La pace nel mondo antico. Rotary club Sardegna.

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Scritto da Administrator | 18 Marzo 2013

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Attilio Mastino (con la collaborazione di Antonio Ibba)
La pace nel mondo antico
Rotary club Sardegna
Sassari, Aula Magna dell’Università 16 marzo 2013

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Cari amici,

intervengo con emozione a questo incontro con tanti amici dedicato al tema della pace, partendo dal mondo antico, cercando di esprimere la complessità del tema.

In un celebre discorso che Tacito attribuisce all’eroe dei Britanni il principe caledone Calcago è riassunto polemicamente come nel negativo di una lastra fotografica il senso che i romani davano alla parola Pace: >.

Siamo nell’età di Domiziano nell’84 d.C. durante le guerre in Britannia e in Scozia. Qualche anno prima l’imperatore Tito aveva distrutto dalle fondamenta il tempio di Gerusalemme, cercando di impiantare a Roma il culto di Javeh nel templum pacis allora costruito nel foro romano, l’edificio sacro più straordinario e più conosciuto del mondo antico.

Vespasiano e i suoi figli Domiziano e Tito avevano adottato il modello propagandistico della Pax Augusta, che trova la più alta espressione nelle Res Gestae divi augusti, il testamento politico di Augusto scritto nel 14 d.C.: qui Ottaviano precisava di aver fatto chiudere per tre volte il tempio di Giano Quirino cum per totum imerium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax. Eppure oggi la pace frutto della guerra e delle vittorie ci ripugna.

Concetti che tornano propagandisticamente nei bassorilievi dell’Ara Pacis di Roma, dedicata dopo le guerre nella Hispania Tarraconensis nel 9 a.C.

L’ara pacis ricostruita ci appare come un recinto quadrangolare in mamo, che protegge un altare sacrificale, a cui si accede attraverso due ingressi aperti sui lati più corti. I primi frammenti marmorei vennero rinvenuti nel 1568, nei pressi di via del Corso, con ritrovamenti successivi che alimentarono le collezioni dei Medici e dello stesso Louvre. Il recinto è decorato nella parte superiore da ghirlande appese a teschi di bue e vasi votivi sospesi su nastri, con una fitta decorazione vegetale che è stata recentemente oggetto di uno studio botanico. Mentre sul fianco di ogni porta sorgono quattro rilievi con raffigurazioni mitologiche (es. il sacrificio di Enea ai penati), sui lati lunghi si può ammirare una processione di àuguri, camilli, sacerdoti e membri della stirpe imperiale. In mezzo a queste figure  emerge Augusto, pontifex maximus, Agrippa suo genero, Livia, Tiberio e Druso, Domizio Enobarbo coi due figli. Sull’altro lato a comporre il corteo compare la figlia di Augusto, Giulia. La famiglia imperiale è ritratta al culmine del suo splendore e della sua potenza. Siamo in un momento storico in cui si inizia a consolidare l’investitura divina dell’imperatore, attraverso un rigido cerimoniale religioso, come conferma la processione raffigurata sui pannelli marmorei del monumento. Voglio ricordare che i restauri dell’Ara Pacis, trasferita in epoca fascista dal Campo Marzio al Lungotevere presso l’antico Porto di Ripetta, furono effettuati nell’anno 1970 a spese del Club rotariano di Roma Sud nel nostro distretto 2080: da quell’anno dunque (quaranta tre anni fa) fu istituto il premio nazionale Ara Pacis, assegnato dal Rotary tra gli altri, al Papa Giovanni Paolo Magno, al Sen. Giovanni Spadolini, alla Caritas Italiana,alla Croce Rossa Italiana, all’Arma dei carabinieri, alle Suore Missionarie di Madre Teresa di Calcutta, all’UNICEF, ai Medici senza Frontiere, all’Associazione italiana contro le leucemie e a molti altri.

Nove anni fa, il 21 aprile 2006, fa ero presente in occasione dell’inaugurazione da parte del sindaco Walter Veltroni del nuovo Museo dell’Ara Pacis, opera di Richard Meier, fortemente contestato da un gruppo di attivisti del Fuan.

Le immagini si riferiscono a quell’episodio  movimentato ed emozionante.

Il tema della fine delle guerre interne ed esterne era ben presente nel corso di tutta la attività politica di Augusto. Pur non utilizzando apertamente il termine pacator, Ottaviano si mostrava un “creatore di pace” già dopo la vittoria a Nauloco nel 36 a.C. su Sesto Pompeo; dopo Azio, il concetto ritornava nel monumento innalzato a Nicopolis in Acaia, nel 29 a.C., per celebrare la sconfitta di Cleopatra. Un tetradramma d’argento dell’anno 28 a.C., coniato a Efeso e destinato alle comunità orientali, raffigurava sul rovescio la Pax e sul diritto il busto di Ottaviano laureato e e il titolo Populi Romani vindex, in altre parole l’imperator veniva esaltato come colui che aveva saputo restituire al popolo romano la pace, eliminando quella fazione che ne aveva posto in pericolo la libertas; l’ambivalenza del termine vindex (“il difensore, il garante” ma anche “il vendicatore”), frequente nel linguaggio corrente, gli permetteva inoltre di redimere la figura di Cesare, il tiranno nella nuova fase presentato come simbolo della libertà.

Ottaviano evitava in quest’ultimo caso di accennare alle sue vittorie (unico indizio la corona di alloro che cinge l’icona della dea), poiché il riferimento sarebbe stato evidentemente alle guerre civili. I successi militari venivano invece celebrati in maniera più esplicita quando il riferimento era alle guerre esterne:

La chiusura del tempio di Giano prima nel 29 a.C., quindi nel 25 a.C., forse nel 10 a.C. acquistava un significato epocale nel suo esplicito legame con i rari episodi del passato e si è addirittura ipotizzato che Ottaviano «non tanto riesumasse o credesse di riesumare un antico uso quanto volesse far credere di riesumarlo, attribuendogli un significato assai più vicino ai suoi interessi propagandistici che non a quello che esso un tempo aveva avuto.

Si trattava di una pace tradizionale imposta e conservata con le armi, alla quale alludevano fra gli altri un denario emesso forse nel 27 a.C., le statue auree delle province e dei popoli sconfitti (esposte nel foro di Augusto e nel tempio di Marte Ultore), probabilmente l’aggettivo Quirinus riferito a Giano, forse uno dei rilievi sull’ara del Campo Marzio (una divinità armata assisa in trono), e infine l’altare di Narbo in Gallia Narbonensis.

Gli epiteti Sebasthé e Augusta permettevano di qualificare inequivocabilmente la pace come una divinità e ne delimitavano il campo d’azione nell’ambito delle attività del princeps: la Pax era Augusta non tanto perché creata da Augusto ma in quanto inerente alle funzioni dell’imperatore ed ottenuta in virtù di auspicia particolari mai concessi ad altro uomo. Et vos orate, coloni, perpetuam pacem pacificumque ducem, scriveva Ovidio, evidenziando non solo la commistione fra pax e imperium ma anche il costante sforzo del princeps, pacificus dux, nel creare e preservare la pace.

Accanto ad una Pax trionfante l’imperatore cominciò ben presto a pubblicizzare una pace civile”, una nuova età dell’oro contrassegnata dalla provvidenziale presenza del princeps che aveva ripristinato la pax deorum infranta dalle guerre civili, che apparentemente garantiva la libertas, la salus publica e la concordia civium, la securitas, la certezza del diritto, la ripresa delle attività produttive.

La Pax di Augusto era inoltre eterna e mondiale, perpetua,, terra marique parta, non limitata alla sola Roma, come ribadito in più occasioni, quasi uno slogan del suo principato. Per Virgilio destino dei Romani era governare il mondo con la forza delle armi: solo in questo modo avrebbero potuto diffondere una superiore civiltà su tutta la terra; le guerre esterne venivano intraprese solo per assicurare stabilità ai confini dell’impero, per debellare superbos, quindi per garantire la pace universale senza velleità di conquista (pacisque imponere morem). Sullo sfondo di questa concezione vi era il contrastato atteggiamento nei confronti del mito di Alessandro Magno e del suo ecumenismo, già ampiamente diffuso fra i comandanti militari della media e tarda repubblica: il legame con il mondo italico, l’esaltazione della “vittoria diplomatica sui Parti”, lo scomodo confronto con la politica di Antonio, la necessità di frenare comandanti troppo ambiziosi anche all’interno della propria famiglia, un diffuso desiderio di pace costringevano Augusto a rinunciare in parte alla figura di Alessandro (sfruttata invece dalla propaganda avversa per sminuire i successi dell’imperatore). Nello stesso tempo il ricordo del Macedone, perpetuato attraverso opere d’arte esposte nei centri del potere, legittimava il sogno cosmocratico di Roma (erede del progetto di Alessandro) e ne dimostrava la superiorità, giacché questo non era legato ad un controllo politico ma all’imposizione di un modello culturale, non alla forza delle armi ma ad una superiore capacità organizzativa.

Nella propaganda ufficiale la pax appariva come un dono delle divinità o ancor meglio dell’unico uomo che godeva di un imperituro favore divino. Ovidio definiva l’imperatore auctorem pacis e pregava: Iane, fac aeternos pacem pacisque ministros, dove questi ministri erano il princeps ed i suoi eredi. Non fu quindi casuale che la divinizzazione di Pax coincidesse con la divinizzazione di fatto dell’imperatore: in un sesterzio del 22 d.C. il divus Augustus pater viene rappresentato nelle vesti del fundator pacis, radiato e togato, assiso in trono, nella mano destra il ramo d’olivo, nella sinistra lo scettro.

Gli effetti della Pax Augusta reinterpretata dai Flavi e dagli Antonini, assicurarono per circa due secoli una sostanziale convivenza pacifica nel Mediterraneo, il libero movimento di merci e uomini, la progressiva integrazione dei provinciali, la possibilità per i ceti elevati di partecipare al governo di Roma e per le classi inferiori di godere di una giustizia equanime, la prospettiva di un’eventuale promozione sociale

Non c’è continuità tra la Pace di Augusto e i modelli greci che avevano esaltato l’eirene, un concetto di pace che non si limitava alla semplice cessazione o interruzione di una guerra esterna ma coinvolgeva i rapporti interni fra i cittadini della polis, abbracciando valori che trascendevano la sfera politica per arrivare a quella etica e morale. Sin dall’età arcaica Eirene, dono degli dei ed essa stessa divinità, era associata a Eunomia (buon governo) e a Dike (giustizia); la sua presenza portava ordine e benessere, gioia e prosperità; è interessante l’originale interpretazione che della divinità diede lo scultore Cefisodoto il Vecchio, padre di Prassitele: la dea maestosa tiene in braccio un bimbo, identificato come Plethos (la ricchezza), che le accarezza teneramente il volto. Il quadro familiare materializzava quelle che erano le speranze degli Ateniesi nel primo scorcio del IV secolo a.C.: la pace quale fondamento della ricchezza economica, in particolare del commercio. In questo solco, liberata dagli orpelli mitologici della tradizione, maturava la tesi di Aristotele che nel VII libro della Politica faceva della pace il fine ultimo della polis ideale e conseguentemente fondava sul raggiungimento di questo obiettivo l’educazione del cittadino.

Sempre nel IV secolo, il contatto fra le poleis greche e l’impero persiano portò a maturare l’idea di una koiné eiréne, una pace universale, eterna (almeno nelle intenzioni) e multilaterale, che coinvolgeva non solo i contraenti immediati ma, a prescindere alla partecipazione della guerra, tutte le comunità di un determinato territorio; essa si fondava sui principi condivisi dell’ eleutheria e dell’autonomia (la libertà interna ed esterna) e rappresentava una sorta di dichiarazione di diritti validi per tutte le città al di là dei singoli interessi, imposta e garantita da un organismo supremo con la forza delle armi.

Differente invece l’atteggiamento nei confronti della pace nel mondo romano repubblicano, con un significativo slittamento semantico. Il concetto di pax investiva originariamente la sfera sacrale della Roma arcaica sviluppando una tradizione indeuropea che associa la PAX alla radice pak-, pag- nel senso di fissare, legare, unire, saldare, anche nel senso di pagare, contrapposto di bellum.  Essa rappresentava l’atto di riconciliazione fra gli uomini e le divinità, fondamentale per la felice riuscita di qualsiasi impresa umana; successivamente pax indicò la riconciliazione fra gli uomini, sancita da un foedus che richiedeva particolari condizioni preliminari. Se l’eirene stipulata fra i Greci presupponeva un reciproco impegno garantito con un giuramento, la pace romana era imposta unilateralmente al vinto dal vincitore, che, solo dopo aver ricevuto armi, ostaggi ed altre garanzie o indennità dallo sconfitto, si impegnava a imperio in eum tamquam pacatum uti.

Sin dalle fasi più antiche pax era dunque associata ad imperium e priva di quelle caratteristiche civili e crematistiche tipiche dell’eirene (era d’altronde ben chiaro ai Romani che la guerra era fonte di ricchezza immediata ancor più della pace). L’idea della pace non riscosse in età repubblicana popolarità tale da suscitare un culto specifico fra i cives soldati, pure inclini a prestare attenzione a concetti astratti come concordia, fides, honos, pietas, victoria ma curiosamente dimentichi di Pax e quindi dell’epiteto pacator: unica rappresentazione sembrerebbe quella sul verso di un denario anonimo del 128 a.C., dove una divinità, forse Pax alla guida di una biga, stringe nella mano destra un ramo d’olivo e nella sinistra lo scettro e le redini; in basso è visibile la testa di un elefante con campanaccio appeso e la legenda in esergo ROMA. Se l’interpretazione fosse esatta, ci troveremmo di fronte ad una Pax che aveva assunto le fattezze della vittoria trionfante sul nemico ad una Pace conquistatrice, nata da una guerra vittoriosa condotta sotto l’egida di Roma, ad un evento politico piuttosto che ad un’esigenza primaria della natura umana.

I temi di Pax e Concordia ebbero invece larga risonanza nei proclami dei vari comandanti durante le guerre civili che funestarono il I secolo a.C. Silla per primo ne fece uso nella sua propaganda: sul recto di un denario dell’anno 81, accanto ad un volto femminile, fu raffigurato per la prima volta il caduceo, antichissimo simbolo della Pax, una pace tuttavia cruenta, conquistata in una guerra contro i concittadini. È invece animata dallo spirito di riconciliazione la propaganda di Cesare negli anni dello scontro con i Pompeiani.

Dalla seconda metà del II secolo a.C. cominciava intanto a diffondersi nella classe dirigente romana un nuovo concetto di pace, di matrice aristotelica o epicurea, collegato all’otium; al tempo di Cicerone l’ideale della pace nelle sue varie sfumature era chiaro ad un numero vastissimo di Romani colti, provati dalle guerre esterne ed interne: come per Aristotele anche per il senatore di Arpinum la pace era condizione migliore della guerra e l’unica guerra accettabile era quella che conduceva alla pace. In questo clima non stupisce che il termine pax appaia per la prima volta su un’iscrizione, una sententia del senato databile al 58 a.C.: [re publica pulcer]rume adm[i]nistrata, imperio am[pli]ficato, [p]ace per orbe[m terrarum confecta], dopo che erano stati sgominati i praedon[es q]uei orbem [ter]rarum complureis [annos vastarint et fa]na delubra simul[a]cra deorum inmor[t]alium loca religi[osissuma --- compil]arint.

Dopo Augusto, furono gli imperatori flavi, all’indomani della guerra civile esplosa dopo la morte di Nerone e dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, a sposare propagandisticamente il modello dell’imperatore pacator orbis che si afferma sulle monete e che sopravvive in tutta l’età imperiale. Nella titolatura di Tito compaiono epiteti sicuramente collegati al bellum Iudaicum e con la memoria di Augusto; la Pax Augusta di Vespasiano appare negli altari dedicati a Roma. Sono numerose le testimonianze relative all’attenzione con la quale i Flavi adottarono il tema della Pace nei monumenti figurati, nelle monete, nelle iscrizioni, apparentemente in continuità ideale con Augusto, sia pure con la sottolineatura delle origini della dinastia flavia. Nella titolatura di Tito, che nel 71 trionfò sui Giudei,  registrata in un’iscrizione di Valencia in Spagna, compare l’epiteto collegato con il bellum Iudaicum di  conserva[to]r pacis Aug(ustae).  Conosciamo in parallelo una dedica andalusa dedicata a Vespasiano Augusto,  negli stessi anni, Augusto, Paci perpetuae et Concordiae Augustae. Allo stesso ambito sembra vada riferita una ulteriore dedica spagnola da Arva in Baetica dedicata Paci Aug(ustae). Ma già a metà novembre del 70, in occasione del giorno natalizio di Vespasiano, i componenti della tribù Sucusana forse impegnati in interventi edilizi di ricostruzione del Campidoglio e dei suoi annessi distrutti nell’assedio successivo alla sconfitta di Vitellio  dedicano a Roma due grandi are marmoree consacrate Paci aeternae e Paci August(ae)  Sacrum domus Imp(eratoris) Vespasiani Caesaris Aug(usti) liberorumq(ue) eius.

Dopo Nerone e dopo l’anno dei quattro imperatori, la propaganda di Vespasiano mirava alla pacificazione dell’orbis terrarum e alla restaurazione dell’ordine mondiale, dopo i disastri delle guerre civili che avevano leso la credibilità del principato fondato sulla Pax e sulle victoriae. Nel 71 la zecca di Roma emise dei sesterzi con legenda PAX AVG. e rappresentazione della Pace nell’atto di bruciare una catasta di armi, una divinità quindi non statica come in precedenti raffigurazioni ma dinamica e liberatrice, espressione del genius principis (quindi Augusta) e della volontà imperiale tutta tesa alla distruzione degli strumenti della discordia per inaugurare un’epoca nuova all’insegna della firmitas (la stabilità di governo).

Vespasiano si preoccupò di ristabilire le basi giuridiche ed ideologiche del suo potere e di sottolineare i vantaggi procurati dal principato: in questo contesto furono coniate, probabilmente sempre nel 71, delle monete che, riprendendo alcuni tipi augustei, identificavano nell’imperatore il , assiso in trono con in mano un ramo d’olivo e lo scettro, iconografia estesa significativamente anche ai figli Tito e Domiziano, destinati a perpetuare la dinastia, Caesares principes iuventis raffigurati togati e seduti fianco a fianco, ciascuno con ramo d’olivo nella mano destra protesa.

Nello stesso anno, in connessione alla nuova chiusura del tempio di Giano e nell’ambito forse di un ampio progetto volto a riorganizzare tutta l’area fra il Foro ed il Colosseo, l’imperatore decideva di dedicare per la prima volta e al centro di Roma un tempio alla Pax riconquistata: fecit et nova opera templum Pacis foro proximum. L’edificio, che ospitava i trofei della spedizione giudaica di Tito, era dotato di un’ampia porticus, di una serie di aule (fra le quali la celebre bibliotheca Pacis) e di un temenos grandissimo con giardini e pregevoli statue spesso provenienti dalla domus Aurea. L’inaugurazione del Templum Pacis è fissata all’anno 75 da Dione Cassio e nelle intenzioni di Vespasiano rappresentava una sorta di nuova Ara Pacis, in risposta ad un sentimento diffuso nell’Urbe e nelle province, la pietra angolare di un governo nato sulle ceneri di una guerra non solo civile e che ora mirava a ricomporre l’unità dell’impero.

Il collegamento con la Pax Augusta è reso evidente da una serie di indizi: Secondo Svetonio anche la realizzazione dell’anfiteatro flavio si porrebbe in relazione con un progetto augusteo, che Vespasiano si sarebbe limitato a realizzare. Del resto il programma urbanistico domizianeo risponde all’impegno del padre di ornare la rem publicam solo dopo che l’impero era stato consolidato: così era avvenuto con Augusto, la cui opera di sistemazione urbanistica presuppone la Pax Augusta..

Non pare però convincente lo sforzo di coloro che tendono a relegare la Pax Flavia nell’ambito della risposta propagandistica di Vespasiano dopo le guerre civili: nella visione di Suetonio, Vespasiano assunse l’obiettivo di suscipere e firmare l’imperium non solo dopo il disastro del crollo dei Giulio Claudii e lo scoppio delle guerre civili, ma anche dopo la terribile esperienza della guerra giudaica e delle altre guerre esterne, che imponevano di stabilire e solo successivamente ornare rem publicam. Il mio maestro Mario Torelli parla proprio di una  vera e propria enfasi sul trionfo giudaico celebrato da Tito e commemorato anche dal triplice arco di trionfo eretto da Domiziano nell’81 al centro del Circo Massimo, oltre che nell’Arco di Tito.

Vespasiano adotta effettivamente un quadro ideologico che riprende l’indirizzo augusteo: il templum Pacis (foro proximum) di Vespasiano appare in evidente corrispondenza con l’Ara Pacis di Augusto, tanto che si è parlato di una vera e propria simmetria tra la posizione politica di Augusto e quella di Vespasiano: l’uno e l’altro apportatori di pace dopo le guerre civili.

La consacrazione del templum pacis costruito nel foro romano per volontà di Vespasiano  cadeva all’indomani della conclusione della guerra giudaica,  secondo Flavio Giuseppe .  Ad accendere le fiamme sul sacro tempio di Gerusalemme non erano stati i Romani, almeno  a parere dell’imperatore Tito, ma i rivoluzionari capipopolo dei giudei, ai quali i Romani avevano strappato dal santuario famoso e venerato da tutta l’umanità, i tesori, i sacri cimeli che poi furono trascinati nel trionfo e rappresentati sui fregi dell’arco di Tito.  Ad un secondo arco flavio Mario Torelli ha recentemente collegato la decorazione con la palma triumphalis, l’albero simbolo della Iudeaea capta riprodotta sistematicamente sulle monete del triumphus iudaicus di Vepasiano e Tito.

Dopo la vittoria e dopo il trionfo del 71, Vespasiano decise d’innalzare a Roma il Templum Pacis, sul quale in occasione del bimillenario della nascita di Vespasiano si sono moltiplicati gli studi:  secondo Flavio Giuseppe venne costruito in assai breve tempo, di una magnificenza superiore ad ogni umana immaginazione. Vespasiano infatti, oltre a dedicarvi gli straordinari mezzi della sua ricchezza – scrive Flavio Giuseppe -,  lo adornò anche con antichi capolavori di pittura e di scultura; vennero raccolte e conservate in quel tempio tutte le opere per ammirare le quali fino a quel momento gli uomini avevano dovuto viaggiare per tutta la terra, desiderosi di vederle pur essendo disperse in questa o quella provincia: qui ripose anche gli arredi sacri e la suppellettile d’oro presa al Tempio degli Ebrei. Viceversa Vespasiano ordinò di riporre e di conservare nel palazzo imperiale sul colle Palatino la copia della legge ebraica e i velari color porpora del santuario.  Il tempio sorgeva al centro del lato orientale del Foro della Pace, addossato alla collina della Velia, non lontano dal Foro di Augusto e dalla basilica Aemilia con cui per Plinio costituiva il gruppo dei tre più bei monumenti di Roma. .

Il Foro della Pace fa parte di un ampio programma edilizio di età flavia (anfiteatro, templum gentis Flaviae, tempio di Vespasiano, archi, templi, piano generale di recupero urbano e di sviluppo): esso fu collocato sui resti del Foro Piscario e sul Macellum repubblicani al centro della Suburra, a breve distanza dall’anfiteatro flavio completato più tardi da Domiziano.  Il complesso fu destinato a prestigiosa sede di rappresentanza, anche per il suo carattere museale. La decorazione architettonica e l’intero programma figurativo del Foro della Pace dovevano essere legati al concetto della pacificazione dell’ecumene, come dimostrano i cimeli della guerra giudaica, esposti alla cittadinanza come segno evidente di una conquista ormai avvenuta, ma anche come testimonianza di un pronto desiderio di procedere nella pace tra i popoli.  Capolavori dell’arte greca furono allora offerti ai cittadini: gruppi dei Galati provenienti da Pergamo, il Ganimede di Leochares, statue di Fidia e Policleto, dipinti di Nicomaco.

Il Templum Pacis foro proximum, parallelo e simmetrico rispetto all’Ara Pacis augustea, accolse i tanti cimeli della guerra giudaica di carattere sacro. Nel capitolo finale de La Guerra Giudaica Flavio Giuseppe elenca le prede trasportate sui fercula, sulle lettighe condotte in trionfo fino al tempio di Giove Capitolino che Vespasiano aveva in quegli anni voluto ricostruire dopo l’incendio appiccato dai sostenitori di Vitellio e poi deposti nel Templum Pacis:  una tavola d’oro del peso di molti talenti, un candelabro fatto ugualmente d’oro, ma di foggia diversa da quelli usati ai Romani. Vi era infatti al centro – scrive Flavio Giuseppe - un’asta infissa in una base, da cui si dipartivano dei sottili bracci simili nella forma ad un tridente ed aventi ciascuno all’estremità una lampada; queste erano sette, dimostrando la venerazione degli Ebrei per quel numero; le sette fiamme, poiché tale era il numero dei bracci del candelabro, rappresentavano i pianeti; i dodici pani sulla tavola simboleggiavano il ciclo dello zodiaco e l’anno. Veniva poi appresso, ultima delle prede, una copia della legge dei giudei, il Pentateuco, lo stesso lacerato e gettato sul fuoco a Caesarea da uno dei soldati del procuratore Ventidio Cumano agli inizi della guerra.   Altrove Giuseppe Flavio ricorda le opere d’arte massimamente ammirate e famose fra tutti gli uomini un tempo contenute nel tempio. L’altare degli incensi con i suoi tredici profumi ricavati dal mare e dalla terra, sia disabitata che abitata, significava che tutte le cose sono del dio e fatte per il dio.

Quello di Vespasiano e di Tito fu, per Flavio Giuseppe, un nefasto trionfo necessario per riportare la pace, trionfo al quale i Romani furono costretti dalle violenze e dalle impurità dei Giudei.   Conosciamo i dettagli della fastosa cerimonia che si sviluppò per le vie di Roma ed attraverso il foro: il corteo si formò presso il tempio di Iside, cioè davanti alla Villa Publica ove Vespasiano e Tito avevano riposato in attesa di celebrare il trionfo, qui, sarebbe sorta qualche anno dopo la porticus divorum, con le due aedes Divi Vespasiani et divi Titi nel Campo Marzio.  Poi il corteo raggiunse la Curia Senatoria ed il Campidoglio, infine arrivò al palazzo imperiale, con Vespasiano e Tito in vesti trionfali e collocati su due diverse quadrighe, mentre Domiziano sfilò su uno splendido cavallo.

Secondo Giuseppe sarebbe impossibile descrivere in maniera adeguata la varietà e la magnificenza delle cose messe in mostra in occasione del trionfo, sia delle opere d’arte, sia della varietà dei tesori, sia delle rarità naturali. Furono fatti sfilare 600 giovani ebrei, i più alti e di bell’aspetto. Il trionfo commemorava in particolare la conquista della città di Gerusalemme. Prima ancora era stato Pompeo Magno nel corso della guerra contro Mitridate ad entrare col suo seguito nel Tempio, posando il suo sguardo primo tra gli stranieri su oggetti misteriosi, contemplando il candelabro, le lampade e la tavola e i vasi per libagioni e gli incensieri, tutti d’oro massiccio, una grande abbondanza di aromi accumulati e il sacro tesoro del valore di circa duemila talenti.  Fermandosi però davanti ai sancta sanctorum.

L’insurrezione ebraica era stata scatenata dalla volontà di Tiberio e poi di Caligola di sviluppare il culto imperiale, un fenomeno religioso di nuova istituzione che tendeva ad espandersi. Proprio il figlio di Germanico aveva preteso che i Giudei subissero l’affronto di vedere esposti al pubblico le statue ed i ritratti imperiali; avevano però pesato anche i contrasti tra Farisei, Sadducei, Esseni; alimentata dall’arrivo dei Sicari e soprattutto degli Zeloti a Gerusalemme, la rivolta (che non si fermò neppure di fronte alla potenza dei ) fu animata da quei ciarlatani, falsi profeti, individui falsi e bugiardi – scrive Giuseppe – che fingevano di essere ispirati da Dio, macchinavano disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo verso il fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto.

Di fronte alle legioni romane, i Giudei combatterono non come per salvare la patria, ma come per vendicarla essendo ormai perduta, e tenevano dinnanzi agli occhi lo spettacolo dei vecchi e dei figli che tra breve sarebbero stati trucidati dai nemici e delle donne trascinate in schiavitù. .

Proprio il Dio dei Giudei per Giuseppe Flavio avrebbe deciso di abbandonare il suo popolo, disgustato per le tante empietà, distogliendo il suo sguardo dai luoghi santi a causa di quei malvagi, offeso per il fatto che il santuario era stato contaminato ed  aveva necessità di un rito di purificazione dopo esser diventato la tomba dei cittadini massacrati.  Fu il Dio a condannare alla distruzione la città contaminata ed a voler purificare col fuoco i luoghi santi, provocando un furore fratricida ed una lotta intestina.  Dopo le rapine e gli assassini, il Tempio era diventato il ricettacolo di tutti i delinquenti e il luogo santo era profanato da mani di connazionali, mentre anche i Romani fino ad allora lo avevano rispettato tenendosene lontani e trascurando molti dei loro usi in ossequio alla legge.  Dio aveva abbandonato i luoghi sacri ed era passato dalla parte di quelli che ora i Giudei combattevano. .

Del resto per Giuseppe Flavio esisteva un antico detto d’ispirazione divina secondo cui, quando la città fosse caduta in preda alla guerra civile e il tempio del dio profanato per colpa dei cittadini, allora essa sarebbe stata espugnata e il santuario distrutto col fuoco dai nemici; ed il Vangelo di Marco attribuisce a Cristo la predizione della distruzione del tempio (Gesù gli rispose: ).   Per Flavio Giuseppe erano state disattese quelle prescrizioni rituali, consacrate anche su lapidi antiche con iscrizioni sulla porta del santuario, che imponevano ai visitatori, giudei e stranieri la legge della purificazione in lingua greca ed in latino.

E’ possibile ipotizzare da parte dei Romani un rito di vera e propria evocatio del Dio dei Giudei a Roma nel Templum Pacis, sul modello della Giunone Regina di Veio nell’età di Camillo o della Tanit Caelestis di Cartagine per iniziativa di Scipione l’Emiliano.  Si può forse ipotizzare che Tito abbia celebrato un rito religioso arcaico, nel tentativo di trasferire a Roma il culto del Signore degli Ebrei, con cerimonie di cui le fonti non ci hanno conservato notizia: egli avrebbe semplicemente certificato ciò che poi lo stesso Flavio Giuseppe avrebbe dichiarato, cioè che il Dio aveva abbandonato per sempre il sacro tempio. Tacito del resto nel V libro delle Historiae ricorda i prodigi che avevano preceduto l’assedio, mentre gli Ebrei, schiavi della superstizione ma avversi alle pratiche religiose, non erano riusciti scongiurare la minaccia: si erano visti in cielo scontri di eserciti e sfolgorio di armi e, per improvviso ardere di nubi, illuminarsi il tempio. Si erano aperte di colpo le porte del santuario e fu udita una voce sovrumana annunciare: , audita maior humana vox .

Più tardi, dopo il sanguinoso episodio di Masada, dopo il trionfo di Vespasiano e Tito, la città di Gerusalemme sarebbe divenuta per Giuseppe Flavio ormai una landa desolata, con gli orti distrutti, gli alberi tutti tagliati alla radice, mentre le mura erano abbattute, la reggia e il Tempio devastati. Restavano a ricordare l’antico splendore le tre torri Fasael, Ippico e Mariamme lasciate sopravvivere da Tito per testimoniare ai posteri l’importanza originaria della città che lui aveva conquistato. Presso le ceneri del santuario abbandonato dal Dio ora se ne stavano dei miseri vecchi e poche donne riservate dal nemico al più infame oltraggio. Iniziavano i tempi terribili della diaspora, quando gli Ebrei dovettero avviarsi in esilio, sparpagliandosi per il Mediterraneo.

Gli oggetti preziosi del culto, i cimeli conquistati nel corso dell’assedio, avevano ormai raggiunto Roma, al tempo del vescovo Lino, conservati all’interno del Templum Pacis, dove non escluderei sia stata progettata da Tito (tanto legato alla principessa Berenice) la ripresa di un culto in onore del Dio, ripresa che in realtà poi non dové svilupparsi, apparentemente a causa della mancata adesione della comunità ebraica romana, che continuò a guardare perso la terra promessa, la Palestina. . Eppure si ha traccia di un vero e proprio pellegrinaggio di fedeli di religione ebraica verso il templum Pacis a Roma negli anni immediatamente successivi alla sua  consacrazione.

Il tema della pace è solo uno dei poli dell’età flavia, alla ricerca di un difficile equilibrio dopo anni di guerre verso un impero di pace che si affermerà solo con gli Antonini, quando il motivo della pace nelle sue varie sfumature finisce per occupare  fra alterne fortune un posto importante nell’iconografia monetale dei vari imperatori: la propaganda del resto non riesce a nascondere i mali della guerra e dell’imperialismo, la politica di sopraffazione e di violenza, le sofferenze dei popoli perseguitati e vinti. Ai nostri tempi le vere vittime dell’imperialismo continuano ad apparire i popoli della Palestina, i popoli del sud del mondo, quei profughi decisi a raggiungere su fragili imbarcazioni un’Europa scintillante e desiderata, ma incapace di accogliere l’altro.

Riprendendo antiche suggestioni ereditate dai suoi predecessori, sarà Costantino Magno a presentarsi dopo la pace con la Chiesa, come il vero facitore di pace, adottando a Roma il titolo di fundator pacis et restitutor publicae libertatis: ma la pace cristiana non sarà più ottenuta a prezzo di sangue e con l’umiliazione del nemico sconfitto.

Un secolo dopo scrivendo da Betlemme Girolamo osserverà che mentre il Capitolium auratum diventava sudicio per l’incuria e le ragnatele, attorno ai martyrum tumulos si affermava a Roma la Pax cristiana: auratum squalet Capitolium; fuligine et aranearum telis omnia templa cooperta sunt; movetur urbs sedibus suis et inundans populus ante delubra semiruta currit ad martyrum tumulos. Il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnatele hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le sono proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accorre alle tombe dei martiri.

Siamo ormai sulla linea tracciata da Cristo, che presentandosi agli apostoli la sera stessa del giorno di Pasqua, dice loro “La Pace sia con voi”, certo con l’augurio shalom che caratterizzava il mondo ebraico. Ma non si deve dimenticare che anche la radice della parola Islam è silm, il cui significato è pace, riconciliazione.

Una convergenza dell’ebraismo con il cristianesimo e con l’Islam che è anche una vera  pista di impegno per noi uomini d’oggi.