Presentazione del volume La Sardegna di Thomas Ashby, fotografie 1906-1912. Paesaggi, Archeologia, Comunità.

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Scritto da Administrator | 15 Maggio 2014

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Presentazione del volume La Sardegna di Thomas Ashby, fotografie 1906-1912. Paesaggi, Archeologia, Comunità
Roma, 15 maggio 2014

Cari amici, Caro Christopher Smith,

Ho trovato prodigioso questo riemergere dal passato di luoghi, monumenti, paesaggi, tradizioni della Sardegna che non conoscevamo, attraverso queste bellissime immagini di Thomas Asshby, pubblicate in questo volume e in questa mostra dall’Editore Carlo Delfino d’intesa con la British School at Rome, con la collaborazione di tanti soggetti diversi, grazie al mecenatismo di Ivano Spallanzani e della Banca di Sassari.  Porto il saluto del mio Ateneo, ma parlo anche a nome dell’amico prof. Giovanni Melis, Rettore dell’Università di Cagliari, che si associa nell’apprezzamento per il lavoro svolto con passione e straordinario successo.

I cinque viaggi in Sardegna di Thomas Ashby fra il 1906 e il 1912 rappresentano un capitolo tra i più importanti nella storia dei viaggiatori che hanno descritto l’isola a partire dall’Ottocento, soprattutto grazie ad una straordinaria documentazione fotografica fin qui pressoché ignorata: nell’intreccio tra storia e geografia ora riemerge il paesaggio trasformato dall’uomo, la natura, l’ambiente dei primi del secolo scorso, ma anche il patrimonio culturale e identitario, eredità di un passato lontano come le torri nuragiche che marchiano l’isola dalle vene d’argento, una terra rimasta prodigiosamente quasi fuori dal tempo, chiusa nella sua identità, irrigidita nei suoi costumi millenari che rimandano ai Sardi Pelliti raccontati da Tito Livio durante la guerra annibalica, che abitano ancora in capanne o in pinnette come a Paulilatino, che macinano il grano nelle mole di pietra, che utilizzano i ruscelli per muovere i molini ad acqua.

Del resto la Sardegna non aveva rappresentato nell’epopea del Grand Tour una meta significativa, innanzi tutto perché la sua collocazione geografica e culturale non la rendeva davvero appetibile ai cultori europei della civiltà greca, romana, cristiana. D’altro canto l’isola selvaggia e arcaica si aprì inizialmente alla conoscenza europea grazie alla cultura francese, con il bibliotecario di Versailles Antoine Claude Pasquin (Valery) e con Alberto Lamarmora, premiato a Dresda da Napoleone con la legion d’onore: egli aveva iniziato i suoi viaggi in Sardegna nel 1819, pubblicando il Voyage nel 1826 e l’Itinéraire nel 1860.  Il La Marmora utilizzò per la sua celebre carta geografica dell’isola la carta nautica redatta nel 1824 dal capitano William Henry Smyth per conto dell'Ammiragliato britannico.

La vera scoperta britannica della Sardegna interna fu dovuta, comunque, all’archeologia: il primo viaggiatore nell’isola fu il quinto Barone Vernon, che giunse in Sardegna nel 1851 per compiere scavi a Tharros, dove mise in luce quattordici tombe a camera cartaginesi ricche di corredi preziosi, che comprendevano sigilli-scarabei, oreficerie, argenti, bronzi e ceramiche.  Un altro Lord inglese, William Fox Talbot, uno degli inventori della fotografia, fu a in Sardegna nel 1852 per proseguire le ricerche archeologiche a Tharros.. Questa liaison fra Tharros e l’Inghilterra fu ribadita, nel 1851, dall’accoglienza del Direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara e del Canonico Giovanni Spano nella British Archaeological Association in qualità di membri onorari stranieri.

Nel 1856 il British Museum acquistò da Rubicondo Barbetti, responsabile delle saline in Sardegna e sodale del Direttore del Museo cagliaritano Gaetano Cara, i corredi di 32 tombe tarrensi. Lo stesso Gaetano Cara (alias mister Olivetti) col figlio Francesco l’anno seguente fece battere all’asta da Christie’s a Londra oltre 2600 reperti archeologici da Tharros.

A redimere questo incredibile e un poco spregiudicato mercato inglese di antichità sarde attraverso l’attività scientifica in Sardegna fu proprio l’impegno della neonata Accademia Britannica di Roma, fondata nel 1901. Al contrario della Grecia che consentiva agli archeologi dell’Accademia Britannica di Atene di effettuare scavi archeologici, l’Italia negava questa possibilità agli studiosi della British School at Rome, che comunque sviluppò una straordinaria attività di ricerca scientifica sia con il catalogo delle sculture antiche del comune di Roma, sia con le ricerche topografiche di Thomas Ashby.

I viaggi in Sardegna del giovane Direttore della British School posero in rapporto Ashby con il grande archeologo Antonio Taramelli e con il soprastante Filippo Nissardi; quest’ultimo aveva lavorato per conto di Theodor Mommsen e per Johannes Schmidt per il Corpus Inscriptionum Latinarum. Taramelli invece aveva maturato una conoscenza della archeologia inglese a Creta, dominata da Sir Arthur Evans, che si sarebbe appoggiato ad un importante archeologo scozzese Duncan Mackenzie, cui dobbiamo la scoperta dell’insediamento neolitico di Pkylacopi nell’isola di Milos (l’antica Melos, la più occidentale delle Cicladi meridionali). Proprio Mackenzie indagò in Sardegna le strutture megalitiche dei dolmen, delle tombe di giganti e dei nuraghi tra il 1906 e il 1908.  Già il primo viaggio in Sardegna di Ashby nel 1906 è effettuato in compagnia proprio di Duncan Mackenzie e si svolge otto anni dopo il viaggio del domenicano inglese Peter Paul Mackey per conto della British and American Archaeological Society.

Questa mostra ci comunica la memoria fotografica di questa Sardegna archeologica, ma anche paesaggistica e demo-antropologica di un secolo fa, con queste straordinarie immagini, che raccontano un passato che oggi sembra lontanissimo, ma che a sua volta era lontanissimo dalla prima vera documentazione uscita dalla Sardegna ad opera del can. Giovanni Spano, che solo pochi decenni prima aveva partecipato al V congresso archeologico preistorico di Bologna del 1871 all’inizio del Regno d’Italia. Attraverso queste fotografie sembrano passati millenni, con un’isola che era in realtà una terra incognita, che finalmente si scopre al mondo, vista da Ashby attraverso l’obiettivo con mille con curiosità, con passione, con competenza, con uno sguardo intelligente e partecipe.

Si tratta di un magnum opus che, con il concorso della British School at Rome, dei ricercatori delle due Università Sarde associate, delle Soprintendenze sarde, dell’Accademia delle Belle Arti Sironi di Sassari, è stato coordinato da una giovane e appassionata archeologa sarda, Giuseppina Manca di Mores e curato magnificamente dall’editore Carlo Delfino.

Il libro e la mostra che oggi inauguriamo ci dicono molto sull’autore ma ci restituiscono anche una Sardegna lontana, segnata da un paesaggio dell’età del bronzo, ma anche di età punica, romana, medievale, fin negli angoli più nascosti, come nella valle di Antas presso il tempio del Sardus Pater allora ancora non identificato, ma di cui per la prima volta si pubblicava una foto delle strutture di base e qualche frammento dell’epigrafe monumentale di Caracalla. Oppure a Neapolis presso la chiesa di SM di Nabui, oppure tra le tombe puniche abitate da senzatetto a Sulci, o presso il teatro romano di Nora.  Colpisce il cuore vedere l’anfiteatro di Cagliari così come era conservato all’inizio del 900 o il ponte romano sul Taloro a Gavoi, ora sotto il lago di Gusana,  i mosaici marini delle terme di Bonaria. E poi e tombe di giganti, le miniere, le chiese cadenti.

La storia della Landscape Archaeology di marca britannica ci offre già attraverso l’obiettivo di Thomas Ashby tutta la ricchezza che la scuola inglese avrebbe prodotto nella seconda metà del XX secolo e che in qualche modo avrebbe trasformato dalle fondamenta l’archeologia del Mediterraneo, rinnovando metodi e categorie interpretative della realtà antica. Per queste ragioni le Università di Cagliari e di Sassari hanno concesso entrambe il patrocinio alla mostra, frutto di una comune collaborazione scientifica e testimonianza della volontà di promuovere sinergie e collaborazioni di livello internazionale.

Porto oggi il sentimento di gratitudine della Sardegna tutta per questi documenti che acquisiamo oggi, ritrovando un mondo che ci appartiene nel profondo.

Ultimo aggiornamento Giovedì 15 Maggio 2014 17:42

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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