Laurea Magistrale ad Honorem in Sistemi Forestali e Ambientali a Domenico Francesco Ruiu

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Scritto da Administrator | 29 Maggio 2014

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Laurea Magistrale ad Honorem in
Sistemi Forestali e Ambientali a Domenico Francesco Ruiu
Sassari, aula magna, 28 maggio 2014

Intervento del Rettore Attilio Mastino

Autorità, cari amici,

siamo qui per conferire al naturalista Domenico Francesco Ruiu la laurea magistrale ad honorem in Sistemi forestali e ambientali, rispondendo ad un’idea del prof. Pietro Luciano, già preside della Facoltà di Agraria e presidente del corso di laurea nuorese, e del prof. Giuseppe Pulina, direttore del Dipartimento di Agraria. Un’idea che abbiamo condiviso e apprezzato assieme ai colleghi del Dipartimento di Medicina Veterinaria e sulla quale abbiamo avuto il consenso del Senato Accademico in data 20 settembre 2013 e del Ministero in data 30 aprile 2014.

Si incontrano nella giornata di oggi tante storie, che coinvolgono i nostri studenti nuoresi, il Consorzio per lo sviluppo degli studi universitari, il Comune di Nuoro, la Provincia, la Regione Sardegna. Ma oggi sarà l’occasione per fare anche un bilancio di un impegno avviato dall’Università venti anni fa per lo sviluppo delle zone interne, per la valorizzazione dell’ambiente naturale, per una politica di solidarietà e di inclusione.

Questo di oggi è un riconoscimento inusuale, per un fotografo di altissima qualità, per un appassionato ambientalista, per un pubblicista molto noto, per un esperto studioso della flora e della fauna della Sardegna. È un modo per dire che l’Università di Sassari si apre al territorio, apprezza l’impegno di una vita, riconosce un’eccellenza, una passione, una visione del mondo che non sia convenzionale.  Questo è un momento meraviglioso per la Sardegna, che ci consente di premiare un lavoro svolto con curiosità e interessi veri.

Con l’aiuto dei miei carissimi Dino Manca, Paola Ruggeri, Dolores Turchi, Barbara Wilkens, ho presentato il 9 marzo di un anno fa a Nuoro l’ultimo splendido volume di Domenico Ruiu Il fotografo dei rapaci edito in quattro lingue da Publinova,  ricordando come i rapaci occupino da sempre uno spazio significativo nella letteratura della Sardegna, come rappresentino un particolare ambiente naturale, gli spazi solitari del Gennargentu, ma anche una cultura e una tradizione, frutto di osservazioni e di riflessioni che iniziano nel mondo antico con lo Pseudo Aristotele.

L’autore del De mirabilibus auscultationibus racconta il mito relativo alle favolose colonizzazioni dell’isola dalle vene d’argento, la Arguròfleps nésos, ricorda che questa terra fu prospera e dispensatrice di ogni prodotto, eudaìmon e pàmphoros: si narra che il dio Aristeo il più esperto tra gli uomini nell’arte di coltivare i campi, produrre il miele, l’olio, il vino, il latte, fosse il signore di Ichnussa, occupata prima di lui solo da molti e grandi uccelli, upo megalon ornéon émprosthen kai pollòn katechoménon.

Come non ricordare che un’isola circumsarda, l’isola di San Pietro, era nell’antichità conosciuta da Plinio e da Tolomeo come Acciptrum insula – Hierakon nesos, l’isola degli sparvieri o dei falchi? Qui ancora nel XVIII secolo gli abitanti dell’isola usavano prendere i falconi dai nidi per allevarli e venderli sulle coste dell’Africa settentrionale.

Il tema del paesaggio e dei molti e grandi uccelli - megalon ornéon kai pollòn- che abitano i monti della Sardegna attraversa la ricca produzione testuale e letteraria sarda, dalla Carta de Logu di Eleonora di Arborea a Francesco Cetti per arrivare fino a Grazia Deledda, a Sebastiano Satta, ad Antonino Mura Ena, ad Antioco Casula Montanaru, fino all’ultimo libro di Antonello Monni, Il bambino dalla milza di legno, con la figura di Gargagiu, rozzo pastore barbaricino ma anche osservatore acuto e maestro impareggiabile, capace di conoscere le abitudini della femmina d’astore a Su Pinu, delle aquile di Gollei, degli avvoltoi di Sos Cuzos in S’Orgolesu o nelle codule di Dorgali, di Baunei e di Urzulei. Capace di leggere i pericoli, i fruscii di una nidiata, perfino i silenzi, in grado di raccontare i primi giorni di un grifone, i primi voli di Gurturju Ossariu.

Sabato scorso a Bono ho ricordato come nella leggenda Il cacciatore delle aquile, una delle Memorie del tempo di Lula, Antonino Mura Ena si collochi proprio al centro del sistema culturale sardo, sullo sfondo del Monte Albo, costruendo un’atmosfera senza tempo. Emanuele è il ragazzo malato che voleva diventare allevatore di aquile, capace di inventare storie intorno alla tomba del suo aquilotto: perché le aquile vengono a trovare le tombe dei loro figli. Hanno la vista lunga e l'odorato acuto. Volano in alto e avvertono se i loro figli sono sepolti. Allora vanno a trovarli. Anche presso la tomba del suo aquilotto verrà sicuramente qualche aquila. Quando si svolgerà il funerale di Emanuele, Cosimo si occuperà dell’aquila sopravvissuta.

Dietro gli straordinari volumi di Domenico Ruiu c’è la profondità di una storia, un retroterra di osservazioni compiute nel tempo da pastori, cacciatori, gente comune, conoscenze, informazioni sul patrimonio bio-ornitologico della Sardegna, ma anche un lungo cammino personale iniziato più di cinquanta anni fa a Nuoro quando il bambino si innamorò commosso di questo grifone prigioniero e furente che veniva condotto per le strade della città come un trofeo o un drago mostruoso che emetteva suoni e lamenti e rimandava a un mondo fatto di mistero e di vita vera. Da allora tanta strada, tante difficoltà, tanti sacrifici personali, anche tante incomprensioni e ostilità.

Ho visto Domenico all’opera a Bosa, lungo le falesie del Marragiu o verso i costoni di Badde ‘e Orca a Montresta, assieme al compianto Helmar Schenk, l’ornitologo scomparso due anni fa, a studiare le abitudini dei grifoni, a farci conoscere un mondo incantato al quale ci si accostava per la prima volta con incredulità e sorpresa, finalmente con rispetto. L’ho visto in Barbagia a discutere sul Parco Nazionale del Gennargentu voluto dalla Provincia di Nuoro e a seguire negli anni 80 la difficile redazione e poi la stentata applicazione dal 1989 della legge 31 per l’istituzione e la gestione dei parchi, delle riserve e dei monumenti naturali, nonché delle aree di particolare rilevanza naturalistica ed ambientale. Una battaglia che ha incontrato resistenze e incomprensioni, che oggi vediamo vinta anche in quei luoghi che più hanno resistito e che non volevano capire.

In questi anni Domenico ha continuato con passione a coltivare le sue curiosità, le sue ricerche, la sua attività, con pazienza, con attese e con successi veri, creando reti di appassionati, legandosi alle associazioni naturalistiche da Legambiente alla Lipu, dal WWF al Club alpino, ma anche collaborando con gli Enti locali, in qualche caso inizialmente ostili, alimentando la sua straordinaria conoscenza del territorio e delle abitudini dei rapaci. Oggi credo sia diventato uno tra i più grandi fotografi naturalisti europei, proprio per questa sua abilità, ha recentemente osservato Piero Mannironi, di entrare in questo mondo parallelo abitato dai rapaci senza essere un intruso, senza far percepire la propria presenza, imparando a scivolare silenzioso come un’ombra fra picchi rocciosi, gole profonde, boschi ombrosi e glabre falesie. Nell’intervista curata da Celestino Tabasso nei giorni scorsi per L’Unione Sarda si parla per questa laurea di una tesi scritta con la luce, con pazienza, fatica, passione, con la voglia di capire senza fretta, superando le difficoltà dell’attesa.

Le osservazioni di Domenico Ruiu finiscono per essere un punto di arrivo, espressione delle esperienze di generazioni e generazioni di uomini, che hanno osservato la natura quasi con sentimento religioso, l’hanno rappresentata, descritta e raccontata, l’hanno spesso tradotta e trasfigurata in finzione letteraria. La descrizione e la percezione del paesaggio, infatti, il rapporto con la natura e con la madre terra, una certa idea della vita e della storia, il sentimento dell’identità e dell’appartenenza, la concezione del tempo e del mito, il sentimento religioso, il tema della nostalgia e della memoria, hanno per secoli rappresentato - come ha scritto Dino Manca – il grande contenitore tematico, etico ed estetico, di molti scrittori e poeti in lingua sarda e italiana. Il vero protagonista delle loro opere è stato, dunque, il paesaggio fisico, antropologico e morale, da intendersi altresì come spazio di memorie individuali e collettive, come ambiente geografico intensamente amato e sentito.

Un topos questo accettato e condiviso da una buona parte degli autori sardi, cioè di un microcosmo proprio perché malfatato e dolente, orgogliosamente difeso e, da taluni, significativamente proiettato in una dimensione edenica se non trasfigurato in un luogo di evasione mitica, dove la natura è comunque percepita come spazio idillico, incontaminato, carico di emozioni e suggestioni incantatorie.

Così si legge, ad esempio, in Mararcanda di Francesco Zedda, un luogo dove le aquile si levano in volo sulla cima del monte Corrasi, verso Oliena, dove l'occhio può spaziare fino al Cedrino che con le sue acque luminose scorre salta canta scendendo verso il mare. <<Ora sento che la terra è veramente mia e tendo la mano verso Maracanda come per toccarla. La cima del Corrasi è piena di luce come la mia fronte mentre si levano in volo le aquile dei miei pensieri>>.

Sullo sfondo di paesaggi edenici, dunque, l’isola è restituita e intesa, nelle pagine della migliore letteratura sarda, come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio e universo entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere.

Per uno studioso di storia romana oggi vengono in mente moltissimi episodi, ricchi di elementi di derivazione mitografica, che esprimono il rapporto di profondo rispetto che intercorreva tra il popolo di Roma e alcuni uccelli rapaci come l’avvoltoio, l’inquietante vultur e la possente aquila. Il rispetto era determinato non soltanto dal timore per l’aspetto e le dimensioni di questi uccelli quanto piuttosto dalla convinzione che essi si muovevano all’interno della sfera del sacro, quasi si trattasse di una sorta di tramiti tra il numen delle divinità e gli esseri umani.  Così nella disputa per la conquista del potere tra i due gemelli Romolo e Remo sul Palatino, quando il vultur rappresenta da un lato la volontà divina dall’alto preannuncia un evento negativo, la morte di Remo. Così sulla vetta del Campidoglio, sul misterioso auguraculum, luogo per conoscere il volere degli dei, presso il tabularium, dal quale si scorgono i colli Albani e la città di Alba Longa. L’aquila simbolo di regalità e potere annuncia a Tanaquilla l’ascesa al trono di Tarquinio Prisco. Sono le aquile di Giove che proteggono la marcia delle legioni romane e che diventano identificative e protettrici dei corpi militari dopo Giugurta.  E poi la figura mitologica dell’Eneide di Virgilio, le orrifiche arpie delle isole Strofadi, uccelli rapaci dal bel volto di donna capaci di depredare le mense riccamente imbandite e di insozzarle con il loro tremendo fetore, arrivando con terribili stridi. Sarebbe bello addentrarsi nell’affascinate e dettagliata descrizione scientifica e naturalistica del mondo dei rapaci tramandataci da Plinio il Vecchio nel X libro della Naturalis historia. Qui un posto speciale è occupato dall’aquila, con una dettagliata classificazione di sei distinti tipi, il melanaetos o leporaria, di colore scuro, il pygargus dalla coda bianca; il morphnos, l’aquila dei bacini lacustri, nerissima, con i denti e senza lingua, il percnocterus o oripelagus simile ad un vultur e con le stesse caratteristiche predatorie, capace solo di portare in volo prede già morte; il gnesion di colore rossastro e infine l’haliaetos dalla vista acutissima, grande pescatore. Vi era poi la specie delle aquile denominata barbata che gli Etruschi definivano ossifraga, per la sua abitudine di cibarsi delle ossa delle sue prede dopo averle spezzate, facendole cadere dall’alto, che è stata avvicinata al gipeto. C’è da meravigliarsi per questa straordinaria messe di notizie riportate da Plinio con capacità quasi documentaristica: ed ecco le tecniche di caccia delle aquile, i tipi di prede: quadrupedi, cervi, serpenti che a loro volta tentano di predare le uova dell’aquila; le curiosità: la pietra aetite inglobata nel nido di alcune specie di aquile dalle capacità curative; e poi la classificazione delle sedici specie di accipiter, di falco, la caccia al cybindis, il falco notturno che lotta selvaggiamente con l’aquila tanto che spesso vengono catturati stretti l’uno all’altro; e lo straordinario nibbio dal quale gli uomini hanno imparato l’arte di governare le imbarcazioni col timone; del resto anche gli avvoltoi per timone usano la coda. Per Plinio il grifone, il gryphas è davvero una creatura favolosa dell’Etiopia, al pari dei pegasi creature alate dalla testa di cavallo della Scizia. Dopo avere accompagnato molti imperatori, l’aquila diventa cristiana e compagna dell’evangelista Giovanni. Nel Medioevo assume un valore araldico e grazie agli Asburgo il simbolo dell’aquila a due teste si diffonde ovunque, utilizzato per sintetizzare l’idea di impero sovrannazionale, ma adottata anche da varie rivoluzioni e sommosse della prima metà del XIX secolo.

L’opera appassionata di Domenico Ruiu è frutto di tante suggestioni diverse e rappresenta anche il punto d’arrivo di tante storie e di tante leggende. I suoi libri fanno riemergere attraverso le immagini molti ambienti naturali che amiamo, molte storie dimenticate, molti rapporti tra cielo e terra, lasciandoci l’impressione forte di seguire il volo di un dio, di assumere per un istante magico lo sguardo di un genius loci che ancora ci parla.

Ultimo aggiornamento Giovedì 29 Maggio 2014 21:12