a questo. Col maturare della coscienza della propria personalità, spinti dall'ardore della vita e dalla loro esuberanza, assumono le proprie responsabilità e desiderano prendere il loro posto nella vita sociale e culturale: zelo questo che, se è impregnato dallo spirito di Cristo e animato da obbedienza e amore verso i pastori della Chiesa, fa sperare abbondantissimi frutti>>, perché <<i giovani debbono divenire i primi e immediati apostoli dei giovani>>.

Ritorna allora il carattere missionario della Chiesa proiettato verso il mondo giovanile attraverso l'apostolato dei laici, messaggeri della buona novella.

Come non pensare alla prima lettera di Giovanni che avevo messo in testa alla mia relazione ? <<Ho scritto a voi, giovani, che siete forti e dimora in voi la parola di Dio, e avete vinto il malvagio. Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo non è in lui l'amore del Padre; perché tutte le cose del mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, e il fasto della vita, non provengono dal Padre ma dal mondo. Passa il mondo e anche la concupiscenza di lui; ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno>>.  Avevamo ripeso alcuni di questi concetti in una relazione di gruppo sull'Amicizia e l'Amore tra giovani che avevamo scritto a Bau Mela in Ogliastra in un ritiro della GIAC regionale, dove ero stato spedito dal vescovo per accompagnare un gruppo di adolescenti.

L'8 dicembre 1965, Paolo VI trasmetteva l'ultimo messaggio del Concilio, indirizzandolo ai Giovani, veri destinatari ultimi della <<revisione di vita>> che la Chiesa aveva avviato accendendo la luce che doveva rischiarare l'avvenire: << Perché siete voi che raccoglierete la fiaccola dalle mani dei vostri padri e vivrete nel mondo nel momento delle più gigantesche trasformazioni della sua storia. Siete voi che, raccogliendo il meglio dell'esempio e dell'insegnamento dei vostri genitori e dei vostri maestri, formerete la società di domani: voi vi salverete o perirete con essa. La Chiesa è desiderosa che la società che voi vi accingete a costruire rispetti la dignità, la libertà, il diritto delle persone: e queste persone siete voi. ... Lottate contro ogni egoismo. Rifiutate, di dar libero corso agli istinti della violenza e dell'odio, che generano le guerre e il loro triste corteo di miserie. Siate: generosi, puri, rispettosi, sinceri. E costruite nell'entusiasmo un mondo migliore di quello attuale>>.

A distanza di quasi cinquanta anni quelle parole emozionano ancora, anche se resta forte l'impressione di tante occasioni perdute, di tante premesse rimaste solo virtuali, di tanti impegni non mantenuti da parte di ciascuno di noi e di tutti.

Molti furono gli effetti concreti del Concilio, primo tra tutti per quanto ci riguarda l'unificazione della Azione cattolica, la scomparsa della GIAC di cui fui l'ultimo presidente o meglio propresidente diocesano, le votazioni democratiche che portarono ad un'organizzazione unitaria, dove uomini e donne dovevano confrontarsi e interagire.

Un'altra conseguenza mi pare sia stata anche la chiusura del Seminario tridentino di Cuglieri, nel 1970, il trasferimento a Cagliari, un evento drammatico, difficile, inizialmente frainteso,  che avevo contestato su “Libertà” interpretando i sentimenti di molti sardi e di molti diocesani, criticando l'isolamento dei seminaristi nel contesto cittadino cagliaritano, l'iniziale dispersione degli allievi tra il Seminario Regionale di Via Parragues (una traversa di Via Cadello) e altre sedi, fino alla Facoltà Teologica di Via Sanjust, gli scarsi rapporti proprio della Facoltà Teologica con le Università storiche statali di Cagliari e Sassari fondate dai Gesuiti. Sarebbe stato il nostro amato Padre Natalino Spaccapelo a raccogliere quella protesta, a colmare quella divaricazione e a dare molti segnali di collaborazione che ancora continuano con Maurizio Teani, partendo dal volume su Eusebio di Vercelli alla fine degli anni 90, poi con Simmaco, Fulgenzio e Gregorio Magno e la straordinaria rivista Teologica & Historica aperta ai laici.

Ho letto in occasione della pausa pasquale gli Atti del convegno ecclesiale della diocesi  di Alghero-Bosa dell'ottobre 2011, con il volumetto intitolato “Dio educa il suo popolo con la parola”, dove compaiono sintetizzati in una prospettiva di stretta attualità i problemi del “mondo giovani” in alcune schede che utilizzano un linguaggio nuovo, partendo da tre prospettive, i giovani con i loro vissuti, il dono della Parola di Dio narrata nella storia delle giovani generazioni, le comunità cristiane quali luoghi di accoglienza, accompagnamento e formazione. Sono rimasto stupito e in qualche modo impreparato di fronte a questo nuovo linguaggio, che testimonia un salto culturale e una profondità nuova nella chiesa di oggi. Eppure, i nuovi modelli di evangelizzazione tanto collegati in modo essenziale con il vissuto dei nostri giovani, non possono non partire dalla lezione del Concilio Vaticano II, dalla profonda riflessione di 50 anni fa, che rimane vitale anche per noi uomini d'oggi alla ricerca di una possibile riconciliazione.

Ultimo aggiornamento Martedì 23 Aprile 2013 10:41

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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