Ricordando Marco Tangheroni.

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Scritto da Administrator | 26 Gennaio 2016

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Ricordando Marco Tangheroni
Discorso pronunciato durante il XII Congresso della
Mediterranean Studies Association (Cagliari 27 maggio 2009)

Attilio Mastino

Sono felice di essere a Cagliari a questo Congresso della Mediterranean Studies Association, chiamato a presentare il volume postumo di Marco Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, un’opera inconsueta edita da Sugarco Edizioni di Milano, curata da Cecilia Iannella, con la presentazione di David Abulafia.

Debbo a Patrizia Paoletti, la moglie di Marco, l’onore di poter presentare un volume che mi ha emozionato davvero, ritrovando pagina per pagina il pensiero di uno studioso e di un amico scomparso, riscoprendo il filo rosso che ha legato tante opere di Marco, che pensavo espressione di una cura filologica minutissima per il dato storico, per il documento, per gli archivi e che ora rivedo incasellate all’interno di uno schema mentale, di un ragionamento, perfino di una scelta politica militante. Il silenzio di una perdita restituisce gli echi delle parole che pensavamo irrimediabilmente perdute.

Qualche settimana fa ho ricordato con Manlio Brigaglia i giorni in cui si decise la nomina di Marco Tangheroni a Preside della Facoltà di Magistero dell’Università di Sassari; era il lontano 1981, era appena uscito il volume sul commercio dei cereali nella Sardegna aragonese, e, nella casa di Nicola Tanda, si ritrovarono un gruppo di docenti di sinistra che scelsero Tangheroni come loro candidato per sostituire Ercole Contu che si era dimesso con molto anticipo. Marco era riuscito a conquistare tutti i colleghi locali, soprattutto quelli politicamente più lontani, ad entrare in sintonia con un mondo che del resto conosceva e frequentava da tempo. Io ero appena arrivato da Cagliari come assistente e ricordo l’aria fresca che entrava in una Facoltà troppo chiusa su se stessa, troppo divisa, troppo lontana da biblioteche ed archivi, diciamo pure la parola, troppo provinciale. Marco restò a Sassari solo per poco tempo, fino al 1983, quando fu chiamato a Pisa come professore di storia del commercio e della navigazione, ma intanto era riuscito a pubblicare il volume Sardegna mediterranea ed aveva seguito l’applicazione del DPR 382 del 1980 con l’arrivo di nuovi professori associati me compreso e con i tanti concorsi banditi. In quegli anni Marco accompagnò la trasformazione dell’Istituto di Scienze storiche di cui era stato l’ultimo direttore e la nascita del nuovo Dipartimento di Storia che metteva insieme il diavolo con l’acqua santa, i colleghi della Facoltà di Magistero con quelli del corso di laurea in Scienze Politiche della Facoltà di Giurisprudenza; soprattutto riuscì concretamente ad aprire la Facoltà verso il mondo esterno, innanzi tutto con Barcellona, con la penisola iberica, con il Maghreb. Lui che amava il mare, organizzò a Castelsardo, nell’estate 1982, un incontro inconsueto con tutti gli studiosi stranieri impegnati in ricerche storiche e archeologiche in Sardegna: fu in quell’occasione che rividi il mio amico Robert Rowland della Loyola University di New Orleans, impegnato nella preparazione del volume sulla Sardegna antica nel Mediterraneo. Ho ancora vivissima l’immagine di quell’incontro che si svolse d’estate, sulle verande di un hotel di Castelsardo che si affacciavano sul mare. Più tardi nel 1983 organizzò assieme ad Antonello Mattone il Convegno sugli Statuti Sassaresi, Economia società istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell’età moderna, che storicamente è stato il primo dei convegni promossi dal Dipartimento di Storia.

Marco aveva tanti contatti, tante idee, tanti interessi: era generoso e largo di consigli con noi tutti, penso a Giuseppe Meloni, ad Angelo Castellaccio, a me stesso, interessandosi alle nostre passioni, indicando nuovi modi di vedere i problemi storici ed opportunità di nuovi studi, soprattutto raccomandando l’esigenza di inserire la microstoria alla quale qualcuno di noi allora si dedicava in un quadro più ampio, non tanto sul piano geografico quanto sul piano del metodo, delle idee, della capacità di analisi con continui richiami a maestri e teorici della filosofia della storia.

Sempre sorridente, garbato, capace di affrontare pazientemente le sofferenze fisiche di una malattia che scandiva le ore delle sue giornate ma che egli tentava di ignorare, in Consiglio di Facoltà ci sorprendeva per la determinazione e per la durezza con la quale si scontrava ad esempio con Padre Egidio Guidubaldi.

Eppure la cosa che ricordo di più è il suo sorriso, il suo forte spirito etico cristiano, il suo rigore quasi ascetico. Vennero poi gli anni pisani ma Marco non interruppe i contatti, accompagnò Laura Galoppini, seguì i nostri dottorandi, fu in Sardegna a casa di Padre Turtas anche pochi mesi prima di morire, sempre prendendo accordi preventivi con gli ospedali per avere la sicurezza della dialisi. Angelo Castellaccio ha scritto da poco del dolore che ha accompagnato la vita di Marco, la sofferenza che era come un’ombra, a guisa di un angelo negativamente protettore, che sembrava continuamente accompagnarlo e cadenzarne i movimenti e di cui in verità non lo abbiamo mai sentito lamentarsi. Allora ci parlava della moglie e della nuova famiglia, delle tre figlie adottate all’epoca del genocidio ruandese, le tre ragazze tutsi che amava davvero, era orgoglioso di loro, dei loro straordinari progressi.

Cecilia Iannella racconta delle carte lasciate da Marco Tangheroni nella sua casa di Pisa, l’11 febbraio 2004, rimaste incompiute al momento della morte: tra esse compariva l’ultima versione di questo volumetto su alcuni aforismi del boliviano Nicolàs Gomez Davila Nicolás Gómez Dávila, un’opera completa anche degli indici, già corretta in bozze, con la dedica a Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica, direttore della rivista Cristianità, profondo conoscitore di scrittori ibero-americani e specialista proprio di Gomez Davila Gómez Dávila. L’opera era stata preparata a margine del seminario universitario Epistemologia della storia che Marco aveva tenuto per un gruppo ristretto di allievi nel febbraio 2003 nel Dipartimento di medievistica di Pisa, senza la pretesa di un trattato scientifico, ma con una riflessione fresca, spontanea, talvolta non ordinata, arruffata e troppo schematica: dice lui stesso di non voler rinunciare ad un certo tono colloquiale, aperto talora ai ricordi personali, perché questo era nel bene o nel male lo stile del suo modo di insegnare, il gusto del colloquio con i suoi studenti. Del resto, anche nelle sue opere più importanti, Marco ammetteva di aver fatto come i suoi minatori medioevali di Iglesias, quando un filone perdeva un po’ d’interesse, apriva un nuovo scavo. E racconta nell’introduzione delle sue condizioni di salute che lo avevano costretto a lavorare a casa, in una biblioteca costantemente alimentata dalla generosità di Patrizia. Mi ha impressionato la conclusione del capitolo 7 dedicato alla verità della storia, che mi sembra lasci intendere con lucidità l’avvicinarsi della morte, la consapevolezza di avere sempre meno tempo a disposizione: «in ogni caso – scriveva – e vale per i giovani come per i vecchi, per i sani come per i malati – non manca molto tempo». E ancora, nell’ultimo capitolo dedicato all’utilità della storia ed al rapporto tra passato e presente con le parole di Thullier e Tulard: «la relazione dello storico con la morte è cosa essenziale. Il mestiere dello storico deforma, crea dei riflessi dominati da un sentimento della fuga irreversibile del tempo: lo storico ha il senso dello scacco finale, ordina cose morte, fallimenti, un mondo già finito, già votato all’assenza, alla rovina. Il passato che egli studia rinvia alla sua morte, è in certo senso anticipazione della propria morte.» Eppure, Marco ripeteva costantemente con Marc Bloch e prima di lui con Henri Pirenne, che il primo dovere dello storico è proprio quello di interessarsi alla vita.

C’è stato a Sassari qualche settimana fa nell’aprile 2009 un congresso di sociologi su Saperi mediterranei e sviluppo tra memoria e trasmissione: avevo in quell’occasione parlato degli arguti commenti di Tangheroni e particolarmente originale e assolutamente fondato mi era apparso il giudizio sui gravi limiti della sociologia e delle altre scienze sociali, che si occupano prevalentemente della contemporaneità e tendono a perdere la ricchezza della profondità della storia, che al più considerano come scienza ausiliaria. La sociologia contemporanea sembra appiattita sul presente – sono parole di Tangheroni – e non ha molta voglia di fidanzarsi con la storia. Forse allora è utile che gli storici incoraggino i sociologi a misurarsi ancora sulle tracce di Max Weber con la dimensione del tempo trascorso, perché tentino di estendere il loro metodo scientifico anche al passato ed all’immagine del passato che si è andata affermando nel mondo contemporaneo. In più il rischio è che nelle scienze umane i modelli interpretativi si trasformino in maniera surrettizia e con somma disinvoltura da strumenti analitici in risultati stessi delle analisi.

La collega Antonietta Mazzette era intervenuta nel dibattito osservando che in realtà la sociologia è nata proprio facendo i conti con la storia (da Weber a Simmel a Durkheim), così pure l'antropologia. Per venire ai tempi nostri, Saskia Sassen (una delle più grandi sociologhe a livello internazionale) nel suo ultimo libro Territory, Authority, Rights, per parlare di classi globali e di nuovi diritti individua due grandi fratture: la prima nel Medioevo e la seconda nel Novecento. Ciò ha significato ripercorrerne la storia, ovviamente dal punto di vista socio-economico. Se poi veniamo ancora più vicino a noi, Franco Cassano nel suo libro Approsssimazione parte dal '500 e in modo particolare da Montaigne per trattare dell'individualismo. Ci sarebbero altri esempi, ma il punto non è questo, bensì il fatto che la conoscenza del passato per un buon sociologo sarebbe necessaria ma strumentale per comprendere il presente e, soprattutto, per individuare la direzione del mutamento. Cioè il futuro. Altrimenti i sociologi sarebbero dei giornalisti che descrivono la superficie delle cose. L'ultimo appunto della Mazzette è che forse sono proprio gli storici ad essere arrivati in ritardo a cogliere la necessità della commistione tra diversi approcci disciplinari e ad avere scoperto la storia sociale per ultimi.

E’ solo un esempio di quello che è questo volume di filosofia della storia scritto da uno che dichiara di non avere attitudini filosofiche, una miniera di riflessioni che pongono domande preziose sull’uomo e tendono a superare la storia economica praticata dalle Annales, per rendere conto della complessità della storia nella quale i protagonisti non sono solo i mercanti, ma anche i re, le grandi famiglie, gli altri agenti politici; una storia che metta l’uomo al centro del dibattito, che superi interpretazioni schematiche e superficiali, dominate dalle forze materialistiche così come proposto dalla storiografia marxista, che tende a concentrarsi su una sola causa, mentre la storia è frutto di più cause concomitanti e diverse. Perché – questo è il fulminante aforisma di Gomez Davila Gómez Dávila – «quello che non è complicato è falso.» Gli storici marxisti ormai obsoleti e stanchi sono costantemente oggetto di ironia e di polemica, perché rischiano di trasformare la storia in una disputa teologica, dimenticando l’oggetto stesso della ricerca, proponendo generalizzazioni che appaiono agli studiosi di un’ingenuità che intenerisce, come a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, i concetti di rifeudalizzazione o di crisi della borghesia, il tema meccanicistico del determinismo e della necessità causale. Del resto Gomez Davila Gómez Dávila aveva osservato che un lessico di dieci parole è sufficiente al marxismo per spiegare la storia. Eppure, Marco non ignora i grandi maestri come Chris Wickham o Jacques Le Goff, o Lucien Febbre, Marc Leopold Bolch, oppure altri protagonisti della scuola delle Annales Annales, che a suo tempo hanno saputo fornire schemi interpretativi della storia del mondo che non possono essere dimenticati, come la storia totale della seconda fase, braudeliana, delle Annales Annales, oppure la storia globale che è il termine magico della nuova storia di Jacques Le Goff. La loro polemica contro l’histoire évenémentielle l’histoire évenémentielle era fondata, ma oggi appare chiaro che non si può leggere il passato in funzione del presente né si può costringere la storia entro la gabbia dottrinale del materialismo scientifico, che considera la verità dei fatti sempre clandestina. Eppure anche il Gramsci dei Quaderni dal carcere Quaderni dal carcere gli appare diverso, fortemente influenzato dall’idealismo italiano.

Marco valorizza viceversa il ruolo centrale degli individui nella storia, perché il generale è fortemente condizionato dalla decisione degli uomini e occorre giocare simultaneamente sulla scacchiera della massima generalizzazione e della massima particolarità.

Marco Tangheroni chiede rispetto per la complessità della storia senza rinunciare a stabilire connessioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizazione del passato, per comprendere e spiegare: fondamentale è il concetto che l’inquietudine sul proprio mestiere debba accompagnare sempre gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi. Dunque cosa conosciamo, come conosciamo, quali sono i limiti della nostra conoscenza, quali ne sono le fonti, elementi tutti che danno al mestiere dello storico un carattere artigianale e addirittura artistico e che rendono fondamentale la fase di apprendistato nella quale i maestri debbono seguire i loro allievi, come nel Seminario pisano. Occorre ancorarsi fortemente ad un periodo storico, ad una realtà geografica; riferimento costante in queste pagine è ai due poli fondamentali degli interessi storiografici di Marco, Pisa, a partire dal libro sugli Alliata del 1969, e la Sardegna, fino ad arrivare a La città dell’argento del 1985, per ancorarci al versante sardo. Per capire occorre cercare strade nuove e i tempi appaiono maturi per considerare ora l’archeologia medioevale come strumento fondamentale per comprendere la complessità della prima espansione marittima di Pisa nel Mediterraneo, così come per conoscere il rapporto tra città e campagna nella Sardegna giudicale.

Marco si richiama spesso a Paul Valery Valéry ed a Paul Veyne (Come si scrive la storia), anche se osserva con un poco di aristocratico distacco che ci sono troppi storici in giro, troppa gente che si dedica all’esercizio abusivo della professione di storico. E’ un poco l’osservazione di Luciano di Samosata nella sua operetta su come scrivere la storia, a proposito del numero di storici che si cimentavano a raccontare la guerra partica di Lucio Vero: è un poco come il morbo abderitico, sangue dal naso, febbre, sudore, che ha colpito per 7 giorni tutti i cittadini di Abdera fino a quando non è cambiato il vento; oppure come la vicenda di Diogene in occasione dell’assedio macedone alle mura di Corinto, quando tiratasi su la veste si affaccendava a fingere di fare qualcosa di utile rotolando la giara nella quale abitava su e giù per il colle del Craneo. <<«Rotolo anch’io la giara – aveva risposto Diogene ai suoi allievi incuriositi – per non sembrare l’unico che se ne sta inoperoso in mezzo a tanta gente che si da fare per proteggere Corinto di fronte all’attacco di Filippo V, preparando le armi, ammassando pietre, costruendo sostegni per le mura, puntellando il parapetto»>>.

Dunque non tutti possono rotolare la giara, che rischia di frantumarsi se solo si inciampasse in un sassolino. E questo a causa della dignità del mestiere di storico, la complessità, i limiti, il mistero di una disciplina, il pericolo delle mode, la pretesa originalità nella ricerca storica ed i critici rapporti con le scienze umane, la sociologia, l’antropologia, la geografia antropica, l’etnologia, la psicologia, la psicanalisi, la linguistica, la semiologia. Il rischio incombente per lo storico dilettante è la verosimiglianza che alcune discipline possono suggerire, come per quell’articolo di una studiosa barcellonese intitolato, utilizzando le arti della psicologia, Cosa pensava Pietro il Cerimonioso davanti alle mura di Alghero assediata?

C’è in questo libro anche la l’onesta diffidenza verso il progresso, verso l’assoluta bontà del nuovo, il rifiuto della rerum novarum cupiditas, le preoccupazioni per i danni causati dall’uso degli strumenti informatici e dalle analisi quantitative, l’integralismo, dirò la parola, di chi rifiuta l’erudizione fine a se stessa e ritiene che lo storico debba avere innanzi tutto l’esprit de finesse l’esprit de finesse, fondato sulla formazione della personalità, del gusto, delle capacità di discernimento dello storico. Soprattutto le perplessità per le strade prese dalle scienze della natura, per le teorie neo-darwinistiche, per quanti ignorano una forza immanente, provvidenziale e razionale nella storia dell’uomo. Marco riprende l’osservazione di Erwin Schroedinger Schrödinger, che condanna l’uso di limitare l’antico nome universale di scientia alla sola scienza della natura, escludendo lo studio del linguaggio, della storia ecc., come se in questo caso non si trattasse affatto di scire. Chi fa storia riesce a fare scienza se pone domande nuove anche a documenti già noti, se maneggia con prudenza concetti astratti spesso avulsi dalla realtà storica, talvolta anacronistici: occorre una forte ripulitura linguistica per rimettere in discussione concetti come capitalismo, imperialismo, classe, borghesia, nazione, stato, società, ma anche declino, rinascita, ricostruzione. Più utile gli sembra parlare di transizione, cambiamento, change change, rispetto a continuità. E’ il linguaggio di nuovo degli archeologi medievisti.

E poi la critica al relativismo, che è la soluzione banale di chi è incapace di mettere le cose in ordine, il tema della soggettività dell’interpretazione storica, la sottile preoccupazione per i pregiudizi, ma anche la convinzione che occorre procedere alla riabilitazione dell’autorità e della tradizione, perché il progresso è spesso effimero se si imboccano sentieri fuorvianti. Occorre tornare alla realtà e il passato non è la meta apparente dello storico, bensì quella reale perché non è vero che lo storico si installa nel passato per intendere meglio il presente.

Eppure per Marco la storia ha una sua utilità, se abitua all’incontro con l’altro da noi, con civiltà e culture lontane nel tempo, senza appiattimenti nel Novecento. Il pensiero è ancora alle figlie adottive.

Uno degli aforismi recita argutamente: «Il primo passo del sapere consiste nell’ammettere con buon umore che le nostre idee non hanno niente per cui debbano interessare a qualcuno».

Beh, credo che le idee di Marco Tangheroni possano interessare a tutti noi, anche a chi, come me, si occupa di quella storia antica che Marco non ha voluto escludere dal proprio campo di osservazione, ponendosi anzi a tutti gli effetti in una linea di continuità con la visione tucididea della storia.

Lo ricordo oggi a voi tutti con il suo bastone, con il suo cappello, con il suo sorriso, con il suo umorismo bizzarro ed amaro, con la sua serenità profonda.