Sardegna e Mediterraneo tra Medioevo ed Età Moderna

PDFStampaE-mail

Notizie - Archivio
Scritto da AM | 11 Maggio 2010

Valutazione attuale: / 1
ScarsoOttimo 
Sardegna e Mediterraneo tra Medioevo ed Età Moderna.
Studi in onore di  Francesco Cesare Casula
a cura di Maria Giuseppina Meloni e Olivetta Schena
Intervento di Attilio Mastino
(con il contributo di Franco G.R. Campus)

Cari amici,

torno con emozione in questa Aula Magna rinnovata, tra tante persone che mi sono care, in questa Aula Magna nella quale mi sono lauereato quasi 40 anni fa. Debbo a Giovanni Melis, a Maria Giuseppina Meloni, a Olivetta Schena, a Luca Codignola Bo il piacere di presentare oggi a Cagliari questo volume intitolato Sardegna e Mediterraneo tra Medioevo ed Età Moderna edito dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del Consiglio Nazionale delle ricerche offerto a Franceco Cesare Casula da allievi e colleghi.

Un libro denso di 17 studi originali che spaziano dalla Sardegna giudicale all’età contemporanea, con significativi allargamenti e proiezioni di interessi e di prospettive storiografiche verso la Penisola iberica, la Penisola italiana, le isole mediterranee e il Nord Africa, sulla linea ideale che rimanda alle originali passioni della scuola di ricerca fondata da Alberto Boscolo. Di questa scuola Francesco Cesare Casula è stato e continua ad essere uno tra i più significativi esponenti, impegnato in sottili indagini filologiche e paleografiche, ma capace di proiettare il suo pensiero su livelli alti di una riflessione, che in questi ultimi anni ha assunto posizioni certo controverse, ma assolutamente stimolanti ed originali nel panorama internazionale.

Quello che presentiamo oggi è  un significativo e generoso omaggio dei colleghi, allievi e collaboratori dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del CNR di Cagliari e delle Università degli Studi di Cagliari e di Sassari ad un maestro amato e ammirato, che per tanti anni è stato direttore dell’Istituto di Studi Italo-Iberici e poi dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea e professore di Storia Medioevale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari.

Come osservano le curatrici, nel corso della sua brillante carriera accademica, grazie alla sua ricca e diversificata produzione scientifica, Francesco Cesare Casula ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza e all’approfondimento della storia medioevale della Sardegna, inserendola in un ampio contesto mediterraneo. È stato, ed è ancora, inoltre, un punto di riferimento per molti giovani, ai quali ha offerto l’opportunità di ampliare le proprie conoscenze e di incamminarsi verso il mondo della ricerca. Per sua iniziativa sono state pubblicate collane di monografie e di opere miscellanee e anche una rivista prestigiosa, come “Medioevo. Saggi e Rassegne” che per 25 anni ha raccolto le migliori ricerche riguardanti nello specifico le relazioni tra i popoli che tra l’antichità e l’Età Moderna ebbero come spazio comune il Mediterraneo. Tematiche riprese con solide basi nella nuova collana dell’ISEM.

Francesco Cesare Casula ha anche promosso, con lucida insistenza, la pubblicazione della collana che raccoglie i documenti necessari per la storia della Sardegna, prima nella Coleccion de documentos ineditos in collaborazione con l’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, e successivamente, e personalmente penso anche meglio, nella nuova collana denominata Documenti per il Regno di Sardegna.

Luca Codignola, che dal 1 giugno 2008 ha avuto l’onore di sostituire Cesare Casula quale direttore dell’Istituto CNR sintetizza le ragioni di un debito di riconoscenza contratto anche in relazione alle sinergie che hanno consentito di far convergere nell’ISEM l’Istituto di Studi Italo-Iberici di Cagliari, il Centro di Studi sulla Storia della Tecnica di Genova, il Centro per lo Studio delle Letterature e delle Culture delle Aree Emergenti di Torino e la sua sezione di Milano, già diretti, rispettivamente, dai professori Carlo Maccagni, Sergio Zoppi e Giuseppe Bellini.

Nel suo intervento, Luigi Leurini, direttore del Dipartimento di Filologia classica, Glottologia e Scienze storiche dell’Antichità e del Medioevo, richiama il magistero di Francesco Cesare Casula e  sottolinea la varietà dei temi trattati in questo volume, che tocca argomenti relativi ad aspetti politici, economici, culturali e più ampiamente sociali che hanno riguardato la storia della Sardegna dal periodo giudicale all’età moderna. Tematiche, queste, tutte ben presenti nella attività di ricerca di Francesco Cesare Casula come ben dimostra l’elenco di oltre 20 pagine che raccoglie, al momento, tutte le sue pubblicazioni.

Graziano Milia, infine, scrive come Presidente della Provincia di Cagliari, ma credo meglio come suo ex allievo, con la gratitudine verso il docente e lo studioso che, in oltre quarant’anni di instancabile impegno, ha formato generazioni di studenti e di ricercatori.

Permettete anche a me di richiamare le tante occasioni di incontro e di dibattito che ho avuto con Cesare Casula, l’ammirazione per la sua prodigiosa attività e per le sue straordinarie capacità di comunicazione, come già a Bosa ahimé ormai 30 anni fa, in occasione della settimana della Scuola di specializzazione in Studi Sardi, oppure a Sassari per una serie di conferenze sul senso della storia, oppure a Cagliari, a parlare di Carta de Logu e di statualità, ma in tanti altri centri della Sardegna, perché Casula è riuscito in quel campo difficile e faticoso della divulgazione con una capillare penetrazione delle sue opere e delle sue idee anche nei comuni più lontani, invitato dalle Università della terza età, da appassionati, da club di servizio, da scuole,  e non ha tralasciato di utilizzare mezzi di comunicazione come la televisione (le sue lezioni a Videolina ancora prima del Consorzio Nettuno) ma anche attraverso i fumetti. Un precursore, ma seguendo quella vecchia tradizione che proveniva da quelle scuole politiche che prediligevano, rispetto ad oggi, il contatto diretto con la gente, Casula non si è mai sottratto al faccia a faccia con tutti, dal normale appassionato al politico più alto al vertice dello Stato. Mostrando sempre disponibilità, attenzione, ironia e mai raccogliendo lo scontro fine a se stesso.

Ora questa occasione mi consente di dire quella la stima e quell’ammirazione e l’affetto che provo per lui non è un sentimento esclusivo, ma la ritrovo quotidianamente a Sassari nei suoi colleghi Giuseppe Meloni, Angelo Castellaccio, e nei suoi allievi di prima generazione come Pinuccia Simbula, e in quelli di seconda generazione come Alessandro Soddu, Mauro Giacomo Sanna e Franco Campus. Quest’ultimo mi ha assistito nella preparazione di questo intervento, anche perché non sono propriamente uno specialista di storia medievale.

Il volume è composto seguendo l’ordine alfabetico degli autori. Io, se permettete, ho cercato di scomporlo secondo i diversi temi trattati, partendo dall’età giudicale, che per Casula rappresenta la vera originalità della storia della Sardegna, differenziandosi nettamente da Giovanni Lilliu, per il quale la storia della Sardegna è fondata su un mito, il mito dell'età dell'oro dell'epoca nuragica, una cultura non pacifica ed imbelle ma conflittuale, quando le armi venivano usate dagli eroi per difendere l'autonomia,  l'autogoverno, la sovranità del popolo sardo, quando i sardi erano protagonisti e padroni del loro mare. Per Lilliu la preistoria e la protostoria sono il tempo della libertà, prima che i popoli vincitori e colonizzatori imponessero una cultura altra. Gli altipiani ed i monti al centro dell'isola erano l'antico grande regno dei pastori indipendenti. Furono i Cartaginesi e poi i Romani a creare una Sardegna bipolare, quella dei mercanti e dei collaborazionisti della costa e quella dei guerrieri resistenti dell'interno: verso questo popolo della Barbagia accerchiato ed assediato vanno le simpatie di Lilliu, che denuncia la violenza dell'imperialismo e del colonialismo romano, giunto fino ad espropriare i Sardi della loro terra, della loro libertà, perfino della loro lingua.

Per Casula la storia della Sardegna si compie nei quattro regni giudicali, si esprime nella sovranità dei giudici, nelle sedute delle Coronas de rennu, nelle curatorie, perché il cuore della storia è rappresentato dal grado di consapevolezza con la quale i Sardi veri acquisiscono il concetto di sovranità perfetta, alla base di un’autonomia da costruire per l’oggi.

Proprio l’età giudicale rappresenta il nucleo centrale di questo volume di studi in onore, ma devo confessare di averlo iniziato a leggere partendo dall’accattivante articolo di Barbara Fois sulle Le donne, il matrimonio, l’amore e il sesso nella Sardegna giudicale un particolare punto di osservazione, non solo femminile, della società medievale.

Si parte con Il matrimonio. E’ noto come nella Sardegna medievale ci fossero due tipi di sponsali, a “sa pisanisca”, di ispirazione continentale dove era previsto il versamento, in favore del marito, della  dote sulla quale la donna non aveva alcun diritto, e quello a “sa sardischa” che prevedeva, con una perfetta parità giuridica tra uomo e donna, la conservazione dei beni personali e la messa in comune solo delle rendite e dei beni acquisiti dopo il matrimonio personale. Il lavoro della Fois appare particolarmente interessante nella ricerca delle testimonianze delle ritualità, dei luoghi, e sulle trattative preliminari. Certamente non si trattava di matrimoni in chiesa o davanti a esponenti religiosi dato che questo non fu considerato un sacramento sino al Concilio di Trento del 1570. Ma certamente appare affascinante immaginare il rito, confermato da un passo del Condaghe di S. Pietro di Sorres nella formula “a cclaru et a facke”, che sembra dividere questa cerimonia in due fasi distinte: una alla luce del giorno con la firma del  contratto matrimoniale (a cclaru) e una notturna (et a facke) con l’accompagnamento notturno della sposa alla casa del marito. Una prassi conservata anche nei secoli successivi se in un documento più tardo, datato Sassari 20 settembre 1568, scritto da uno scandalizzatissimo gesuita, padre Baldassarre Piñas, si parla con dovizia di particolari di preti sposati e della cerimonia del matrimonio, in uso in Sardegna:  “si accasano con determinate cerimonie, e i genitori e i parenti della donna la accompagnano fino a casa sua, ed essa è la più onorata del villaggio e si accasano mediante scrittura, la quale, dicono, stabilisce che i beni che acquisteranno li divideranno a metà”.

L’amore. Anche nella Sardegna medievale amore e matrimonio erano due concetti quasi incompatibili tra loro, e in questo non vi erano distinzioni di sesso. Valeva la ragion di stato sia per i donnikellos destinati a ricoprire la carica di giudice, ma in modo particolare anche per le donnikellas destinate a portare il titolo per i figli che verranno. Forse una qualche forma di libertà, ma nel senso del nostro modo di vedere, avevano le donne e gli uomini che appartenevano al ceto dei maiores. Un dato che si ricava dal fatto che, nella documentazione giudicale, non è del tutto raro annotare donne facoltose unite con uomini decisamente poveri. Tutto questo nel contesto del rigido mondo medievale che basa le unioni sul principio del consensum e mai sulla passione, ma il caso sardo mostrerebbe un particolare livello di emancipazione della figura femminile. Le donne libere erano, dunque, libere per davvero, anche nella possibilità di amare e di scegliere il proprio compagno di vita. Ma non così era per le serve. I Condaghi sono ricchi di kertos che rivelano le vicende di povere serve che, in nome dell’amore per un uomo, di solito un altro servo, reagiscono con la fuga per evitare di sottostare al volere dei loro padroni che invece tendono ad unire tra loro le persone di loro pertinenza. Lo scopo era quello di conservare il possesso anche sui figli che conseguentemente non dovranno essere spartiti con nessun altro padrone.

Il sesso. Secondo la Fois il sesso nella Sardegna giudicale era molto più libero e disinibito e si evince non solo dagli aspetti si qui detti. I documenti riportano l’alto numero dei figli nati in forritzu, cioè in fornicazione, illegittimamente e fuori dal matrimonio. Questo non significava una diminutio per chi è illegittimo, né sembra che ci fosse qualcuno che meravigliasse di questo alto numero. Le unioni promiscue, diciamo così, le possiamo definire non solo un costume diffuso e normale ma anche trasversali: una serva Susanna Kerbu aveva dato alla luce un figlio, Jorgi de Fokile, concepito in furritzu col genero! Una la società giudicale libera nei costumi sessuali e molto poco classista: donne libere sposano o hanno amanti di condizione servile e viceversa uomini liberi sposano serve, ma tutti, come scrive la Fois alquanto divertita “pare si diano un gran daffare fra le lenzuola, compresi i preti”. La Carta de Logu su questi temi non distingue mai fra liberi e servi, anche quando l’argomento diventa serio e scottante e si parla di violenza carnale. Il capitolo prevede la possibilità di un matrimonio fra la donna nubile e lo stupratore, ma solo se si placchiat assa femina; se lei non lo vuole, lui dovrà farle la dote, pena il taglio di un piede, oltre alla multa che dovrà pagare. Ma c’è una considerazione ancora più interessante: e cioè che nella norma non si fa distinzione di trattamento fra una vergine ed una donne nubile. Nel testo viene definita anche la figura della jurada, che forse potrebbe voler dire promessa, fidanzata, ma nel contempo questa norma ci dice anche che non era raro che donne nubili non fossero più illibate, e questo non faceva nessuna differenza, dunque non si attribuiva alla verginità il valore di una virtù.

Tagli meno trasgressivi sono invece presenti nel saggio di Giuseppe Meloni, sulla La conoscenza del territorio tra storia e microstoria. La curatoria di Dore. Il contributo che ha come pretesto l’analisi di un distretto territoriale del Regno di Torres, in realtà spazia su tutti i temi cruciali pertinenti l’insediamento della Sardegna medievale: dalle metodologie di approccio, comprendendo in questo non i documenti di archivio ma anche i dati originali offerti dalle ricerche archeologiche, al tema delle cause degli abbandoni connesse ad una pluralità di fattori come la guerra, la diffusione della peste, ma anche a motivazioni di carattere economico. Meloni compie un’ampia sintesi anche della storiografia tradizionale: dal Fara che descriveva questa parte dell’Isola come caratterizzata da “valli fertili e ridenti campi ricchi di messi, fiumi irrigui, colline vocate alla viticultura e all’arboricultura ed opulenta di armenti e greggi”, alle tematiche interpretative più diffuse emerse dagli studi di John Day, Angela Tersosu Asole, Marco Tangheroni e ovviamente Francesco Cesare Casula, ma anche nei nuovi progetti di ricerca promossi in particolare dall’Università di Sassari e Cagliari e portati avanti dalle nuove leve dei ricercatori. Scrive Giuseppe Meloni: «il tema dell’insediamento medievale nelle sue forme, differenziazioni e fluttuazioni, diventa così vitale per capire fino in fondo il quadro sociale, economico, e di riflesso politico-militare, di una regione come la Sardegna e soprattutto delle differenze  che esistono  tra aree periferiche e aree dell’interno. Questi sviluppi storici appaiono il più delle volte (particolarmente per i secoli XIV-XV) totalmente fuori dagli schemi tradizionali». L’analisi sul territorio è una di base di partenza, ma ha in sé una precisa metodologia di approccio, affrontare il tutto non isolando nessun elemento perché tutto sta in relazione con tutto, ossia non si può isolare un processo da un altro. In questo rientrano anche i dati sui sistemi insediativi precedenti (preistorici, classici), ma anche la loro evoluzione nel corso del tempo. Un progetto di Histoire totale che risale nella sue definizioni al grande Marc Bloch.

Su questo filone si inserisce sia Sebastiana Nocco, sulLa definizione della linea di confine tra due comunità della Sardegna nei secc. XIV-XIX che il lavoro di Giovanni Serreli, su Alcuni casi di pianificazione dell’insediamento in epoca giudicale. Nel primo caso il contributo si concentra all’analisi di una circoscrizione territoriale, la Nurra, contesa oltre quattro secoli dalle due città di Alghero e Sassari. La vicenda è stata in questa sede ripercorsa ricorrendo a fonti di vario genere: dai privilegi, agli atti parlamentari, ai fascicoli processuali con annessa documentazione scritta e cartografica. La presenza eccezionale di un apparato cartografico prodotto a supporto delle istanze della città di Alghero rende ancora più interessante questo spaccato di storia locale che tuttavia si inserisce, vista anche la documentazione studiata, come supporto originale nel più vasto dibattito della nuova definizione del paesaggio all’indomani della grande stagione dell’abbandono dei villaggi nella seconda metà del XIV secolo. Uno spazio geografico di ricerca che oggi sta ritrovando un rinnovato intesse grazie alle nuove ricerche archeologiche condotte sul sito nuragico di S. Imbenia, da parte di Marco Rendeli dell’Università di Sassari, e più in generale su tutta la struttura insediativa pertinente alle epoche successive (Franco Campus, Alessandro Soddu). Un’area che in età romana, secondo le indicazioni di Tolomeo, ospitava il porto Ninfeo dove si localizza una delle più vaste ville di età imperiale della Sardegna settentrionale. Durante il periodo medievale la Nurra è oggetto di particolare attenzione da parte dell’autorità giudicale mediante la prassi delle concessioni all’Opera di S. Maria di Pisa, ma in aggiunta è lo spazio primigenio dei Doria che, a partire dal 1235, agirono come veri e propri agenti per lo sviluppo di nuove aree di colonizzazione.

Giovanni Serreli, si concentra a tale proposito su Alcuni casi di pianificazione dell’insediamento in epoca giudicale. L’autore si pone come obbiettivo la possibile individuazione di una politica di pianificazione, gestione o razionalizzazione dell’insediamento esercitata dai regnanti giudicali. Certamente, il punto di partenza, è la stessa struttura che suddivideva in curatorìe o partes i regni Torres, Càlari, Arborea e Gallura. Una suddivisione certamente non frutto della casualità della storia, ma bensì frutto di esperienze sedimentate nel corso dei secoli. Un forte determinismo era dovuto dalla continuità con il sistema insediativo dei secoli precedenti. Un esempio per tutti il quadro delle viabilità medievali che ricalcavano il più delle volte quelle di età romana, come nel caso della a Turre Karales costruita dall’età di Augusto, che nella documentazione medievale, precisamente nel Condaghe di S. Pietro di Silki, è ricordata a più riprese come la via maiore, o la via Turresa (con l’aggettivo che mostra il superamento del classico Turritana). In un documento del 1206, pubblicato dal Solmi nel IV volume dell’Archivio Storico Sardo, è riportato come il confine tra il giudicato di Cagliari e Arborea, venne fissato da Guglielmo di Massa proprio dove «vi est sa pedra fita ki si clamat Petra de Miliaru». Una citazione che si presenta come la più lontana testimonianza della sopravvivenza dei miliari romani lungo questa fondamentale arteria stradale. Una strada contornata di villaggi che nella loro accezione toponomastica tradivano il riferimento alle distanze in miglia romane (Ottava, Decimo, Quarto), ma anche il ricordo delle stesse stationes degli itinerari come nel caso di Molaria, oggi Mulargia, tra Hafa e ad Medias. Come non ricordare in questo frangente il distretto della Romangia che certamente ha in sé un preciso riferimento geografico al  territorio pertinente alla colonia romana di Turris. In questo senso il maestro, Francesco Cesare Casula, aveva già annotato come i condaghi siano chiaramente espressione di una “spiccata atmosfera romanza”, con riferimenti ad usi e tradizioni di età bizantina, di età romana o addirittura di età preistorica. Serreli attraverso la documentazione analizzata, mette in evidenza l’attenzione dei sovrani giudicali verso l’insediamento con il fine di vitalizzare e ripopolare aree deserte e poco sfruttate mediante l’inserimento degli ordini monastici. Il caso più noto di questa prassi è quello della donazione a Santa Maria di Bonarcado di territori e beni da parte del giudice Costantino di Arborea con il patto che gli abati che si succederanno «regant illud et ordinent et lavorent et edificent et plantenet». Sono queste le basi del perché nel giudicato di Arborea nasce e prende forza il mito del re che fonda borghi e città. Come nel caso più noto di Burgos ai piedi dell’antico castello del Goceano grazie alla carta emanata intorno al 1339 dall’ancora donnikellu Mariano, che forse agiva in concorrenza e in parallelo a quanto veniva portato avanti nello stesso periodo dal fratello Giovanni nell’area del Monteacuto e soprattutto in quello della Bosa Nuova, sorta ai piedi del castello fondato dai Malaspina, passata definitivamente agli Arborea nel 1317. I più recenti dati archeologici mostrano inequivocabilmente come la fase di monumentalizzazione della fortificazione, come la torre maestra e le nuove torri lungo la cinta muraria, fu intrapresa solo a partire dagli anni venti del XIV secolo. In definitiva lo studio di Serreli offre un primo campionario delle attività di gestione e pianificazione da parte dei giudici sardi che operavano in virtù di un alto livello di controllo dei territori del proprio stato, ma sono certo che gli esempi in questo senso potranno nel prossimo futuro moltiplicarsi. È una linea di ricerca che si annuncia quanto mai fertile e stimolante dove le nuove leve di ricercatori dimostrano di ben padroneggiare e gestire i dati a disposizione.

Sul tema della penetrazione degli ordini monastici si è invece soffermata Olivetta Schena, con il saggio sulla Carta Sarda in caratteri greci: note diplomatistiche e paleografiche emanata dal “giudice” Costantino Salusio II fra 1081 e il 1089, scritta in caratteri greci ma in lingua volgare campidanese. Ogni volta che ci si sofferma sulla quantità e qualità della documentazione scritta prodotta in Sardegna occorre a mio avviso compiere una riflessione storiografica: il prolungato silenzio della scrittura (fino ad oltre la metà dell’XI secolo) è stato infatti interpretato, da una parte, come un segno di arretratezza culturale e dell’affermazione della cultura orale, dall’altra come un effetto diretto dell’azione cruenta dei dominatori succedutisi nel tempo, in termini di sottrazione e distruzione della documentazione. Gli accenni di questi “disastri” si trovano anche nel noto inno di Ignazio Mannu del 1794 contro i feudatari Su patriotu sardu a sos feudatarios (Procurade de moderare) che riporta testualmente come:

«S’isula hat arruinadu
Custa razza de bastardos;
Sos privilegios sardos
Issos nos hana leadu,
Dae sos archivios furadu
Nos hana sas mezzus pezzas
Et che iscritturas bezzas
Las hana fattas bruiare».

Queste letture storiografiche hanno un in sé i caratteri della verità, ma tuttavia non tengono conto di un’altra ragione “di struttura”, ossia della realtà di un contesto politico – quello “alto-giudicale” – egemonizzato da quelle poche famiglie eredi della classe dei funzionari bizantini. Se è vero che nel primo secolo dopo il Mille la Sardegna segna un “ritorno all’Occidente”, come lo definì con perfetta lucidità Marco Tangheroni, è tuttavia ancor più vero che da questo momento lo storico che voglia occuparsi del periodo medievale della Sardegna, abbandona il campo delle congetture ed inizia, per la prima volta, ad operare attraverso gli strumenti conoscitivi offerti dalla lettura delle fonti scritte. Fonti scritte, e lo dico con una certa invidia da parte mia mi occupo di età classica, che provengono dai quattro regni autonomamente e simultaneamente. Una ripresa che non è attribuibile al caso, ma che appare sempre più motivata dal fatto che i giudicati entrarono in diretto contatto con quelle entità che esercitavano le loro prerogative di controllo e gestione dei beni immobili attraverso lo strumento del documento scritto. Il documento in oggetto, infatti, riguarda la conferma delle donazioni fatte dal padre Orzocco Torchitorio I e dal nonno Mariano Salusio I alla chiesa di San Saturno. «Un caso esemplare di confluenza di problematiche e metodologie diverse – diplomatistiche, paleografiche, linguistiche- : uno spaccato della situazione storica della Sardegna come nodo fra civiltà mediterranee diverse ma complementari». Aspetti che persistono nella porzione meridionale dell’Isola dove l’aspetto della grecità appare evidente non solo attraverso le testimonianze epigrafiche, ma anche nella ostinata conservazione, nella titolatura dei giudici, di cariche di ispirazione greco-bizantina e nell’uso, attestato solo nel meridione dell’isola, del doppio nome, uno dinastico: Torchitorio o Salusio che si alternavano rigorosamente, seguito da quello personale come Barisone, Costantino. La carta sarda, quindi, appare come la testimonianza tangibile della medesima tenace continuità culturale ma fortemente significativa delle consuetudini cancelleresche locali. Una serie di documenti che, anche se pensati in sardo, potevano essere scritti in caratteri greci, a prova che i primi giudici di Cagliari si sentivano realmente e ideologicamente diretti e legittimi eredi della precedente amministrazione bizantina.

Il saggio di Angelo Castellaccio (Castelli e fortezze nella Sardegna medioevale: il periodo genovese) è nella pratica una sintesi su una delle tematiche credo più care a Francesco Cesare Casula: il tema degli insediamenti fortificati e delle forme territoriali del potere signorile. Casula in questo è stato uno dei precursori coniugando, dal punto di vista storiografico, la necessità di una certa localizzazione delle strutture nel confronto alle centinaia di villaggi abbandonati. Una considerazione evidente anche dal fatto che l’esigenza di riproporre una nuova quantificazione delle fortificazioni nel concreto emerse solo nel 1980, all’interno dell’Atlante della Sardegna, cinquant’anni dopo il lavoro di Raimondo Carta Raspi e dopo il più noto volume di Foiso Fois. Casula, che in quella sede presentò una sintesi storico-geografica dei castelli e dei villaggi abbandonati, aveva posto l’accento sul fatto che i castelli di età bizantina erano il prodotto di una strategia volta alla protezione delle valli dalle incursioni delle popolazioni localizzate nelle montagne, mentre, la successiva suddivisione istituzionale del territorio regionale (i giudicati) rappresentava per lo studioso la causa per costruzione di nuovi castelli destinati al controllo e alla difesa dei confini. La loro distribuzione sul territorio era lo specchio dei rapporti di forza tra i quattro regni giudicali. Successivo a questa vi era lo sviluppo delle nuove fortificazioni, tutte da ricondurre alla presenza delle famiglie signorili. Ad esempio, i Doria per Castelsardo, Alghero e Monteleone, i Malaspina per Bosa e Osilo. Questi castelli rappresentavano un ruolo di immediata novità nell’evoluzione socio insediativa. Casula, ma anche Castellaccio in questo saggio, pongono l’accento sulla necessità di ampliare e coordinare le indagini, evidenziando allo stesso modo le committenze, le caratteristiche costruttive, le tattiche di difesa militare, le maestranze e le diverse entità finanziarie necessarie alla loro costruzione. Questo è nei fatti il campo delle nuove ricerche orientate non solo all’interno degli archivi, ma anche sul “campo” e nel vasto ambito tematico dei paesaggi medievali e delle ricerche interdisciplinari di tipo storico e archeologico condotte, sull’onda lunga della scuola di dottorato in Storia Medievale dell’Università di Cagliari, diretta da Casula. La strada era del resto già tracciata: quella di conoscere al meglio il periodo in cui si sviluppò «l’unica civiltà storica indigena della Sardegna cioè quella giudicale».

Il tema dei giudizi dei contemporanei catalani sull’Isola è affrontato da Alessandra Cioppi. Il contributo si basa in particolare sullo studio di un memoriale inedito di Ramon ça Vall, uno dei maggiori e più noti uomini d’affari barcellonesi del Trecento. Un mercante di valore e fidato funzionario regio ma anche finanziatore dell’impresa sarda. Un uomo di parte, fedele partecipante alle attività della corte, ma anche “in parte” in quanto ebbe un ruolo di primo piano nell’impostazione della industria metallurgica catalana nell’Iglesiente. Qui ottenne vasti possedimenti territoriali e divenne appaltatore di tutte le entrate e i diritti regi di Villa di Chiesa. Un ruolo che lo espose a critiche non solo di tipo locale, da parte delle popolazioni residenti, ma anche all’interno degli stessi ambienti catalani tanto che lo costrinsero a ritirarsi e a lasciare l’isola nel 1336. Il documento studiato dalla Cioppi presenta in dettaglio gli introiti fondamentali del Regnum Sardiniae: la zecca, la treta del forment (grano), la dogana, il sale, le entrate degli heretats (feudatari), il censo versato dal giudice di Arborea, i diritti dell’ufficiale del fisco, e quelli del mostazaffo (funzionario preposto al controllo dei pesi e misure). Vi è anche l’imposta straordinaria del 1325 versata per il futuro matrimonio di Costanza, figlia di Alfonso IV, con Giacomo III, sovrano di Maiorca. I dazio fu pagato dal giudice di Arborea, dai marchesi Malaspina, dalla città di Villa di Chiesa. In questo frangente appare di particolare interesse il ruolo della città di Sassari che dovette stornare i fondi per il futuro matrimonio da quelli necessari ai lavori di fortificazione della città. Una fortificazione, posta in luce recentemente nelle indagini archeologiche di Piazza Castello, che venne imposta come risposta alle ribellioni, scoppiate nel luglio del 1325, di Viciguerra e Brancaleone Doria e Azzone Malaspina e culminate con l’uccisone del podestà catalano Ramon de Sentmenat. Ribellioni, necessità di nuove costruzioni, impegni militari, crollo dei commerci che, nella parte finale del memoriale, fanno da sfondo alle considerazioni del ça Vall sullo stato generale dell’Isola. Qui emerge che il quadro delle rendite appare decisamente deludente rispetto a quanto ci aspettava in passato e come ha ben sottolineato Alessandra Cioppi «l’isola andava perdendo il suo ruolo di polo di attrazione, ed il Regnum cominciava a presentare segni di precarietà». Tutto il Regnum scontava il prezzo della più vasta decadenza economica generale che investiva il Mediterraneo alla metà del Trecento, quindi non sarebbe stato sufficiente raggiungere una stabilità politica istituzionale mediante l’imposizione dell’ordinamento feudale. Questo sistema difficilmente si sarebbe fuso a quello mercantile tipico delle città nuove della Sardegna, ma sul lungo periodo avrebbe spezzato definitivamente quella comunione, quella vitalità, quell’identità locale sedimentata nel corso dei secoli precedenti. Ma il ça Vall, come già aveva detto Tangheroni, descrisse gli effetti, ma non le cause, dato che egli stesso era una parte causa di quel processo.

Luciano Gallinari, con  Alcuni “discorsi” politici e istituzionali nello scontro tra Pietro IV d’Aragona e Mariano IV d’Arborea ha come obbiettivo non solo le vicende politiche, ma soprattutto una ricerca letterale dei singoli vocaboli utilizzati dalle due parti. Questo perché «Alla metà del XIV secolo cambiò il rapporto tra gli Aragonesi e i Sardi. E forse si è nel giusto, quando si afferma che dopo circa trent’anni durante i quali il Giudicato di Arborea era riuscito a convivere in modo più o meno pacifico con il Regnum Sardiniae all’interno dello stretto spazio sardo, il giudice,  Mariano, si trovò ad una sorta di bivio: rimanere un fedele vassallo del sovrano e vedere il proprio ruolo all’interno dell’isola inesorabilmente ridotto, oppure reagire alla politica di sempre maggiore accentramento politico e istituzionale portata avanti dalla Corona». È in questa affermazione che si trova il cuore di questa ricerca. A cominciare dalla notizia riportata da alcuni funzionari catalani dell’armamento di un lembum armato, da parte di Mariano IV, con lo scopo di ottenere dalla Curia romana l’investitura dell’Isola a discapito della Corona. La notizia ovviamente fa parte di un tassello politico che mirava a dimostrare il cosiddetto tradimento degli arborensi nei confronti dell’ordine superiore rappresentato dalla Corona Aragonese. Una vicenda ancora più chiara se posta in parallelo con le notizie del 1353 quando si evince come Mariano non si decidesse a muovere guerra contro i Genovesi dato che i suoi doveri vassallatici erano stati espletati a sufficienza con il pagamento del censo, e che, quindi, non doveva al re alcun servizio militare. Chiamato in causa su questo punto da Bernat De Cabrera, luogotenente regio, Mariano rispondeva che era pronto ad offrire ogni tipo di spiegazione accogliendo il De Cabrera nella sua città di Bosa. Una disponibilità che mostrava, nelle parole della diplomazia, la delicatezza dell’argomento ma, soprattutto, i nuovi rapporti di forza. Il Cabrera, infatti, lamenta che questo avrebbe rappresentato un tradimento e un ribaltamento di quell’ordine costituito dall’infeudazione papale. Non era lecito, infatti, che un vassallo invitasse il rappresentante del re nella sua residenza, quando invece sarebbe dovuto succedere il contrario. Ma, oramai, Bosa era la nuova sede di rappresentanza di un regno Arborense e per la città sarebbe stato un onore ospitare il governatore. Un fitto scambio di lettere dove Luciano Gallinari ben sottolinea come il livello dei compiti che una persona si assegna (il giudice, il luogotenente regio) dipendono proprio dall’idea che ognuno si è fatto di se stesso. E in questo contesto proprio in questa serie di piccoli passaggi si afferma quell’idea di Bosa Manna, tramandata per la prima volta nel Libelllus Judicum Turritanorom redatto del corso della seconda metà del XIII secolo, ma che proprio nell’uso di questo termine palesa in modo evidente le sue interpolazioni successive e datate al pieno Trecento. Il taglio, quindi, offerto da Gallinari è denso di sorprese soprattutto nel proseguo delle vicende inserite nel saggio, che qui non è possibile riprendere interamente per motivi di brevità, ma che dimostrano, una volta di più, come lo scontro si realizzò non solo sui campi di battaglia, ma anche ad un raffinato livello istituzionale. Una strategia a tutto campo che mi ha colpito, diciamo più che personalmente, dato che cita un certo Michino Mastino, abitante di Bosa, che nel 1366 dichiarava apertamente di aver udito che il pontefice aveva concesso al giudice la «conquestam Sardiniae» quasi come una sorta di crociata contro i Catalani rei di non pagare il censo dovuto alla Sede Apostolica. Una voce che girava non solo negli accampamenti militari, ma anche ad Oristano. Mariano quindi riconosceva il dominio eminens della Sede Apostolica, ma con questa manovra tentava di «collegare direttamente a livello feudale il pontefice al giudice, ponendo così quest’ultimo sullo stesso gradino della piramide feudale che regolava i rapporti tra pontefice e re Aragona». Era un nuovo livello dello scontro, ma anche quello del processo intentato dalla Corona contro il Giudice: non solo ribellione, ma quello ben più grave della lesa maestà. I documenti, analizzati in con questa finalità da Gallinari, mostrano come la Corona si adoperò nella costruzione dei suoi capi di accusa con una costante gradualità: dall’accusa di ribellione portata avanti dal 1351, all’azione legale vera e propria negli anni successivi. Lo studioso nel suo saggio, da storico attento come dimostrano i suoi lavori precedenti, segnala come non si conoscano le fonti di parte giudicale e come la passata storiografia su questi documenti abbia tentato di delineare un automatico profilo psicologico, tutto in negativo, del personaggio Mariano. Ma nell’uso delle parole ufficiali, e al disotto dei singoli termini, anche quelli concernenti i ruoli delle istituzioni e del diritto tra enti sovrani, come ha ben seminato l’insegnamento sulla statualità di Casula, si mostra un contenuto raffinato e determinante.  Ancora tutto da indagare, forse ancora meglio dei singoli fatti bellici.

Questo perché, come scriveva Fernand Braudel, le isole tengono aperte sul mare delle finestre e da queste si possono vedere i segni delle rivoluzioni passate, ma anche quei i tasselli pertinenti alla percezione dell’Isola dall’esterno, dal di fuori delle sue frontiere naturali. È su questo orizzonte si muove il saggio di Maria Grazia Mele, su La frontiera mediterranea: i Centelles tra interessi feudali e difesa del Regno di Sardegna che prede come spunto il caso della difesa del Regno di Sardegna alla fine del XVII secolo. Un’Isola, un territorio, meglio un regno, dimenticato dalla Corona anche se esposto, dopo la perdita della piazzaforte di la Goulette in Tunisia, alle continue incursioni da parte dei Saraceni. Per i contemporanei da fuori l’Isola rappresentava un punto strategico di notevole importanza, forse rivestiva anche un certo valore economico, se ben organizzato ma vista al suo interno era «un mondo in cui tutto girava al rallentatore: un regno fedele, ma lento nel recepire le direttive della Corona, soffocato dai ceti privilegiati, dove le convenienze di qualcuno trovavano il giusto spazio». Guillem Ramón de Centelles chiese all’imperatore Carlo V di essere nominato ammiraglio del regno di Sardegna in virtù del fatto che la carica era stata ricoperta nel XIV secolo dal suo avo Francesc Carròs. Il protagonista è esponente di una delle famiglie valenzane più eminenti e a supporto della sua richiesta offre un interessante memoriale surrogato puntualmente dalla studiosa dai documenti citati, che ripercorre tutte le vicende della conquista dell’Isola secondo il livello di partecipazione da parte dell’importante famiglia iberica. Nella parte finale del memoriale l’Isola è presentata come un punto di osservazione privilegiato rispetto all’Africa e prima barriera di difesa della «cattolicissima Spagna». Nonostante lo sforzo e le “pezze giustificative” adottate il progetto non andò a buon fine. Probabilmente, come scrive Maria Grazia Mele, questo non avvenne per non turbare gli equilibri interni all’Isola, come nel caso degli attriti con l’importante famiglia dei Peralta, contrasti che risalivano sin dai tempi degli ultimi scontri con la casata di Arborea. Ma, al di la di come andarono le cose, ancora da definire nelle ricerche future, il caso portato all’attenzione mostra come il tema della difesa dell’Isola nel Cinquecento era percepito come pressante, ma questo accadeva solo in ambito locale. Un fattore già registrato alcuni secoli prima quando la caduta in mano araba di Cartagine, e il concreto pericolo delle invasioni che arrivano dalla vicina Africa, aveva accelerato il processo di definizione territoriale dei giudicati. In questo caso il maggiore feudatario in Sardegna avrebbe potuto tutelare al meglio i propri territori difendendo l’intiera isola, ma solo come diretto ammiraglio di sua Maestà.

Sulla famiglia iberica dei Carròs è invece dedicato il saggio di  Sara Chirra, in particolare su Berenguer II Carròs, vissuto a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Un personaggio senza dubbio protagonista nel quadro delle vicende sarde dato che ricoprì importanti incarichi istituzionali e che partecipò attivamente contro le forze armate arborensi durante la battaglia di Sanluri del 1409 occupandosi anche delle faccende successive alla morte in Sardegna dell’erede al trono Martino in Giovane. Ciononostante, fu un personaggio decisamente controverso, accusato anche di favorire il forte contrabbando che veniva esercitato nei porti olgliastrini compresi nei suoi territori. Il conte fu il protagonista anche di vicende giudiziarie molto singolari come quella culminata in un processo, svoltosi a Oristano nel 1417, che lo vedeva accusato di abusi carnali perpetrati ai danni di una giovane donna di Gonnostramatza. Di tale processo, conservato presso l’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, 1417-1418, sono stati studiati in questo saggio gli atti inediti relativi alle deposizioni dei testimoni. La documentazione, si configura come una narrazione ricca di particolari curiosi e pittoreschi, offre un significativo spaccato di vita sociale come nel caso della sua volontà di prendere con se, per amicizia una donna sarda, di cui si ignora il nome preciso, soverchiando le rimostranze dei genitori. L’episodio ha un immediato parallelismo con le ultime vicende leggendarie legate a Martino il Giovane. Una ignota “bella di Sanluri” fu capace di fiaccare definitivamente le ultime forze del giovane principe: una sorta di vendetta per la sconfitta subita. Nella cruda realtà delle vicende legate al Carròs la faccenda si risolse con prelevamento coatto, un vero e proprio sequestro, della fanciulla desiderata. Lo stato di cattiva conservazione del documento non permette di comprendere in modo esaustivo la conclusione della vicenda processuale, ma certamente, secondo la studiosa cagliaritana, il ruolo politico del conte, ricordato nel Parlamento del 1421 tra i nobili e più illustri del Regno di Sardegna, dato che racchiudeva nelle sue mani il più vasto feudo dell’Isola, favorì, diciamo così senza sorprenderci, la piena l’archiviazione del caso. La legge, il più delle volte, anche alla fine del medioevo, non era sempre del tutto uguale per tutti.

Il tema specifico della difesa delle coste sarde è affrontato da Daniele Vacca. Il contenuto di questo breve intervento dal titolo Le torri litoranee della costa sud-occidentale della Sardegna e i problemi relativi alla difesa delle isole minori dagli attacchi corsari è nella pratica una puntualizzazione sulle problematiche pertinenti la realizzazione del sistema di difesa costiero del Regno di Sardegna. Un programma edilizio istituito di fatto dal sovrano Filippo II, con la creazione, nel 1587, dell’ufficio dell’Amministrazione delle Torri. Un sistema necessario per l’intensificarsi delle incursioni turco-barbaresche. Nel saggio si approfondisce in particolare quella parte di documentazione conservata presso l’archivio di Stato di Cagliari riguardante la costruzione delle torri nella porzione sud-occidentale del Golfo di Cagliari. L’importanza strategica di queste prime torri, unitamente a quelle costruite nello stesso periodo nella parte sud-orientale, è data dal fatto che il loro scopo principale era quello di proteggere la capitale del regno.

Si va invece dall’altra parte, alla vicina isola di Corsica, con il lavoro di Maria Giuseppina Meloni, una sintesi di una più vasta ricerca effettuata dalla studiosa in questi anni presso nell’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona. La ricerca è stata finalizzata a portare alla luce tutta la documentazione dispersa nelle varie sezioni dell’archivio catalano al fine di approfondire e chiarire questo aspetto poco studiato dell’espansione della Corona d’Aragona. Come è noto la Corsica non fu mai conquistata dalla Corona d’Aragona, ma i Catalani non rinunciarono mai al principio che l’isola apparteneva di diritto alla Corona tanto che, al fine di destabilizzare il dominio genovese, sostennero costantemente un partito filocatalano di opposizione alla Repubblica ligure. Un’attività che permise di portare avanti per più di un secolo, con un limitato impegno finanziario e militare, le rivendicazioni catalane. Solo sotto Alfonso V si tentò di occupare l’isola, dopo la conclusione della faccenda sarda, approfittando della congiuntura favorevole offerta dai successi nell’isola di Vicentello d’Istria. Una spedizione attaccò e occupò la sede fortificata di Calvi. La documentazione su queste attività appare particolarmente abbondante e ricca di particolari che vanno dalle fasi preliminari all’organizzazione amministrativa e militare della sede di Calvi in attesa di una nuova spedizione atta alla conquista di Bonifacio ma che nei fatti non fu mai portata a termine. La seconda parte dell’articolo è dedicata ai rapporti tra la Corsica e il Regno di Sardegna. Dalle fonti emerge, infatti, la frequenza dei rapporti economici, politici e demografici tra le due isole. La Sardegna fu, inoltre, per tutto il Tre e Quattrocento, meta di un costante flusso migratorio verso l’isola vicina, costituito non solo da esuli politici che vi trovavano rifugio e sostentamento, ma anche da persone comuni che cercarono, con l’emigrazione nella vicina Sardegna, migliori condizioni di vita. Un taglio particolarmente interessante,  secondo l’autrice, anche perché non è da escludere che vi siano nelle diverse sezioni dell’Archivio nuovi e inediti documenti sul tema in modo da estendere il quadro delle tematiche di indagine.

Sul tema delle assemblee rappresentative è invece orientato il tema affrontato da Esther Martí Sentañes (I procuratori municipali nelle assemblee rappresentative della Corona d’Aragona nel XV secolo: il caso sardo) in particolare sulla figura dei sindaci o procuratori che ogni città regia inviava alle diverse assemblee parlamentari nel corso del XV secolo. L’autrice sottolinea come ogni nucleo urbano aveva diritto ad un solo voto, indipendentemente dal numero dei suoi rappresentati presenti nei parlamenti, ma il numero dei sindaci di una città pesava nel senso di notorietà che la stessa città riusciva a trasmettere nel resto del Braccio reale e nell’assemblea generale. In questo appare significativo come i rappresentanti delle città regie della Sardegna oscillavano tra i 4 di Cagliari (alla pari con Barcellona), i tre di Sassari e Bosa (alla pari di Perpignano), i due per Iglesias e Alghero. Lo studio permette di conoscere meglio questi personaggi agevolando al contempo lo studio dei rapporti tra le famiglie che occupano il potere urbano locale. Nella ricerca assume particolare importanza lo studio del cursus honorum dei ripresentanti che utilizzavano le assemblee come spazio per proteggere gli interessi del proprio gruppo di appartenenza, oppure di quello del territorio di provenienza, cercando, fin dove possibile, di stringere nelle proprie mani, o in quello dei propri famigliari, anche il potere di rappresentanza pertinente agli altri bracci come quello militare o quello ecclesiastico. Attraverso questo studio preliminare è interessante annotare come le elites delle città sarde siano la diretta espressione di un processo che parte da lontano: dall’iniziale fase signorile nel corso del XIII secolo e dalla concreta capacità di ritagliarsi spazi autonomi di tipo politico e sociale. Un saper fare tipico delle città medievali dalla Sardegna. Recentemente Franco Campus ha scritto negli atti di un convegno dedicato ai Castelli e Fortezze nelle città e nei centri minori italiani che le città della Sardegna erano state capaci, grazie all’origine comune nell’incastellamento signorile, di imporre al panorama statico dell’Isola improvvise “accelerazioni”, Centri urbani capaci di fondere in un unico amalgama i nuovi gruppi etnici e tradizioni culturali profondamente diverse. Il loro successo non derivava dalla posizione strategica militare, ma proprio dalla capacità della classe dirigente locale (sarda, pisana, genovese, catalana) di gestire al meglio il rapporto con la Corona nella richiesta ed ottenimento di nuovi privilegi e franchigie. Abitare nel borgo sottoposto ad un castello era più che un lusso, da sempre era come risiedere in una vera e propria città.

Ancora sullo studio particolare delle carriere dei funzionari, del loro cursus honorum in Sardegna, si è incentrato il lavoro di Anna Maria Oliva, in particolare sulla figura di March Jover, catalano di nascita, operò a Cagliari dal 1369 sino al 1423 al servizio di ben cinque sovrani della Corona d’Aragona: Pietro IV, Giovanni I, Matino II, Ferdinando I e Alfonso V . (March Jover uomo del re e uomo dei consiglieri di Cagliari nella Sardegna tra Tre e Quattrocento). Il lavoro coglie in pieno quell’auspicio espresso nel passato da Marco Tangheroni sulla necessità di ampliare le ricerche oltre alle vicende politiche e militari verso le figure dei grandi mercanti e dei finanziatori catalani dell’impresa sarda. Il grande lavoro di raccolta di documenti compiuto dall’autrice ha permesso di definire il personaggio in modo completo, sia nell’ambito delle sue attività pubbliche, sia nella sua formazione culturale. Senza dubbio March Jover si offre come l’elemento di spicco una grande famiglia, fu ricordato anche dal padre della storiografia sarda, Giovanni Francesco Fara proprio in ragione del suo impegno come amministratore e come titolare di alcuni feudi. Un uomo prezioso per la Corona, certamente impegnato a proteggere i suoi interessi finanziari, ma che operava nel campo della sua attività amministrativa con una onestà fuori dal comune come comprova il fatto che nel 1391 fu esentato da divieto di cumulo degli uffici. Un livello di correttezza e di “buon governo” che fa chiaramente da contrasto con quel panorama di funzionari e ufficiali corrotti che operano in Sardegna già dai primi anni della presenza catalana. Un contesto di illegalità che le popolazioni locali, e sopratutto l’antica aristocrazia sarda, non aveva mai smesso di evidenziare al sovrano nelle diverse sessioni parlamentari. Devo dire che la condotta tenuta in Sardegna da questo personaggio mi ha molto colpito, soprattutto in parallelo al periodo classico dove si conosco pochi casi di buona amministrazione, ma non di rado i governatori romani assumevano nell’Isola un comportamento avido e violento. In qualche caso i Sardi intentarono processi per concussione, come contro il propretore Tito Albucio (accusato alla fine del II secolo a.C. per conto dei Sardi da Gaio Giulio Cesare Strabone, zio di Cesare) e, cinquanta anni dopo, contro il propretore Marco Emilio Scauro, figliastro di Silla, orgoglioso esponente del partito aristocratico, che i Sardi unanimi accusarono di malversazioni e di violenze: proprio la loro unanimità avrebbe destato i sospetti ma anche l’ironico apprezzamento di Cicerone. La linea difensiva adottata in quell’occasione da Cicerone irritò non poco i Sardi, alcuni dei quali anni dopo lamentarono anche gravi offese personali. Sono pienamente convinto che tra le diverse ragioni della buona condotta del funzionario catalano non debba essere sottovalutata la sua scelta della residenza nell’Isola, a Cagliari, ma anche il suo matrimonio, con una certa Francesca, di cui non si esclude l’origine sarda. In definitiva, anche se per via indiretta, era divenuto parte integrante non tanto del Regnum catalano, ma della stessa Isola. Un aspetto confermato dall’intervento di March Jover ai lavori del parlamento del 1411, come sindaco della città di Cagliari, dove depositò un memoria non solo sulla sua città  ma sul generale stato dell’Isola. Il testo fu del tutto ignorato dal Parlamento catalano, che non intendeva farsi carico della situazione dell’isola, ma specchio secondo l’autrice dell’ampio spessore politico ed ideologico dell’oratore e della perfetta conoscenza sia dei suoi interlocutori, sia delle materie e delle difficoltà presenti nell’Isola segnata da final desolacio e ruina se non si fosse provveduto per tempo e con i mezzi adatti. La sua visione appare fortemente condizionata da una prospettiva sarda, pur essendo lui un catalano, ma non quella dei Sardi di Arborea, ma di quella oramai dei Sardi del Regnum.

In conclusione hanno un carattere del tutto originale i saggi di Mario Corda, Simonetta Sitzia e Giovanni Sini.

Il primo, con un lavoro sui  Marmorari nel Regno di Sardegna (XVII-XVIII secolo) presenta con dovizia di particolari l’attività svolta a Cagliari, all’interno della cattedrale della città, nel corso dei secoli XVII-XVIII, da parte di 10 marmorari di provenienza ligure e lombarda. Lo studioso grazie alla numerosa documentazione si sofferma nello specifico sui tempi, i modi e i costi di realizzazione delle innumerevoli opere commissionate. La seconda Simonetta Sitzia concentra la sua attenzione sulle Le visite pastorali sarde tra XVI e XIX secolo, compiendo alcune riflessioni storiografiche e annotazioni metodologiche soprattutto alla luce del fatto che, ancora oggi, su questi documenti si possiede una conoscenza superficiale e fortemente condizionata dal paradigma storiografico impostato dopo il Concilio Vaticano II. Nella prima parte del saggio la studiosa compie una completa rassegna degli studi precedenti, ma soprattutto sposa in pieno l’impostazione metodologica proposta in precedenza da Turtas sulla necessità di repertoriare tutto il materiale, comprendendo in questo anche quello di età moderna, e di agevolarsi in modo completo ed esaustivo di banche dati logiche e di facile accesso. Questo permetterebbe di collocare nella giusta posizione storiografica dell’istituto ecclesiastico della visitatio. Nella seconda parte il lavoro è indirizzato al tema delle fonti visitali conservate negli archivi diocesani di Cagliari e di Oristano. Il saggio mette in evidenza come sia possibile superare l’approccio localistico degli studi precedenti attraverso una metodologia basata sulla cosiddetta “circolarità ermeneutica”: un incrocio tra i dati di natura diversa ed eterogenea: i resoconti delle visitali, le relazioni al limina e i dati dei Quinque libri. In definitiva lo scopo finale è la correlazione di una quantità enorme di elementi: dalle viabilità, al grado di conservazione ed esistenza degli edifici, alla toponomastica, all’onomastica, senza trascurare il carattere organizzativo religioso nel periodo precedente e successivo al concilio di Trento.

E infine, sull’uso e correlazione tra informatica e Scienze Umane è il saggio Giovanni Sini, intitolato Informatica umanistica. Appunti e riflessioni sullo stato dell’arte e nuove prospettive. L’Informatica Umanistica è una disciplina relativamente recente ed utilizza per le tematiche di studio quelle proprie delle Scienze Umane ma attraverso i metodi dell’informatica. Nel saggio sono ben definite tre fasi di evoluzione: nella prima si riconosce al mezzo informatico il ruolo di avere reso più disponibile, ad un numero infinito di studiosi, archivi e documenti. La seconda fase è quella dell’editoria digitale che tutti ben conosciamo; la terza è la diffusione dei testi attraverso la filosofia della rete che certamente sul lungo periodo potrà offrire effetti positivi per una maggiore circolazione di idee ma, cito testualmente «ha in sé degli effetti negativi per il pericolo di un possibile isolamento dal mondo reale preferendo un comodo mondo virtuale e digitale». Questo aspetto mi ha molto colpito perché al di là di tutte le innovazioni informatiche continua ad avere un senso la ricerca pura, fondata sul contatto umano, sull’esperienza diretta e sulla contiguità fisica e calorosa, a tutti livelli, tra maestro e allievo.

E del resto è questo il motivo principale per cui siamo qui oggi: festeggiare e ringraziare un Maestro al quale auguro una lunga e proficua attività.

Grazie

Ultimo aggiornamento Venerdì 17 Maggio 2013 09:19

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

 11 visitatori online