I 50 anni della Rivista “Quaderni Bolotanesi”

I 50 anni di “Quaderni Bolotanesi”

Bolotana, 4 ottobre 2025

La nascita dei Quaderni Bolotanesi nel 1975 per volontà di Italo Bussa e del Comitato San Bachisio, poi dell’Associazione culturale “Passato e Presente” arriva due anni dopo la conclusione della Commissione di inchiesta sulla criminalità in Sardegna e coincide con l‘istituzione del Comprensorio del Marghine Planargia, dopo il superamento delle aree omogenee  (L.R. 1° agosto 1975, n. 33). Il Comprensorio che univa i due territori fu fortemente voluto da Giovanni Del Rio, Presidente della Regione fino al 1976.  L’anno dopo Pietrino Soddu, Assessore alla programmazione, avrebbe istituto le Comunità Montane a seguito della legge del 6 settembre 1976 n. 45, mettendo insieme nelle giunte in modo inedito e anticipatorio maggioranze e minoranze, comunisti, socialisti, democristiani.  Come dimenticare la coincidenza con la nascita del Consorzio industriale di Macomer, poi la Tirsotex, l’industrializzazione di Ottana, le infrastrutture nella seconda vallata del Tirso, con tante speranze poi in gran parte naufragate? Come abbiamo visto già dall’inizio sul primno numero di Quaderni Bolotanesi erano state manifestate perplessità e limiti dell’intervento della SIR di Rovelli, che era stato voluto strumentalmente per  stuzzicare l’ENI.

Ricordo la prima assemblea del comprensorio a Macomer nella Pineta Albano presieduta nell’autunno avanzato 1975 dall’anziano sindaco di Sindia Pietro Paolo Pisanu: la nascita del Comprensorio che univa per la prima volta il Marghine alla Planargia, segna il momento più alto dell’incontro tra i due territori occidentali della provincia di Nuoro, che perdeva Tresnuraghes e il Montiferru dopo la nascita, l’anno precedente, della Provincia di Oristano.

Sono gli anni della Presidenza del Comprensorio e della Comunità Montana e infine dell’ASL di Romano Benevole, costantemente sostenuto da Nino Carrus:  io stesso fui coinvolto in assemblea e in giunta in un impegno nuovo, stimolante, ricco di polemiche tra territori e tra partiti, ma con obiettivi che alla fine sono stati ampiamente centrati, ad iniziare dalle politiche per il patrimonio e dall’acquisto dei terreni sui quali insistevano i monumenti megalitici studiati da Alberto Moravetti. Ho ripensato a questi anni sfogliando i Quaderni e il volume sulle ricerche archeologiche del Marghine-Planargia del 1998, le domus de janas (S’ispinarba, Perca ‘e zarcanu), i dolmen (Tanca Noa, Sa orta de su murcone), i circoli megalitici (Ortachis), i protonuraghi (Perca ‘e Pazza, Santa Caterina, Gazza), i nuraghi (Tittiriola, Sa Coa Filigosa), le tombe di giganti (Mascaridda), le tombe megalitiche (Santu Asili), le fortezze punico romane (Mularza Noa), fino al villaggio moderno abbandonato di Padru Mannu, un luogo tanto evocativo ancora oggi, sul punto culminante della Campeda dove passava la via romana. Per non parlare del villaggio di Santa Maria Sauccu conteso con Mulargia e Bortigali.

In parallelo rispetto alla Comunità Montana, la rivista Quaderni Bolotanesi uscì dal 1975 al 2014 fino al XL numero: l’interruzione fu dovuta a varie ragioni, prima delle quali credo sia da considerarsi la progressiva specializzazione disciplinare perseguita dalle riforme universitarie, che limitò inizialmente l’interesse dei giovani ricercatori.  Cadevano una dopo l’altra “Studi Sardi” di Raimondo Bacchisio Motzo e poi di Giovanni Lilliu fino ad Antonietta Dettori (1934-2009, l’ultimo dedicato proprio a Motzo nel 50°, rivista che tecnicamente è ancora attiva per l’ANVUR), “Sandalion, Quaderni di cultura classica, cristiana e medioevale” di Pietro Meloni (1978-1995), il “Bollettino Archivio Storico Sardo di Sassari” di Ginevra Zanetti (1974-), il “Nuovo Bullettino Archeologico Sardo” di Alberto Moravetti (1984-1995), Studi Sassaresi (1922-) e tante altre riviste, non tutte cessate ma solo sospese.

È sopravvissuto solo l’”Archivio Storico Sardo” che ha superato i 55 anni di vita, organo della Deputazione di Storia Patria; ma penso anche all’Almanacco Gallurese.  Una brillante esperienza è anche quella del “Bollettino di Studi Sardi” iniziato nel 2008 a Sassari, presso il Centro di studi filologici sardi, ora con UNICApress, che ha pubblicato 17 volumi fino al 2024; possiamo aggiungere le riviste di settore delle Soprintendenze  e così via.

Oggi il mondo accademico sta ripensando alla possibilità di riaprire alcune riviste e di rendere più interdisciplinare la ricerca, che per ragioni concorsuali si è andata concentrando su singole discipline o su discipline affini. Personalmente sono convinto, come già ci aveva insegnato Popper nel 1956, che  <<la mia disciplina non esiste, perché le discipline non esistono in generale. Non ci sono discipline, né rami del sapere; o piuttosto, di indagine.  Ci sono solo problemi e l’esigenza di risolverli>>.

Fuori dallo stretto recinto, i Quaderni Bolotanesi (sottotitolo Una rivista di storia e cultura sarda) hanno proseguito per questi 50 anni, superando nei fatti l’accusa di localismo: a sfogliare questi 44 volumi l’impressione negativa legata inizialmente al titolo appare assolutamente infondata. Faccio solo un esempio che mi riguarda: nel 1988 pubblicai l’articolo sugli Archivi imperiali e del Senato sul Campidoglio a Roma, alla luce del processo contro i Galillenses della Barbaria Sarda, tema che quattro anni dopo sarebbe confluito nel volume su La tavola di Esterzili (opera vincitrice del Premio letterario “L’Ogliastra”, Edizione 1995).  L’argomento non è locale (anche se si collega con l’accatastamento della Sardegna in epoca antica e moderna e nell’Ottocento con la famiglia Piercy) e continua ad essere di estrema attualità se è stato affrontato nei suoi ultimi giorni da Anna Sommella Mura in un articolo postumo sui nuovi dati per la rilettura del Tabularium Capitolino. Sullo stesso tema avevano scritto Antonietta Boninu ed Enzo Cadoni. E poi il mio lavoro sul futuro degli studi classici in Europa nel 2014.

In ogni caso questo radicamento in un territorio, la filiazione da un’associazione come Passato e Presente, il coinvolgimento di tanti studiosi non possono essere un disvalore. Ho letto con attenzione le pagine scritte da Manlio Brigaglia per i primi 40 anni della rivista, che secondo lui si sarebbe ispirata al modello di Ichnusa di Antonio Pigliaru del 1949, cessata nel 1964: allora Brigaglia se la prendeva contro i profeti di sventure e sollevava qualche dubbio sulle nozze d’oro della rivista con i propri lettori. Beh, questa di oggi non è, non può essere una commemorazione o la fine di una storia, se abbiamo definito la nostra rivista davvero longeva. Così nel 2021, con il 41° numero ed ora con il 44°, celebriamo i 50 anni della Rivista diretta da Italo Bussa, dirigente presso la Regione Sarda, che ha rivestito ruoli apicali in Consorzi di Bonifica, nella Carbosulcis e in alcuni Consorzi industriali.  Mi ha sempre colpito la sua capacità di coinvolgere i ricercatori, ma anche di trovare finanziamenti e piccoli sponsor che in qualche occasione hanno acquistato quasi la metà delle pagine della rivista (il calcolo presentato oggi è di 58.110 copie stampate (con una media dunque di 1500 copie a numero) e 15000 pagine al netto della pubblicità.

Con il passare del tempo la rivista ha progressivamente “allargato” il proprio orizzonte, ospitando saggi di studiosi di rilievo nazionale ed internazionale, pur mantenendo sempre un’attenzione verso la Sardegna e le sue realtà. Negli ultimi decenni sono strati affrontati temi più ampi: storia regionale e insulare, antropologia, etnografia, linguistica, filologia, politica, letteratura, politiche locali, economia, ambiente, migrazione etc. I campi di studio vanno dalla Storia, in particolare dalla Storia locale (comuni, istituzioni, comunità), alla storia giudicale, storia moderna e contemporanea, eventi specifici (es. guerre, politica locale), vicende delle autonomie, ecc.

E poi Antropologia / Etnografia / Cultura materiale: Tradizioni, costumi, rituali religiosi, cultura pastorale, mobilità umana, migrazione, identità culturale, rapporto tra culture locali e esterne.

Ancora Linguistica / Filologia / Toponomastica: Studi sul paleosardo, toponomastica locale, filologia sarda, lessico, dialettologia.

Economia / Geografia economica / Sviluppo locale / Sociologia: Economia pastorale, industria locale, agricoltura, cooperazione sociale, migrazione, sviluppo regionale, emigrazione e immigrazione.

Non manca la discussione politica e la storia delle istituzioni autonomistiche: Statuto sardo e autonomia, istituzioni locali, legislazione, rapporti tra Stato e Regione, referendum, movimenti politici, autonomie locali.

Letteratura / Identità culturale / Arte: Identità culturale, arte locale, architettura, musei, rapporto con la letteratura sarda, racconti e memoria locale

Tra gli interventi più significativi vorrei richiamare nel Numero 14 (1988) gli articoli “Verso la terza fase della Rinascita” (Pietro Soddu); “Il sogno americano della Rinascita sarda” (Lorenzo Del Piano); “Realtà politica e industria” (Romano Mambrini); “Forme di mobilità ed economia locale in Centro Sardegna” (Benedetto Meloni); “La transumanza nella storia della Sardegna” (Gian Giacomo Ortu).

Nel numero 16 (1990) ci si muove tra etnografia, antropologia medica, territori, identità, politica regionale, economia, cosmopolitismo accademico, rapporti col concetto di insularità soprattutto con Alberto Merler etc.

Nel numero 32 (2006) compaiono articoli su cooperazione sociale, condizioni dei pastori, educazione, toponomastica, degenerazioni storiche delle istituzioni, proprietà della terra, usi civici, ecc.

Nel numero 40 (2014): articoli fondamentali come quelli su Mont’e Prama, le Aquae Lesitanae, Matteo Madao e la questione della lingua sarda, i feudi dei Centelles di Oliva, gli esiti della schiavitù antica in epoca moderna, Vittorio Angius, Giovanni Spano e il patrimonio paremiologico sardo, Antonio Segni.

La rivista calcola di aver coinvolto oltre 400 autori, studiosi con diversi profili, storici, antropologi, linguisti, politologi, geografi, alcuni famosissimi, per restare ai primi 10 numeri Clara Gallini, Francesco Alziator, Giovanni Lilliu, Michele Columbu, Marcello Lelli, Giulio Angioni, Alberto Merler, Giorgio Macciotta, Giuseppa Tanda, Guido Melis, Luciano Carta, Salvatore Cugusi, Beniamino Moro, Gian Adolfo Solinas, Elettrio Corda, Mario Atzori, Simone Sechi, Gabriella Mondardini, Paolo Pillonca, Francesco Cesare Casula, Alberto Azzena, Antonello Paba, Umberto Cardia, Franco Mannoni; inoltre circa 35 stranieri, tra i quali Robert J. Rowland jr. sulla cristianizzazione della Sardegna e sui Sardi nell’impero romano, John Day sullo spopolamento nel medioevo, David Moss sul furto di bestiame, Peter J. Brown sulla malaria,  Michinobu Niihara su un itinerario insulare e la Sardegna vista dall’esterno, fino al Giappone di Natsuko Tanaka.  Il totale è di 766  articoli.

Debbo citare almeno due autori recentemente scomparsi, Ignazio Camarda col suo incredibile attaccamento al Giardino botanico montano di Badd’e salighes e Fausto Garau, parroco a Bolotana in giorni burrascosi, che mi fece presentare il 7 giugno 1998 il volume di Mario Filia, La Giostra sotto la rocca, tra cronaca e memorie mezzo secolo di sport bolotanese.

Emergono alcune linee forti che attraversano molti numeri:

  1. Memoria e identità locale: raccolta di storie orali, tradizioni religiose, studi su identità culturale sarda, uso del passato per comprendere il presente.
  2. Insularità: come condizione e come metafora; il problema della distanza, dell’isolamento, ma anche delle relazioni interne e con l’esterno.
  3. Cambiamento economico e sociale: sviluppo non compiuto, industrializzazione (o sua assenza), migrazione (sia verso l’Italia continentale che all’estero), trasformazioni nel mondo rurale, pastorizia, agricoltura etc.
  4. Relazioni politiche e istituzionali: autonomia, statuto regionale, rapporti Stato–Regione, diritti, autonomie locali, referendum.
  5. Lingua, cultura materiale, antropologia: riflessioni su come si parlava / si parla in Sardegna, toponomastica, rapporto con le culture vicine, con i ricercatori esteri.

Quaderni Bolotanesi non è propriamente una rivista accademica ma ha svolto, anche grazie a Luciano Carta, un ruolo sociale e culturale. Tra i suoi obiettivi: mettere in relazione il locale con il regionale, valorizzare la storia “dal basso”, dare voce anche a autori non accademici locali. È diventata, nel tempo, uno dei punti di riferimento per la cultura sarda, in particolare per gli studi di storia locale, antropologia, linguistica. Ha conosciuto anche editorialmente un miglioramento continuo (pagine, tiratura, diffusione), apertura verso studiosi esterni. Emergono alcuni aspetti come sfide o limiti: è necessaria una maggiore visibilità internazionale; occorre evitare i periodi di interruzione; la varietà tematica è un pregio ma rende talvolta difficile individuare una linea editoriale “stabile” per chi studia un particolare settore.

Noi per il futuro ci auguriamo che la rivista riesca sempre di più a coinvolgere gli intellettuali sardi e insieme lavori per una maggiore digitalizzazione e accessibilità (archivi, versioni digitali) per far conoscere ancor più i contributi “storici”. Inoltre occorre affrontare i temi nuovi dei cambiamenti climatici, migrazione contemporanea, globalizzazione visti dalla Sardegna, tecnologia e cultura locale, spopolamento. Occorre infine radicare maggiormente le collaborazioni internazionali più strutturate, per confronti comparativi con altre isole o regioni periferiche. La rivista deve assumere un carattere scientifico con ISSN. Un tramite potrebbe essere l’Istituto Sardo di Scienze e Lettere e Arti, fondato da Ignazio Camarda e presieduto ora da Salvatore Naitana.  Ma una porta spalancata è quella di UNICApress dell’Università di Cagliari diretta da Antonio M. Corda, che potrebbe essere interessata a digitalizzare questa e altre riviste, per rendere accessibili tutti i numeri precedenti e per curare una distribuzione larga dei nuovi numeri.

Scrivendo queste poche pagine ci risuonano in testa i versi della bella poesia proprio di Ignazio Camarda, quando si augurava di rivedere la primavera in questi luoghi magici, su questi monti abitati dagli Ilienses del mito greco con le loro domus de janas, i loro dolmen, i loro nuraghi attorno a  Badd’e salighes e Punta Palai: dia cherrer chi venzat su veranu / caminande / supra ‘e tappetos biancos de erva ‘e arana / supra ‘e abba muda de untana / sichinde muros de iliche e de saliche / in mesu a sas arvures de tassu / iscuras dae su pesu de sos annos, / a iscazare nibe e ghiacciu.

E poi la frase di Cesare Pavese (1908-1950) su questo tenace filo, ineluttabile e anche doloroso che ci lega al paese amato, che può essere la molla per raggiungere obiettivi alti: ne “La luna e i falò” è  diventata celebre la frase in cui lo scrittore evoca il bisogno di un “luogo nell’anima”, che nel nostro caso è la Bolotana di ieri e di oggi: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.




Le conclusioni del convegno sulle promozioni municipali in Nord Africa, Sassari 10-13 settembre 2025

Municipal promotions in Africa Proconsularis and Numidia between Caesar and Gallienus: institutions, society, economy

Sassari, 12 settembre 2025

Conclusioni di Attilio Mastino

Con questa importante serie di relazioni concludiamo di stamane una ricchissima tre giorni voluta dal Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali in particolare dal prof. Antonio Ibba e dal prof. Antonio M. Corda del Dipartimento di Lettere, Lingue e BB CC, nell’ambito del progetto biennale PRIN tra le Università di Sassari, Cagliari, Catania, Molise, Verona: il tema è stato sintetizzato e anticipato su Caster 9 da Lucia Rainone, nell’articolo sulle promozioni municipali in Africa e in Numidia prima di Gallieno, alla vigilia di quella che chiamiamo, forse impropriamente, la progressiva dissoluzione della pertica di Cartagine; in termini differenti – solo apparentemente in senso contrario – possiamo parlare con Claude Lepelley di un nivellement du monde romain à partir du IIIe siècle e di una marginalisation des droits locaux.

Già nell’apertura, abbiamo ricordato che non è senza significatro il fatto che i nostri lavori si siano svolti in questa bella aula che ricorda Fiorenzo Toso, linguista del ponente ligure ma radicato in Sardegna in particolare a Calasetta e a Carloforte oltre che a Sassari, scomparso nel settembre di tre anni fa: Toso ha lavorato a lungo a Genova ed a Thabaraca, ha collaborato con Monique Longerstay, la moglie del compianto Jehan Desanges, presidente dell’Associazione “Le pays vert” che ha operato attivamente tra la Tunisia, la Sardegna e la Liguria e non solo. Scrivendomi pochi giorni dopo la scomparsa di Fiorenzo, Monique mi raccontava il suo dolore per la notizia che aveva avuto da Remigio Scopelliti di Calasetta, ex sindaco e attore famoso da noi, incaricato a svolgere questo pietoso incarico dal nostro collega nei suoi ultimi giorni, quando a 60 anni sentiva arrivare la fine e voleva essere sicuro di esser ricordato agli amici.

Del resto ospitare a Sassari questo incontro che raccoglie tanti studiosi, storici, epigrafisti, archeologi, geografi e giuristi, divisi in cinque affiatate unità operative che hanno lavorato insieme per anni sui temi che amiamo ha un significato ancora maggiore perché ci troviamo in una delle appendici di quella Caserma Ciancilla dove si svolse la prima sessione dei convegni de L’Africa Romana nel dicembre 1983 (con la conferenza di Hedi Slim), fortemente voluta dal nostro maestro Marcel Le Glay, scomparso nel 1992, con gli atti pubblicati a spese della ricerca ministeriale coordinata da Sandro Schipani e dedicata all’impero universale. Ho sentito Sandro nei giorni scorsi, sta per concludere l’edizione integrale della traduzione del Digesto e vi saluta tutti con affetto; voleva raggiungermi martedì alla Scuola Danese per la presentazione fatta da Frédéric Hurlet del volume su Cartagine romana (Roman Carthage: a Reappraisal dedited by Jesper Carlsen & John Lund, Quasar, Roma 2024). Beh, l’ho dispensato.

Infine ci emoziona la presenza con noi di Mireille Corbier, direttrice de L’Anné épigraphique, che dà un sapore speciale a questo incontro, con tanta ironia e amicizia: in particolare per me riportandomi a Place Panlevé e ai luoghi di una Parigi che abbiamo continuato a frequentare, la Sorbonne e le sue biblioteche, il Centre Glotz con André Chastagnol e Michel Christol, Paris IV di Marcel Le Glay, la Biblioteca di Diritto Romano al Panthéon-Sorbonne, l’Ecole Normale Supérieure con René Rebuffat e Ginette Di Vita Evrard, il Centre d’information et de documentation del CNRS «Année épigraphique-Fonds Pflaum», che ha continuato ad invitarmi dal 1982, quando con Mireille ci conoscemmo a Roma al convegno su Epigrafia e ordine senatorio. A Sassari Mireille è stata più volte dal 1985 con la relazione al III convegno de L’Africa Romana nell’Aula Magna dell’Ateneo con la straordinaria riflessione su L’évergetisme de l’eau en Afrique: Gargilianus et l’aqueduc de Cirta; ma poi nel 1989 per il VII convegno con l’articolo Usages publics du vocabulaire de la parenté: patronus et alumnus de la cité dans l’Afrique romaine. In questo senso il suo è davvero un ritorno graditissimo. Del resto sono seguiti tanti altri momenti, ma voglio ricordare almeno l’ultima occasione per la conferenza di Maurice Aymad su un’altra isola, a Palermo nel marzo dell’anno scorso e la presentazione nella notte del Museo Archeologico Regionale «Antonino Salinas» fatta da lei, da me e da Caterina Greco per il convegno del Centro iniziativa democratica insegnanti CIDI “Esser vasto e diverso, e insieme fisso – Per un Mediterraneo mare di Pace”. Tema che continua ad avere una sua incredibile attualità in queste ultime settimane, quando idealmente siamo nel porto di Sidi Bou Said, al fianco della flotilla global sumud.

Molti studiosi ci hanno seguito on line e siamo stati accolti dal sorriso della direttrice del Dipartimento di scienze umanistiche e sociali Lucia Cardone. Sono seguiti i saluti di Moheddine Chaouali dell’INP, della Scuola archeologica italiana di Cartagine presieduta ora da Anna Depalmas e de L’Année épigraphique (indirettamente dell’Ecole Française de Rome e del Centro Antonino di Vita di Macerata oltre che delle istituzioni berlinesi). Questa è stata anche l’occasione per presentare i nuovi volumi, quello di Sergio Ribichini per i primi 9 anni della SAIC offerto da Antonio Corda oppure il volume XXIII della Rivista Africa pubblicato dal Ministére des Affaires Culturelles della Tunisia dedicato a Zama Regia e offerto da Moheddine Chaouali, anche per conto di Féthi Bejaoui, Mohamed Sebai e Sondès Douggui Roux. Infine il sorprendente Spatha, spada, épéee, Ideologia e prassi curato per UNICApress da Danila Artizzu, Antonio M. Corda e Michel-Yves Perrin.

Se torniamo al tema del nostro incontro, a questa problematica indirizzata verso l’età imperiale romana ed ora affrontata in modo unitario, la municipalizzazione del Nord Africa, Antonio Ibba ha tracciato in apertura una bella storia degli studi, per cui mi sento dispensato dall’approfondire il tema, limitandomi a ricordare almeno il pioniere Jacques Gascou, con il celebre libro di 53 anni fa, per il periodo tra Traiano (in realtà dai Flavi) fino ai Severi: La politique municipale de l’Empire romain en Afrique proconsulaire de Trajan à Septime-Sévère: al momento della sua pubblicazione nel 1972 l’opera era sembrata addirittura perfetta a Paul Petit (<<Il y fait preuve d’une grande érudition et la présentation de son travail est perfaite>>). In realtà non era così e l’esigenza di un approfondimento era apparsa però immediata se ancora Gascou ampliava il tema su Ausftieg un Niedergang del römische Welt, II, 10,2, 1982, con i due celebri articoli sulla politica municipale di Roma in Africa del Nord, il primo dalla morte di Augusto all’inizio del III secolo e il secondo successivo alla morte di Settimio Severo, tornando sul tema in successive occasioni: Antonio Ibba ha ricordato la bella festa Strena Tunetana celebrata a Sassari tra il 30 settembre e il 4 ottobre 2004 per la laurea honoris causa di Azedine Beschaouch, fino allo sbarco tempestoso nella Grotta di Nettuno nel Golfo delle Ninfe, con l’impavido René Rebuffat che ha rischiato l’annegamento nel mare d’occidente. Del resto la riflessione di Gascou era stata solo il momento iniziale di un approfondimento che ha coinvolto poi i maggiori specialisti internazionali, che si sono alternati sul piano dell’impostazione ragionata del tema così come gli studi specifici su tante località del Nord Africa, civitates, pagi, municipi latini o romani, colonie, lo Ius Italicum, che hanno visto coinvolti molti di noi e che fanno parte della nostra storia e del nostro cuore, soprattutto su singole geografie in Libia, in Tunisia, in Algeria, in Marocco: in totale ben 177 centri, che sono convinto rappresentano solo una parte della urbanizzazione antica. Rinuncio a leggere questa parte del mio testo sulla storia degli studi e del resto mi sembra superfluo fermarmi ora sulle mille novità da Uchi Maius, Numluli, Thignica, Uthina, Cartagine, Mactaris e tanti altri centri del Capo Bon, da ultimo grazie all’impegno di Mounir Fantar, di Moheddine Chaouali, di Samir Aounallah: ne abbiamo parlato all’Accademia Danese tre giorni fa (Roman Carthage: a Reappraisal dedited by Jesper Carlsen & John Lund, Quasar, Roma 2024), sempre cercando le specificità locali (penso alla Confederazione Cirtense) e i confronti con altre province, la penisola iberica, il Danubio, l’Oriente, consapevoli che le politiche locali rispondono ad esigenze profonde, si legano alle geografie, alla collocazione dei latifondi, delle miniere, degli agri rudes, delle attività economiche connesse ad esempio alla pesca e ai traffici marittimi: il diritto e la storia sono esito di tradizioni legate ai territori e ai loro rapporti. Mi limiterei a ricordare che il X convegno de L’Africa Romana svoltosi a Sassari nel 1992, è stato dedicato al tema della civitas, l’organizzazione dello spazio urbano nelle province romane del Nord Africa e nella Sardegna, con importanti interventi tra gli altri di Noel Duval, M’hamed Fantar, Edouard Lipinski, Iohannes Irmscher, René Rebuffat, Ahmed Siraj, Yann Le Bohec, Antonino Di Vita, Michel Christol, José Maria Bazquez Martinez, Naidé Ferchiou, Pierre Salama, Lidio Gasperini e tanti altri. Ma i successivi incontri non hanno mai trascurato il tema delle colonizzazioni, delle immigrazioni, degli scambi di popolazione, la relazione tra urbanistica, catasto rurale e ordinamento giuridico nel rapporto dialettico non sempre evidente tra preesistenze e nuova organizzazione romana, civile e militare, e poi i momenti di crisi. Mi rendo ben conto che rischio di restare troppo sulla superficie, rispetto alla ricchezza di contributi che sono stati forniti in questa e in altre sedi e che le vostre relazioni hanno messo in evidenza, scendendo nel dettaglio, talora con un sorprendente realismo e con un dibattito illuminante che spesso, come a proposito dello Ius Italicum – ha consentito di intravvedere divaricazioni e differenze di non poco conto.

Conoscendo gli studi degli ultimi anni e ascoltando le vostre relazioni tanto innovative e sempre più radicate sulla conoscenza dei luoghi colpiscono le novità, gli approfondimenti, perfino i dubbi, perché lungo è stato il cammino, molte le variabili introdotte, gigantesco il tema della complessità delle questioni giuridiche e istituzionali, anche dei limiti delle nostre conoscenze sul tema della storia istituzionale dei singoli centri africani, in un ambito ben più largo: la novità è ovviamente rappresentata dalla disponibilità di nuove banche dati informatiche, che hanno permesso un accesso molto più ampio alla documentazione epigrafica, un ordinamento più razionale, un’immediata possibilità di confronto. Pochi mesi fa è scomparso l’amico Manfred Clauss (professore di Storia antica alla Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte), promotore di quello straordinario strumento informatico che è l’Epigraphic database Clauss/Slaby : si tratta di un passo in avanti fondamentale utile per il nostro lavoro, intanto perché abbraccia l’intero orbe romano e poi perché dà conto in tempo reale di novità e inediti di grandissimo rilievo. La dimensione universale dell’ecumene romana è ben testimoniata dalle carte di sintesi dell’EDCS, che consentono una gestione interattiva e si affiancano a statistiche incrociate, a grafici, ad approfondimenti locali, sulle istituzioni, sui formulari, sulle tradizioni letterarie: questa banca dati epigrafica testimonia il rapporto tra la storia e la geografia e impone di valutare le ragioni che stanno alla base delle differenze sostanziali esistenti tra le province, pur in un ambito di progressiva convergenza. Oggi abbiamo veri e propri <<marcatori territoriali », che mettono insieme lo sfondo unitario e le differenze locali sulla base di oltre 862 mila record per 537 mila iscrizioni e 23 mila località, 230 mila foto (dati al 30 agosto scorso). Sappiamo tutti che siamo ancora molto indietro e che questi numeri cresceranno con le nuove scoperte. Tutto ciò ha fornito agli studiosi uno strumento potente che si affianca alle altre banche dati, alle indagini archeologiche, che sono state più volte richiamante in questi nostri lavori. Penso alla numismatica, alla papirologia, all’urbanistica antica, alla topografia, al diritto romano. I nostri colleghi hanno lavorato soprattutto con altre banche dati digitali e prodotto modelli in 3 D e annunciano ulteriori obiettivi davvero promettenti: lavorando sempre per una ricostruzione realistica del Mediterraneo antico, per definire questo processo leggibile nelle due direzioni, di una cultura esterna, quella romana, che attribuisce ai suoi portatori concreti privilegi in termini di assegnazioni catastali e una cultura locale composta da peregrini, dunque da stranieri in patria, sempre obbligati a contenere le proprie richieste. Interpretare questo rapporto in perenne squilibrio non è semplice e diffiderei di alcune formule che in astratto ipotizzano una direzione unitaria con semplificazioni di comodo e senza una reale conoscenza dei luoghi, sui quali insisteva una popolazione locale con proprie magistrature, propri usi e costumi, propri rapporti sociali.

Del resto ormai ci sostengono le nuove tecnologie digitali applicate ai beni culturali, la fotogrammetria, la computer vision, il trattamento delle immagini, la modellizzazione in 3D dei reperti tramite il Laser Scanner, il rilevamento dei siti archeologici, la collocazione dei reperti sul territorio tramite GPS, geo-referenziazione dei monumenti, sistemi informativi capaci di creare relazioni e di incrociale i dati, una nuova prospettiva anche per la presentazione museale dei testi. Antonio M. Corda ci ha presentato le linee per un database dedicato alle promozioni municipali e per nuove carte tematiche GIS, estendendo la riflessione svolta a Catania un anno fa.

Il tema che abbiamo affrontato è uno di quelli che collegano storia antica, epigrafia, diritto: non solo per rendere omaggio a un grande studioso francese che è stato nostro amico, Jean-Marie Lassère e all’esergo del suo volume del 1977, vorremmo concludere i nostri lavori con lo sguardo di un cartaginese di età Severiana, il Tertulliano del de anima, pieno di ottimismo e stupito per le trasformazioni che avvenivano sotto i suoi occhi: ubique domus, ubique populus, ubique respublica, ubique vita. Per Tertulliano è evidente che il mondo stesso, l’orbis intero, ai suoi tempi era molto più coltivato e popolato che in passato, in promptu est cultior de die et instructior pristino. Tutto ormai è accessibile, tutto conosciuto, tutto trafficato. Le solitudini un tempo famose hanno lasciato posto a poderi ridenti; i campi hanno domato le selve, le greggi hanno scacciato le belve; si seminano le sabbie, si fissano le rocce, si prosciugano le paludi; solitudines famosas retro fundi amoenissimi oblitteravenint, siluas arva domuerunt, feras pecora fugaverunt, harenae seruntur, saxa panguntur, paludes eliquantur. Ci sono città tanto grandi, quanto un tempo non lo erano neppure le capanne, tantae urbes quantae non casae quondam, i mapalia getuli, sparivano i tuguri, le caratteristiche capanne allungate, coperte da pareti ricurve, costruite secondo il mito con l’impiego delle chiglie delle navi di Eracle, che per Sallustio erano stati il simbolo dell’inciviltà delle popolazioni africane. Ormai né le isole fanno paura, né gli scogli minacciano: ovunque case, ovunque popolo, ovunque istituzioni civili, ovunque vita, ubique domus, ubique populus, ubique respublica, ubique vita. E anche le migrazioni organizzate – quelle che chiamano apoikiai (colonie) – per alleggerire il sovrappopolamento spingevano sciami di genti verso altri territori. Così le stirpi non solo rimasero nelle sedi originarie, ma moltiplicarono la propria gente altrove, dum sollemnes etiam migrationes, quas ἀποικίας vocant, consilio exonerandae popularitatis in alios fines examina gentis eructant. Nam et origines nunc in suis sedibus permanent et alibi amplius gentilitatem feneraverunt. Ma sullo sfondo emergono le preoccupazioni che sembrano le nostre di oggi, almeno per gli ambientalisti non pentiti, perché siamo diventati un peso per il mondo, onerosi sumus mundo: a stento le risorse naturali ci bastano; le necessità sono più strette; e presso tutti c’è lamentela, poiché ormai la natura non riesce a sostenerci, vix nobis elementa sufficiunt, et necessitates artiores, et querellae apud omnes, dum iam nos natura non sustinet. In verità pestilenze, carestie, guerre e rovine di città dovrebbero essere considerate come rimedi, quasi una sforbiciata ai capelli troppo cresciuti del genere umano.

Se lasciamo da parte le enfatiche sfumature millennaristiche espressione degli obiettivi teologici dell’opera, Tertulliano ci consegna un quadro realistico del Nord Africa dei suoi tempi, tanto differente dallo sguardo dei primi coloni in partenza dalla Cisalpina verso la riva Sud del Mediterraneo, quell’Africa, di cui al celebre episodio raccontato da Melibeo nella prima Ecologa delle Bucoliche di Virgilio duecento anni prima, alla vigilia della seconda rifondazione della città di Cartagine da parte dei triumviri nel 42 a.C.: <<Ma noi andremo alcuni dagli Africani assetati, una parte giungeremo in Scizia, altri verremo all’Oasse torbido perché trasporta impetuoso il fango, e altri dai Britanni, completamente separati da tutto il mondo>> (vv 64 ss.):

M.: Àt nos hìnc aliì | sitièntes ìbimus Àfros,

pàrs Scythiam èt rapidùm | cretaè venièmus Oàxen,

èt penitùs totò | divìsos òrbe Britànnos. 

Paola Ruggeri ci ha ricordato oggi che già Elio Aristide nel 144 d.C., in occasione del IX centenario dalla fondazione di Roma, nel suo Encomio alla città eterna, al cap. 12, avrebbe osservato che i Romani partendo dall’urbe si erano estesi all’intero orbe e che l’Egitto, la Sicilia e la parte fertile dell’Africa erano ormai come loro poderi (γεωργίαι δὲ ὑμῶν Αἴγυπτος, Σικελία, Λιβύης ὄσον ἤμερον). Dunque la terra, l’agricoltura, il valore dei luoghi, il radicamento delle persone nei poderi definiti da termini confinari e indicati catastalmente in rapporto ai fiumi, ai monti, alle miniere, alle aree abbandonate, ai latifondi.

In un lavoro recente Sandro Schipani è tornato sul rapporto tra i cittadini Romani e le diverse nazioni delle singole province e ha osservato che spesso questa individuazione e il riconoscimento di natio per alcuni gruppi, non è completamente positivo, anzi è espressione di una svalutazione del gruppo sociale così designato, come rivela Ulpiano in D. 21,1,31,21; D. 50,15,4,5, passi che pongono il problema alla provenienza di “servi”, o a “barbari”, come in D. 50,15,1,5  (…) il che segnala una netta contrapposizione rispetto alla autoidentificazione romana fondata sulla dimensione giuridica-istituzionale della civitas, patria, res publica, Urbs, populus espressione della libertas (cfr., ad es. CIC., Phil., 10, 20).

Abbiamo visto come il tema della libertas sia fondamentale per le nostre ricerche, visto che apparentemente – scrive Schipani – Roma lasciava agli abitanti di comunità che vivevano con proprie leggi la facoltà di scegliere, secondo le circostanze, quali leggi usare per le loro relazioni, se le proprie o le romane, diventando il diritto civile romano comunque vigente per le relazioni fra appartenenti a comunità cittadine con leggi diverse (il processo che si sviluppò, peraltro, data la elevata qualità del diritto romano, vide il progressivo lento generale, ma non completo, accoglimento di esso). Ad Afrodisia di Caria, nell’attuale Turchia, una epigrafe richiama un rescritto di Gordiano III (databile al 243 d.C.) che afferma la volontà dell’imperatore di rispettare tutte le decisioni del senato cittadino, ma che, quanto alla giurisdizione, va letto alla luce di precedenti precisazioni secondo le quali Adriano aveva disposto che tutti i cittadini greci di Afrodisia erano soggetti alla giurisdizione municipale in base alle leggi locali, ma che il cittadino di Afrodisia che volesse intentare un’azione nei confronti di un cittadino di altra città doveva farlo secondo le leggi romane, davanti al tribunale provinciale, cioè al proconsole.

Certamente Mireille Corbier ha cose più interessanti, più argute ed ironiche da dire sulle sue impressioni raccolte in questi tre giorni: ieri notte mi ha già spiegato in anticipo il significato dell’espressione francese taquiner ses amis (fare dispetti, molestare, scherzare con gli amici), dunque ci aspettiamo qualche sorpresa. Lasciatemi allora ringraziare chi mi ha chiamato oggi, Antonio Ibba e Antonio Maria Corda, i Presidenti delle Sessioni, Marina Sechi, Alessandro Teatini, Francesco Arcaria, Rosanna Ortu, i colleghi che ci hanno accompagnato nell’escursione ad Alghero, Marina Sechi, Pietro Alfonso e Alessandra La Fragola, gli amici tunisini Moheddine Chaouali e Ines Lemjdi che ci hanno portato il saluto di Samir Aounallah dell’INP, i francesi, gli spagnoli come Helena Gozalbes Garcίa (Università del Léon), sempre ricordando il nostro carissimo Enrique. Tutti sono stati ospiti graditissimi, interessati, pieni di idee e di progetti; tutti abbiamo partecipato alla fase più importante dei nostri lavori, l’accesa discussione sui dati di volta in volta presentati.

Se mi chiedete un giudizio di sintesi, mi sembra necessario osservare che da tante riflessioni emerge la caratteristica principale della nostra disciplina saldamente ancorata al dato epigrafico, storico, numismatico, archeologico, ma che ha a che fare con una documentazione lacunosa e per tanti versi muta. Eppure ho già osservato il primo giorno nella discussione quanto sia stato rilevante l’apporto di molti, il lavoro di squadra, alcune piste nuove: penso proprio a Helena Gozalbes Garcίa, che ha affrontato il tema – per noi rilevantissimo – della produzione di moneta provinciale nell’Africa Proconsularis, con un’interpretazione sul funzionamento di alcune zecche cittadine, provinciali, imperiali, tra propaganda e necessità locali, commerciali, economiche, soprattutto simboliche e storiche. Emergono i temi dell’inclusione dei membri della famiglia imperiale nelle emissioni, con precedenti Cesariani e augustei e gli obiettivi delle emissioni disposte a livello provinciale, con interventi ripetuti dei proconsoli d’Africa. La combinazione di questi aspetti e l’icnografia dimostrano la labilità dei confini tra potere centrale e i variegati poteri delle autorità municipali, in un equilibrio perennemente instabile, influenzato dall’esercito e dalle tematiche legate alla municipalizzazione e alla riconosciuta libertas dei singoli centri. Il discorso si è poi allargato alla Colonia Iulia Pia Paterna in epoca augustea, con i dubbi sulla effettiva localizzazione e la volontà di esaltare il fondatore Giulio Cesare divinizzato. Abbiamo visto gli aspetti relativi ai valori coniati dalla città e ai pesi degli esemplari conosciuti e le peculiarità delle soluzioni epigrafiche adottate nelle emissioni della colonia. Infine, è stata analizzata la diffusione delle immagini iconografiche presenti nel numerario locale. La considerazione congiunta di tre assi permette di concludere che la Colonia Pia Paterna intratteneva rapporti stretti e significativi con i centri emittenti della zona centrale della provincia, facendo riferimento in particolare a Hadrumetum, Thaenae, Acholla e, soprattutto, a Lepti Minus. Nell’iconografia emerge la presenza dell’elefante simbolo della dea Africa. Personalmente resto convinto si tratti di Clupea.

In ambito giuridico temi analoghi sono variamente interpretati dalle costituzioni imperiali richiamate dalla profonda riflessione di Francesco Arcaria dell’Università di Catania, a proposito dell’esonero dai ‘munera municipalia’ a favore dei notabili più anziani, a seconda dell’età dei curiali, regolato dagli statuti municipali e della disposizione inviata per epistulam ad Antonino Pio conservataci da Callistrato ed indirizzata alla metà del II secolo al proconsole Ennius Proculus, secondo Thomasson Demetrius o Aemilius Proculus. Mi permetterei di suggerire che forse la bella espressione semper in civitate nostra senectus venerabilis fuit vada collegata con “il tradizionale rispetto per la vecchiaia nella nostra cultura”, senza nessun riferimento ad una città o a una nazione specifica, se così vogliamo esprimerci.

Riccardo Bertolazzi e Simone Don dell’università di Verona hanno constatato come nelle regioni del Byzacium e della Tripolitania sono documentate numerose promozioni, soprattutto tra i secoli II e III d.C., quando pressoché tutti i centri maggiori e buona parte di quelli minori divennero municipia e in seguito colonie. In queste fase si registrano la maggior parte degli onori tributati a imperatori e membri della famiglia imperiale e numerose iniziative edilizie, per quanto l’età di Cesare e di Augusto appaia particolarmente vivace, soprattutto per iniziativa delle autorità provinciali.

Antonio Ibba ha affrontato globalmente il tema delle promozioni municipali nella dioecesis di Cartagine, nell’areale compreso fra la Fossa Regia ad Ovest – rivitalizzata da Vespasiano – e la provincia tetrarchica di Byzacena a Sud. Promozioni municipali e deduzioni coloniali iniziarono sin dall’età cesariana, con scelte influenzate dalla contingenza poltico-economica o da interessi di influenti personaggi vicini all’imperatore.Se infatti le deduzioni di Cesare miravano soprattutto a coinvolgere i notabili del Capo Bon nell’organizzazione dei rifornimenti verso l’Urbe, già Augusto puntava ad assegnare a proletari e veterani terre fertili anche in aree più interne. Il processo si interruppe e riprese con Adriano, in relazione al progresso nei processi di acculturazione di alcune comunità e alla centralità economica sempre maggiore dell’Africa. Ci siamo chiesti quanto abbia pesato effettivamente la Constitutio Antoniniana e quali siano le ragioni di questo carattere quasi superfluo di questo provvedimento nella nostra materia, perché le promozioni continuarono dopo il 212, sia pure con ritmo ridotto, in rapporto con l’importanza strategica di alcuni territori. Si trattò allora forse soprattutto di decisioni sollecitate da senatori o funzionari imperiali, determinate da una pressione dal basso legata al prestigio del titolo di colonia o di municipio dii cittadini.

Antonio M. Corda e Piergiorgio Floris si sono concentrati sulle lente promozioni municipali nella Thusca, dimostrando con metodo teorico scientifico attraverso i poligoni del vicino più prossimo e una metodologia innovativa (rete web gis e carte tematiche) l’esistenza di un saldissimo il legame non sempre scontato degli abitati con la geografia, del rapporto tra urbanizzazione e topografia rurale, con continue novità nel corso del tempo; ma le domande sono mille e constatiamo insieme i limiti delle nostre conoscenze, in quella che era stata un’enclave del Regno di Numidia con capitale Mactaris. Un caso di scuola sul quale tutti abbiamo in passato dovuto fare i conti.

Mela Albana ha posto il rapporto tra i militari della Legio III Augusta fino a Gordiano IIInella regione del Mons Aurasius, l’Aurés, e l’urbanizzazione civile circostante: le opere infrastrutturali (strade, accatastamento, acquedotti, fortificazioni) e attività di controllo del territorio. I trasferimenti del campo legionario –da Ammaedara a Theveste e infine a Lambaesis– furono accompagnati dalla fondazione di colonie e municipi, innescando processi di romanizzazione che favorirono la nascita di nuovi centri urbani, con un processo di integrazione dei veterani nelle comunità locali, mai definite canabae. In Numidia meridionale a quanto ne sappiamo solo pochi veterani intrapresero carriere municipali, mentre la maggioranza si distinsero come evergeti o sacerdoti del culto imperiale. Le città nate attorno agli accampamenti, al piede del massiccio montuoso, mantennero comunque una forte dipendenza dall’autorità militare, con il legato che esercitava funzioni civili e di patronato. Le epigrafi menzionano numerose magistrature civiche e sacerdotali, a testimonianza del grado di assimilazione delle istituzioni romane e, più in generale, della profondità del processo di romanizzazione. In quest’’area l’esercito romano fu il principale motore della trasformazione territoriale, sociale e istituzionale, capace di modellare in profondità le strutture urbane e amministrative e favorendo il consolidarsi del modello municipale romano.

Claudio Farre ha indagato la possibile relazione tra la trasformazione del paesaggio urbanistico e monumentale e la storia istituzionale delle tre città di Hippo Regius, Calama e Cuicul. Solo a Hippo Regius, che sarebbe divenuta la sede episcopale di Agostino, emerge con chiarezza il rapporto tra edilizia pubblica e promozioni giuridiche, quantomeno per la fase immediatamente successiva allo statuto municipale e per quella che precede l’istituzione della colonia; considerazioni parzialmente analoghe vengono estese a Calama con i tribuli della Papiria, mentre per Cuicul la situazione è inevitabilmente diversa per via della sua stessa storia istituzionale e le tracce cronologicamente vicine alla deduzione sono molto episodiche. In tutti i casi si conferma il rapporto tra monumentalizzazione (costruzione di terme) e municipalizzazione e il radicamento di alcuni culti come Apollo, Saturno Frugifer o Tellus, accanto al calendario del flaminato imperiale. Temi che sono stati oggetto poi della relazione oggi di Paola Ruggeri, che ha battuto a tappeto e in modo credo originale la fisionomia divina dei dii patrii, legati ai municipi e alle colonie come protettori delle città e dei loro abitanti. In epoca imperiale la gerarchia religiosa appare legata alle singole situazioni territoriali e cittadine come attestano le fonti. Spesso, la loro fisionomia divina fu condizionata dalle precedenti divinità del pantheon punico, Eshmun e Baal Addir, che divennero rispettivamente Apollo e Mercurio pur mantenendo le funzioni dei loro predecessori; talvolta i dii patrii riuscirono a sopravvivere con il loro nome locale e le caratteristiche originarie come nel caso di Iocollo, deus patrius a Naragarra. Il legame di queste divinità con il culto imperiale è assai probabile dal momento che spesso gli imperatori si identificarono con i dii patrii della loro città come nel caso di Settimio Severo e dei figli a Leptis Magna, per non parlare di Cesare e Augusto. Il momento della promozione istituzionale con l’assunzione di cognomenta di una città costituisce una preziosa occasione per far riemergere antichissime tradizioni religiose alle quali i cittadini locali erano legati in modo emozionale: forse gli dii patri, sconosciuti prima del processo di romanizzazione, rappresentano una forma di resistenza che è in contrasto con le nuove divinità introdotte dai coloni.

Cecilia Ricci si è posta la domanda se le iscrizioni che ricordano costruzioni (o rifacimenti o restauri e consolidamenti) di edifici pubblici possano essere legate alle promozioni di Rusicade nella Confederazione Cirtense con Traiano, Madauros, Thibursicum Numidarum, ove è però documentata una tradizione di interventi che inizia già in età repubblicana col re Iempsale figlio di Gauda. La studiosa si trova a che fare con una documentazione che lascia parecchi interrogativi sulla tipologia dei monumenti dal I al III secolo, come il teatro di Rusicade, i templi del culto imperiale o di singole divinità e sul fatto che alcuni di essi possano aver avuto un valore maggiormente significativo da un punto di vista del prestigio della città. Possiamo osservare il profilo dei protagonisti degli interventi e la volontà rappresentativa di gruppi familiari in ascesa nel tempo: il tutto da inquadrare nello sviluppo della Confederazione Cirtense.

Moheddine Chaouali e Ones Lemjid (INP) hanno richiamato il detto pliniano ex Africa semper aliquid novi che indica come l’Africa sia una fonte costante di sorprese e novità. Il nuovo inedito del servo Vilicus di Bulla Regia conferma la complessità della struttura dei 18 uffici doganali fin qui conosciuti per la riscossione dei IV publica Africae, lungo la frontiera (il c.d. Fossatum Africae) che non erachiusa ma permeabile e controllata già dall’età di Adriano. Tema affrontato di recente nel bel volume curato da Cristina Soraci Fiscalità ed epigrafia nel mondo romano, 2020. Del resto come abbiamo osservato su “Epigraphica” Mela Albana si era chiesta se il pagamento dei dazi in una stazione evitava un nuovo pagamento alla stazionesuccessiva per le stesse merci, ponendo il problema dei confini dei singoli distretti. Naturalmente ci sono tradizioni locali che sopravvivono come per la stazione doganale di Vaga, l’attuale Beja, che già per Sallustio nel Bellum Iugurthinum era forum rerum venalium totius regni maxume celebratum (XLVII, 1).

Cristina Soraci avvia la ricognizione aggiornata degli studi sulla presenza dei duoviri e degli ex duoviri nei municipi e nelle colonie della Numidia romana, soprattutto a Cuicul (30 casi) ed a Diana Veteranorum, ben nota ma non sistematicamente indagata all’interno dell’articolato quadro regionale di riferimento. La promozione a municipium o colonia dei vari centri e la conseguente introduzione in essi di magistrature romane hanno rappresentato strumenti di inclusione e valorizzazione delle aristocrazie indigene, contribuendo alla costruzione di nuove forme di potere e identità civica, in un contesto cronologico in evoluzione. L’indagine, articolata su base territoriale, viene ampliata al IVvirato e consentirà di evidenziare dinamiche comuni e specificità locali, inserendo il caso numidico con una riflessione sui processi di romanizzazione e sulle strategie imperiali di integrazione delle élite provinciali.

Lucia Rainone ha presentato i principali interventi di edilizia pubblica documentati epigraficamente a Cirta tra l’età di Cesare e quella di Gallieno al fine di comprendere meglio le dinamiche della municipalizzazione. Nella discussione abbiamo osservato la distanza tra le nostre domande e le relative risposte, a causa dei danneggiamenti subiti da Cirta nell’età di Massenzio e dagli interventi urbanistici recenti che riducono le informazioni disponibili, per quanto si impone una revisione del materiale conservato e non sempre facilmente accessibile nel museo coloniale di Constantine. Nel complesso abbiamo visto ricostruita l’azione dei curatores operum locorumque publicorum e l’esistenza di due templi peripteri, dell’aedes Mercurii, il capitolium, una basilica cristiana, un ninfeo, ma soprattutto – a causa della singolarissima situazione topografica – i ponti, l’acquedotto di Gargilianus (di cui all’iscrizione studiata da Mireille Corbier nel citato articolo su L’Africa Romana III), l’anfiteatro, i mosaici, le statue con una particolare venerazione per Dioniso. Infine il tema dei quartieri periferici ai margini dell’altipiano della capitale numida di Massinissa, come la collina di Kudiat Aty con i mausolei che immaginiamo analoghi a quelli della vicina Kroub (con una forte tradizione numida) o le belle iscrizioni metriche tarde studiate da Paola Ruggeri.

Caroline Blonce (Université de Caen) ritiene che così come non tutti i riconoscimenti ad Adriano possono essere utilizzati per attestare la presenza dell’imperatore nelle città interessate durante i suoi viaggi, non tutte le promozioni istituzionali furono sempre accompagnate dalla costruzione di un arco onorario. Esiste, tuttavia, un piccolo numero di archi la cui dedica li collega esplicitamente al nuovo statuto giuridico, sia essa una promozione al rango di municipio o di colonia. Il tema è enorme e l’autrice distingue i casi sicuri (Lepcis Magna, Althiburos, Avitta Bibba, Thugga e Cillium) da quelli più incerti (Oea, Vaga, Uchi Maius, Zama Regia, Thibursicum Bure). Credo che oggi possiamo esser sicuri che anche a Thignica si costruivano archi per puro evergetismo (il caso dei Memmii della civitas) ma anche un arco per ricordare la promozione a municipio Erculeo e Frugifero nell’età di Settimio Severo e Caracalla. Rimane la necessità di approfondire la distanza cronologica tra promozioni municipali e elevazione di archi, al di là della revisione delle iscrizioni dedicatorie spesso imprecise, visto che si segnala un ritardo dovuto forse alle autorizzazioni necessarie oppure alla durata stessa del cantiere per alcuni archi che presentano davvero caratteristiche stilistiche straordinarie come nel caso di Oea oggi Tripoli. Infine le sorprese delle nostre fonti, forse come per il titolo di Septimia e non Septimia Aurelia Antoniniana per l’arco della colonia di Vaga dedicato nel 209 sotto Settimio Severo e Caracalla (CIL VIII 14395).

Lorenzo Gagliardi con una straordinaria competenza romanistica ha dato impulso agli studi sullo statuto degli incolae indigeni nelle colonie romane, tema centrale per comprendere i rapporti giuridici tra coloni e popolazioni locali. La tesi maggioritaria sostiene la coesistenza di due modelli: da un lato gli incolae indigeni, assoggettati alla giurisdizione dei magistrati coloniali; dall’altro le res publicae peregrinorum, comunità autonome configuranti le Doppelgemeinden (il doppio dominio), ampiamente attestate in Africa. La dottrina recente nega l’esistenza degli incolae e riduce ogni caso al modello delle res publicae. L’analisi dei passi gromatici di Siculo Flacco e Igino sembra però mostrare la pluralità delle soluzioni previste, confermata dall’epigrafia (come l’editto di Antiochia di Pisidia) e dai catasti (Orange). L’incolatus dei nativi risulta distinto ma complementare rispetto alle res publicae peregrinorum. Discussione è stata sollevata sull’interpretazione tecnica e giuridica del termine iurisdictio presente nelle fonti gromatiche, così come sulla rappresentazione effettiva delle procedure relative agli agri redditi, in situazioni spesso differenti.

Moheddine Chaouali (À propos du passé pré-municipal de Viltha : encore un castellum civil dans la Moyenne vallée de l’oued Medjerda) ha presentato una dedica inedita di una statua, Genio cast(elli) Aug(usto) (forse la Fortuna Vilthensis ?) che un C. Na(m)gedus ha posto a sue spese, per la sede del corpus, di una corporazione religiosa locale. Gli aspetti rilevanti sono molti, mi limiterò a segnalare quelli istituzionali e quelli onomastici : il castellum di cui si parla è forse uno degli 83 castella della pertica di Cartagine come ad Uchi Maius (CIL VIII 26874, da collegare col M. Caelius Phileros di Formia, CIL X 6104). Sull’onomastica – davvero interessante perché esito di una forma locale tardo-punica – basterà un rimando all’indice del recente volume di Alessandro Campus.

Sabine Lefebvre dell’Université de la Bourgogne (L’aide discrète des sénateurs et des chevaliers dans la promotion des cités : l’exemple de la Proconsulaire) ha esaminato le procedure della promozione, la difesa dei privilegi del pagus civium Romanorum rispetto alla civitas peregrina di Thugga, la serie di legationes urbicae di personaggi eminenti (patroni, legati) per ottenere almeno lo ius Latii (sullo stesso tema era annunciato l‘intervento scritto di Samir Aounallah, Communautés doubles dans l’Afrique proconsulaire). E poi il significato dell’indulgentia imperiale come sull’arco di Uchi Maius che contiene anche un richiamo alla Libertas riconquistata (CIL VIII 26262), con un provvedimento imperiale sollecitato silenziosamente ad esempio da alcuni cittadini illustri come Marco Attio Corneliano, divenuto poi prefetto del pretorio, civis et patronus, esaltato ob incomparabilem erga patriam et cives amorem (CIL VIII 26270) : non solo con allusione ad interventi economici, ma alla gratitudine per il prestigio ottenuto dalla che patria lontana, ora colonia libera ; così ad Abbir Cella un esponente della stessa famiglia sotto Filippo l’Arabo (CIL VIII 814).

Cari amici,

dal mosaico dei vostri interventi in questi tre giorni scaturiscono nuove piste e nuovi impegni, che certo ci saranno utili per capire e per allargare uno sguardo che vogliamo ancora per lunghi anni sempre più partecipe, affettuoso e solidale.




Tracce di pellegrinaggi nella Sardegna antica attraverso le iscrizioni

Convegno “Pellegrinaggi e luoghi santi nella Sardegna medioevale e moderna”

Cagliari 20 giugno 2025

Questo convegno su Pellegrinaggi e luoghi santi nella Sardegna medioevale e moderna ha una necessaria premessa: dobbiamo occuparci della fase tardo antica e bizantina, sulla quale spesso si sorvola per la paura di incorrere nei falsi, nei sancti innumerabiles barocchi, anche se la pratica religiosa ha radici profondissime, che è necessario tener presenti se si vuole davvero comprendere il tema della lunga durata e della rete di relazioniculturali che precedono l’età giudicale, senza la paura di affidarci ad una documentazione che arriva indietro in alcuni casi quasi all’età delle persecuzioni.   

A Roma i cristiani celebravano l’eucaristia presso le tombe dei martiri, spesso situate nelle catacombe, veri luoghi sacri: qui il cielo e la terra si incontravano. Queste celebrazioni rafforzavano il senso di comunità e di continuità tra i vivi e i defunti nella fede; al momento della morte, i fedeli potevano farsi seppellire nelle vicinanze della tomba di un martire: il che finiva per esser considerato un privilegio speciale, che veniva ricercato fin dalle origini del cristianesimo, perché si accompagnava ad una promessa di sopravvivenza, garantendo effettivamente la vittoria sull’oblio dopo la morte, anche per la frequenza con la quale si celebravano le ricorrenze liturgiche per ricordare il martirio dei santi vicini, in qualche modo comites del defunto. Il credente poteva così sperare nell’aiuto miracoloso dei santi sepolti a breve distanza da lui, che in qualche modo si sarebbero potuti occupare della quies e della securitas delle ossa e della protezione della tomba, evidentemente destinata, quest’ultima, a divenire essa stessa luogo di devozione e di preghiera e dunque protetta dalla venerazione dei fedeli che frequentavano la necropoli privilegiata. Sono i santi vicini che intercedono presso il Signore in favore dei defunti sepolti con loro e che un domani, arrivata l’ora del giudizio finale, daranno al corpo l’impulso per rinascere nella risurrezione. La sepultura ad sanctos, [ad] martyres, ante specum martyrum, ad sanctorum locum, è una costante nell’epigrafia funeraria già dal IV secolo in tutto l’impero e anche in Sardegna, perché il defunto risorgerà assieme ai santi: resurrecturus cum sanctis, come a presso Carthago Nova, dove il prete Crispinus affida la tomba alla protezione dei martiri, [ut cu]m flamma vorax ve[n]iet comburere terras, ce[ti]bus s(an)c(torum) merito sociato resurgam, hic vite curso anno finito (affinché quando la fiamma vorace giungerà a bruciare le terre, io possa risorgere, meritatamente associato ai santi, qui, una volta terminato l’anno della mia vita).

Nella liturgia esequiale medioevale l’espressione In Paradisum deducant te Angeli; in tuo adventu suscipiant te Martyres, et perducant te in civitatem sanctam Jerusalem, con i verbiverbi incalzanti ducant-suscipiant-perducant, richiama il movimento verso quella realtà ultraterrena che è la santa Gerusalemme. Vedremo che queste espressioni sono tarde ma in parte ricorrono sei secoli prima a Turris Libisonis nel IV secolo per la Puella dulcia Ad[e]odata a sanctis marturibus suscepta, la dolce fanciulla Adeodata, accolta dai santi Martiri. Mentre era ancora promessa sposa, abbandonò la vita sul far dell’alba nel giorno mercoledì 16 dicembre. Ella visse circa 16 anni; morì vergine. Raimondo Turtas era convinto che l’espressione sarda sia non solo precedente ma anche autonoma dalla liturgia esequiale romana medioevale, evidentemente fondata su fonti comuni.

A partire dal IV secolo, forse già prima, a Roma le tombe dei martiri divennero mete di pellegrinaggio, e su di esse sorsero basiliche e santuari, i martyria. Alla vigilia del sacco del 410 da parte dei Visigoti, formulando quasi una premonizione, Girolamo scriveva nel 403 dalla lontana Palestina, nell’anno del trionfo di Onorio su Alarico osservando con dolore ma anche con speranza: «il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnatele hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le sono proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accorre alle tombe dei martiri», in particolare San Pietro e San Paolo: auratum squalet Capitolium; fuligine et aranearum telis omnia templa cooperta sunt; movetur urbs sedibus suis et inundans populus ante delubra semiruta currit ad martyrum tumulos. Per usare le parole che Agostino pronunciò con riprovazione l’anno dopo nell’omelia recitata nella basilica della nostra Thignica, il municipio africano dove abbiamo in corso gli scavi, era passata solo una generazione da quando tutti gli abitanti erano pagani e servivano i demoni.  L’abbiamo ritrovato Agostino a Pavia e a Milano presso il Centro Ambrosiano e la Biblioteca rileggendo le Confessioni: <<Et veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum, in optimis notum orbi terrae, pium cultorem tuum, cuius tunc eloquia strenue ministrabant adipem frumenti tui et laetitiam olei et sobriam vini ebrietatem populo tuo>>. L’abbiamo ritrovato, Agostino di Ippona,  nei nostri luoghi in Africa o in Sardegna, come a Thignica o a Carales, qualche anno dopo, con un’emozione che mi è ora davvero difficile descrivere.

Se torniamo proprio alla Sardegna, conosciamo non pochi fedeli morti nell’isola, lontano dalla propria patria, il cui corpo fu oggetto di venerazione prima e poi trasferito nelle catacombe romane: solo per fare alcuni esempi ricorderemo almeno il vescovo di Roma Ponziano e il presbitero Ippolito nell’età di Severo Alessandro, deportati in Sardinia, in insula nociva; in eadem insula adflictus maceratus fustibus defunctus est III kal. Novemb. L’arrivo del successore Fabiano e di un gruppo di chierici giunti in Sardegna per recuperare le salme si presenta come un vero e proprio pellegrinaggio ad martyres.

Le iscrizioni ci fanno conoscere anche il caso del messo pontificio Annius Innocentius, un attivissimo acol(uthus), che ob eclesiasticam dispositionem itinerib(us) saepe laborabit: infine morì in Sardegna; le sue ossa furono traslate alla metà del IV secolo a Roma, nel cimitero di Callisto: postremo missus in Sardiniam, ibi exit de saeculo; corpus eius huc usq(ue) est adlatum. Non escluderei che questa missione ufficiale in Sardegna, svoltasi poco prima del 366, secondo Ferrua «nel pieno delle traversie subite dalla chiesa romana da parte degli ariani», possa essere collegata con le posizioni assunte da Lucifero di Cagliari: a recuperare il corpo venerato di Annius Innocentius arrivò forse una delegazione da Roma, ancora una volta in una sorta di pellegrinaggio devoto.

Come nel resto dell’impero, anche in Sardegna fin dai primi secoli del cristianesimo, la memoria dei defunti — in particolare di coloro che avevano sacrificato la vita per la fede in Cristo — fu oggetto di profonda venerazione da parte dei fedeli. Addirittura in età adrianea sarebbe morto Antioco, che si vuole cacciato in esilio dalla Mauretania per la sua adesione alla dottrina cristiana ed approdato secondo una dubbia tradizione alla Sulcitana insula Sardiniae contermina a bordo di una parva navicula. Conosciamo la topografia del santuario di Sulci, ove risplende per i fedeli che percorrono il corridoio sotterraneo l’aula ubi corpus beati sancti Anthioci quiebit in gloria virtutis; i restauri decisi dal vescovo Pietro sono stati effettuati per arricchire l’edificio di culto cultu splendore, marmoribus, titulis, nobilitate fidei, evidentemente ad edificazione dei numerosi visitatori; tituli ha il significato tecnico di epigrafi. Ci resta una copia in marmo dell’iscrizione musiva originaria, il titulus metricoche Antonio M. Corda ritiene quasi una “didascalia” collegata ad un’immagine del santo nella gloria.

Gli studi sui Martyriae Sardiniae, i santuari dei martiri sardi, sono stati completamente rinnovati a partire dal 2000, dopo l’opera di Pier Giogio Spanu, che ha in copertina il titulus di Luxurius che proviene dal luogo dove effusus est sanguis beatissimi martyris Luxuri, completamente restaurato al tempo del vescovo Elia a Forum Traiani, la capitale bizantina dell’isola, presso le sorgenti calde delle Aquae Ypsitane, in passato votate ad Esculapio e alle Ninfe Salutari ed ora al culto salutifero di Lussorio: da qui provengono le monete d’oro, i tremissi di Liutprando con le quali sarebbe stato acquistato il corpo di Agostino a Carales, quello di Lussorio, di Cisello e Camerino a Forum Traiani-Crisopoli; le reliquie arrivarono fino a Ticinum, Pavia. Sempre al 2000 risalgono gli studi di Antonio Corda sulle iscrizioni paleocristiane della Sardegna e di Ramondo Turtas sulla Chiesa in Sardegna fino al 2000.

Voglio ricordare anche il volume del 2006 sui Culti, santuari, pellegrinaggi in Sardegna e nella penisola iberica tra medioevo ed età contemporanea curato per il CNR da Maria Giuseppina Meloni e Olivetta Schena, con numerosi interventi che trattano il nostro tema, anche se il punto di vista tardo antico è molto trascurato. Proprio da questo volume si sviluppa il filone dei pellegrinaggi in Sardegna in età medioevale e, con l’articolo di Ignazio Grecu, le segnalazioni delle “orme dei pellegrini” che avevano costituito il tema della mostra promossa da Giampietro Dore nel 2001, con il relativo catalogo, da Tergu a Bisarcio, da Fordongianus a San Paolo di Milis, a Zuri. Infine, il mio allievo Giuseppe Piras ha recentemente presentato il santuario di Balai a Porto Torres, con i segni epigrafici del passaggio di pellegrini.

Credo sia ora giunto il momento di fare un passo in avanti sul tema specifico del pellegrinaggio in età tardo antica e bizantina e dunque ci concentreremo soprattutto sulle nuove scoperte che testimoniano l’esistenza di una pratica religiosa legata alle tombe venerate così soprattutto a Carales per Leontius, per Saturninus e per Agostino, ad Olbia, presso la basilica del martire Simplicio, a Turris Libisonis presso il santuario di Monte Agellu.

Per questo intervento abbiamo scelto due immagini della lastra decorata di Maximus, sepolto a Cornus in un sarcofago, coperto da un lastrone calcareo al cui interno era inserita la lastra, che testimonia una storia di redenzione. Il sarcofago era collocato entro uno spazio tra due absidi della basilica cimiteriale, spazio accessibile attraverso una fenestella confessionis, frequentata dai fedeli; con tutta probabilità siamo negli anni successivi all’arrivo di cristiani dal Nord Africa al tempo di Fulgenzio di Ruspe, esiliato dai Vandali all’inizio del VI secolo: la colomba e la nave, con i monogrammi A e Omega. Come è noto la tomba è stata scoperta nel 1956; ho avuto l’onore di lavorarci alla fine degli anni 70 e di esser scelto dal vescovo Giovanni Pes per accompagnare il pellegrinaggio del Card. Jozef Glemp nell’estate 1981. La colomba di Cornus è stata oggetto di recente dello studio frontale di mons. Pietro Meloni, ma compare anche sulle tombe a mosaico di Turris Libisonis. Non possiamo non rimandare al volume di Anna Maria Giuntella, Giuseppina Borghetti e Daniela Stiaffini, Mensae e riti funerari in Sardegna, la testimonianza di Cornus, che è un testo esemplare per ricostruire l’interazione tra vivi e defunti attraverso il refrigerium. Analoghe situazioni riguardano le reliquie di martiri africani trasferite in Sardegna nella stessa occasione, che favorirono lo sviluppo di forme di pellegrinaggio legate alla collocazione degli esiliati e delle reliquie da essi introdotte nell’isola, destinate a nuova chiese; a parte Cornus, di cui si è detto, come non pensare a Speratus ad esempio, uno dei martiri scillitani di cui ci restano gli Atti del martirio e tanti altri nel Campidano ? E a Carales ad alcuni dei martiri di Abitina uccisi nel 304? Infine, a pur titolo di esempio, al santuario di Santa Filitica sul mare di Sorso, che farebbe pensare ad una reliquia di Felicita, martire a Cartagine ?

Le recentissime scoperte in corso di pubblicazione sulle origini della Chiesa di Turris Libisonis ancora inedite e presentate da Gabriella Gasperetti, Alessandra La Fragola, Alessandra Carrieri nella domus dei mosaici marini dimostrano ora un aspetto centrale di questo intervento, il ruolo dei porti – di Turris così come di Carales e di Olbia – per l’arrivo della nuova religione in Sardegna e dimostrano che le strutture religiose sulla collina di San Gavino di Porto Torres – il Mons Agellus – sono decisamente posteriori ai primi insediamenti. Arrivati dalla penisola e stabilitisi alla foce del Fiume Mannu presso il porto sul mare, i primi cristiani costruiscono un edificio al piede della collina: la domus presenta un mosaico con l’espressione Deo gratias qui praestitit (vitam)”, ovvero “grazie a Dio che ridato la vita ai morti”, un’espressione che forse anticipa il De correptione et gratia, 11, 29.30, scritto nel 427 da Agostino. Anche in questo caso da qui si sviluppa col tempo la nuova urbanistica della città cristiana, che poi si organizza attorno alla tomba di Gavino a Turris, ma anche di Simplicio ad Olbia e di Saturnino a Carales giustiziato nei pressi del porto, per non parlare di Efisio a Nora o di Antioco a Sulci, presso le tombe venerate. Infine la temporanea sepoltura di Agostino sul porto di Carales. 

Proprio a Porto Torres non possiamo non citare la “matassa” di scritte sulle pareti dell’ipogeo di Balai (sto facendo mia l’espressione di Margherita Guarducci – si parva licet – per la tomba di Pietro) : qui la Passio colloca il martirio di Gavino, Proto e Gianuario. Pier Giorgio Spanu ha documentato i segni dell’ininterrotto culto riservato ai martiri presso l’originario ipogeo al quale si addossa la chiesa di Balai, le cui pareti sono segnate da numerosi graffiti, coperti in parte dal nerofumo dei ceri collocati su mensole: il palinsesto delle iscrizioni, molte delle quali evidentemente votive, permette di accertare l’esistenza di graffiti antichi: in alcuni casi i solchi delle lettere presentano spesse incrostazioni e precedono lo strato annerito creato dal fumo, elementi questi che potrebbero essere sintomi di maggiore antichità di queste lettere e segni graffiti rispetto ad altri: una croce monogrammatica con occhiello semicircolare che si conclude inferiormente presso la sbarra orizzontale della croce, altre croci e una palmetta; ora Giuseppe Piras segnala l’incisione di due croci sul Golgota, (una nella parete nord). Sappiamo che si tratta in alcuni casi di grafiti attribuibili ai fedeli che visitavano il celebre santuario, luogo della temporanea deposizione dei martiri: ma che fossero pellegrini che avevano attraversato il mare è tutto da dimostrare. Il fenomeno del resto è notissimo e ben studiato da Werner Eck, Gaffiti nei luoghi di pellegrinaggio dell’impero tardoantico che cerca di circoscrivere alquanto – forse troppo – il concetto di pellegrinaggio chiedendo un approfondimento caso per caso e, riferendosi soprattutto alla Terra Santa: << Il termine moderno indica in genere gli stranieri che lasciano temporaneamente la propria città natale, la patria, per raggiungere un luogo particolarmente venerato>>: andrebbero invece esclusi i fedeli che visitano abitualmente un santuario.

Effettivamente il problema esiste ed è rappresentato dal fatto che il termine peregrinus (specialmente nei carmina), che troviamo almeno quattro volte nelle iscrizioni paleocristiane della Sardegna, è generico, varia nel tempo e si applica inizialmente ai nativi privi della cittadinanza romana, anche dopo la consititutio antoniniana de civitate del 212; nell’isola dunque i sardi non cives, che sono per così dire stranieri in patria. Ma il termine indica anche gli stranieri veri e propri, anche cittadini romani, richiamati ripetutamente sulle iscrizioni paleocristiane della Sardegna per essere assistiti assieme alle viduae, alle matres, agli orfani, ai poveri, con riferimento alle notissime prescrizioni della Bibbia e dei vangeli. Potremmo citare una molteplicità di passi scritturistici, che sono certamente un punto di partenza essenziale. F. Grossi Gondi definiva peregrinus il fedele che viveva o era di passaggio, in una comunità cristiana, diversa da quella a cui era stato aggregato a mezzo del battesimo: citava alcune iscrizioni come ad esempio i pii subb[entores et hospi]tes peregrinorum.  I pellegrini venivano soccorsi dalla pietà dei fedeli e, in Africa essi avevano degli ospizi presso le chiese, come si rileva dall’iscrizione del municipium Turcetanum dove si ricorda che hac porta domus est ecresie patens peregrinis et pauperibus. Tra gli elogi dei defunti si incontra il susceptor peregrinorum et hospitum, come a Sorrento. E poi le virgines peregrinae, gli infantes peregrini o pellegrini ecc. Temi che ricorrono esattamente anche in Sardegna, dove conosciamo gli elogia per personaggi dell’aristocrazia che si sono distinti per aiutare i peregrini, i pauperes, le viduae, gli orfani accolti in xenodochia, come ad Olbia, a proposito di uno xenodochium realizzato ad peregrimorum hospitalitatem. Il cristianesimo e le istituzioni ecclesiastiche seppero creare una formidabile rete di assistenza per il soccorso e la cura dei poveri ammalati. Anche l’Occidente latino fu in grado di sviluppare strutture per l’accoglienza e il ricovero dei poveri che si trasformarono in ospedali per ammalati. Mentre in oriente e in particolare in Egitto si distinguono i nosokomeia (ospedali), gli xenodocheia (luoghi di accoglienza) sino ai lochomeia (residenze per donne/maternità) o ad esempio i lebbrosari (kelyphokomeia), il lessico per designare i luoghi di cura in Occidente fu xenodocheion, termine generalmente usato per designare la struttura ospedaliera. Andrebbero riesaminati in questo senso il lessico epigrafico e i formulari cristiani nei quali spesso ci si imbatte in espressioni, talvolta superficialmente ritenute convenzionali e retoriche, come inopum refugium, peregrinorum auxilium oppure fautor che potrebbero piuttosto far riferimento alla presenza di xenodocheia citati in Sardegna da Gregorio Magno.  Certo ilmeccanismo assistenziale, il concorso di strutture di accoglienza e le elargizioni di beni materiali, insomma in generale l’opera caritativa più o meno istituzionalizzata non erano alieni da disfunzioni.

A noi sembra evidente che il termine tardo antico e medievale latino di peregrinus non si sovrapponga a hospes, alienigena, àdvena, extraneus, barbarus o altro; esso è alla base anche del nostro pellegrino, che indica i fedeli devoti ad un personaggio venerato, ad un luogo sacro, ad un santuario, ad una memoria.  Alcune testimonianze ci assicurano che peregrini sono coloro che, singoli o in gruppo, lasciano la propria comunità nativa per motivi religiosi, per recarsi in un luogo diverso, sacro: in alcuni sarebbe implicita la volontà di tornare in patria, per altri è essenziale l’abbandono della comunità nativa per motivi religiosi, la distanza di luogo rispetto al porto di sbarco in Sardegna. Per Eck, se si vuole stabilire la necessaria chiarezza definitoria che dovrebbe essere alla base di ogni lavoro storico, allora proprio la distanza spaziale tra la patria del “pellegrino” e il luogo di culto diventa il nodo per capire se noi abbiamo a che fare con il graffito di un pellegrino o solo con il graffito di un altro visitatore del santuario.

Se guardiamo al mondo romano, Lietta De Salvo ci ha insegnato in un contesto geografico preciso, quello della Gallia della seconda metà del VI secolo, che i pauperes, malati, che si recavano alla basilica di Tours, per invocare la grazia presso la tomba di san Martino (secondo la statistica di Luce Pietri circa il 70% sul totale dei pellegrini che si recavano a Tours) dovevano per la maggior parte essere modesti agricoltori, artigiani, pastori, servi e schiavi accomunati da scarsa o inesistente capacità economica e in molti casi da insufficienze alimentari a loro volta fonte di malattia.  I pauperes spesso possono essere pellegrini sebbene non tutti i pellegrini siano pauperes in quanto, nel caso di Tours, conosciamo l’eterogeneità sociale dei pellegrini. Abbiamo detto che nelle nuove iscrizioni paleocristiane della Sardegna la parola peregrinus va tradotta pellegrino o straniero e compare almeno quattro volte spesso in associazione con pauperes.

Sarebbe utile stabilire, almeno indicativamente, l’affermarsi a livello epigrafico del parallelismo lessicale tra pauperes e peregrini: per la Sardegna ancora nella prima metà del IV secolo è attestato piuttosto il parallelismo peregrini-inopes, come si ricava dall’iscrizione di Matera, da Turris Libisonis con la lunga laudatio metrica della defunta, con l’espressione auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulgus, datata ora verso il 350 d.C. Per Matera ci troveremmo allora di fronte ad una tomba della metà del IV secolo, che conserva il corpo di una defunta vissuta 70 anni, nata dunque attorno al 280 d.C., lodata dal marito, dal populus e dal vulgus di Turris Libisonis; essa non ha avuto paura della morte (exitium nec timuit sed vicit omnia in Chris(to), cui lux erit perenni circulo fulcens)». Che ci muoviamo in pieno IV secolo è testimoniato dalle due vicine iscrizioni datate con anno consolare, l’epitafio di Musa del I giugno 394 e l’epigrafe del puer Victorinus del 25 ottobre 415, entrambe più tarde di alcuni decenni. I recenti scavi hanno dimostrato una la serrata sequenza stratigrafica, aperta con i mosaici funerari di Turritana e Pelagius [forse anche Pascasia ricordata dal genitor] e chiusa con l’epitafio di Musa datato con anno consolare al I giugno 394: prima di questa data dovremmo collocate nell’ordine la tomba di Matera (nr. 16), quella di Adeodata a sanctis marturibus suscepta, come si è visto con un esplicito riferimento ai martiri (tomba nr. 17) e infine di Musa (nr. 19).

Per Matera ci troveremmo allora di fronte ad una tomba della metà del IV secolo, che conserva il corpo di una defunta lodata dal marito, dal populus e dal vulgus di Turris Libisonis; essa non ha avuto paura della morte (exitium nec timuit sed vicit omnia in Chris(to), cui lux erit perenni circulo fulcens).

Una recente traduzione del testo:A Matera di buona memoria. Lei che spesso il popolo (vulgus) considerò soccorritrice degli stranieri (peregrini). Con il fulgido esempio della sua vita terrena dimostrò anche coraggiosamente alla sua stessa gente (populus dei cives) che tutti considerava come figli. Non ebbe paura della morte violenta ma superò ogni prova (confidando) in Cristo; a gloria di lei la luce risplenderà con un’aureola perenne; lei che Cristo stesso aveva destinato come genitrice delle vedove (matrum) e degli indigenti (inopum parentem). Per ciò il consorte racconta tali cose della dolce compagna. È vissuta 70 anni, 3 mesi, 15 giorni. Lei che è morta il 22 aprile.

Non possiamo escludere del tutto che i peregrini di cui si parla siano gli stranieri che visitavano il santuario martiriale poco dopo la morte di Gavinus, perché il nostro testo sembra conservare il ricordo della persecuzione, se abbiamo inteso bene l’anastrofe exitium nec timuit sed vicit omnia in Christo. E’ vero che Vincenzo Fiocchi Nicolai in occasione dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Cagliari, 2014) interpreta l’exitium nec timuit del testo, non come un accenno alla “morte non temuta” della donna durante la persecuzione di Diocleziano, ma più semplicemente come un riferimento alla concezione, tipica dei cristiani, della morte come evento ”da non temere”, in quanto passaggio alla vita ultraterrena; viceversa Paolo Cugusi ha accolto la suggestione (fin qui molto contrastata) di interpretare exitium del v. 4, come la morte violenta, come un collegamento al martitrio di Gavinusexitium, scil. ‘martyrii’»). Fiocchi Nicolai non vedrebbe, invece, in Matera una donna scampata al martirio durante la persecuzione dioclezianea. Eppure il rapporto coi martiri sembra certo ed è rafforzato dalle recenti osservazioni – sul piano più strettamente archeologico e stratigrafico – di Franco G.R. Campus, che ricostruisce la nascita del culto di Gavinus e dei suoi compagni, spostando il luogo del supplizio a Balagai-Balai come già Giuseppe Piras, mentre il Mons Agellus (dove pure è documentata la continuità tra la necropoli pagana e quella cristiana) avrebbe ospitato i corpi santi solo in un secondo momento, secondo la versione che ormai sembra prevalere tra gli studiosi.

L’attributo auxilium peregrinorum è ben confrontato in Sardegna con l’epitafio di Secundus di Olbia ritrovato presso il martyrium del vescovo Simplicio CIL X 7995,  inviato al Regio Museo di Antichità di Torino nell’Ottocento, oggi non reperibile anche se abbiamo affidato alla direttrice Elisa Panero un’indagine in proposito (Il dedicante si commuove ricordando come il defunto sia stato in vita inopum refugium e peregrinorum fautor):  Alla buona memoria di Secundus, degno e dolcissimo per i suoi meriti, uomo di grande integrità, padre degli orfani, rifugio dei poveri, soccorritore dei pellegrinipatri orfanorum inopum refugium peregrinorum fautor),  religiosissimo e impegnatissimo nel rigore davvero severo, egli che è vissuto all’incirca 70 anni. A lui che l’ha meritato Paolina sua moglie e Gianuario suo figlio fecero (riposi) in pace.

Nell’epitafio di Matera i termini populus e vulgus non sembrano sovrapporsi tra loro, se il primo indica forse i soli cives della colonia e il secondo i peregrini immigrati o i pellegrini, devoti che visitano il santuario.  Il tutto va confrontato con plebs dell’iscrizione turritana che cita almeno un martur; la stessa espressione plebs in un testo metrico forse caralitano che fa riferimento alla venerazione dei visitatori nella necropoli di Sant’Avendrace: i visitatori sono la plebs semper venerans, cioè ‘plebs (populus, vulgus) laudans et deflens mortuum’, il defunto forse un Leontius, la cui anima è arrivata in cielo: [corpus ter]ra tegit, anima [ad astra volat] (?).

Per il resto, abbiamo già messo in evidenza il fatto che il nome femminile Matera è raro e che sembra evidente un lusus nominis, effettuato giocando con il contenuto dell’epitafio (quem matrum aut inopum decernerat ipse parentem). Ci sarebbero elementi per pensare ad un personaggio inserito nella classe sociale dei ricchi possessores: Matera, «munifica in pauperes» appare come un esponente di spicco della comunità turritana, una ricca proprietaria, un’aristocratica sicuramente in grado di far fronte con i propri mezzi ad un’azione caritativa a favore di un ambiente sociale degradato, che avrà avuto anche precisi costi economici. I commenti più recenti hanno messo in rilievo tra l’altro: la dedica originaria della lastra, che era agli Dei Mani in ambito pagano, poi corretta all’uscita dall’officina in B(onae) m(emoriae), quando fu inciso l’epitafio; gli aspetti metrici del carmen che sono estremamente significativi (dattili poco curati, parum boni); una serie di interpunzioni sembrano indicare la fine di ogni verso. Il giudizio finale di P. Cugusi è davvero importante: sed re vera fortasse novi generis, ut dicam, versus esse videantur, maxime in clausulis. Significativo il riferimento alla luce della vita eterna (lucendo al v. 2), che torna al v. 5 con la spiegazione di Cugusi (cui lux erit perenni circulo fulcens: scil. “illi (Materae) lux erit splendens in aeterno circulo”, i.e. “semper relucenti corona circumdata erit” pro meritis); il confronto più immediato con i gaudia lucis nobae di CLESard. 22non da Olmedo ma da Cagliari; si veda anche felici condita luci per l’Emerita forse di Carales.  Al v. 6. viene commentata l’espressione inopum… parentem, che trova confronti in Sardegna e in tutto l’impero: «Matera fuit ‘mater pauperum’, ut Karissimus fuit ‘pauperum mandatis serviens’ in 2307 (prope Tharros), ut Flavia Cyriaca ‘rem sua[m pauperibus] linquit’ in 2309 (Turris Libisonis, item ad Sanctum Gavinum) utque Secundus quidam fuit ‘pater orfanorum, inopum refugium’ in Olbiensi,  itaque Christianis pauperum auxilium maximae curae fuit in Sardinia».

Abbiamo osservato in passato che sarebbe poco credibile che tutto ciò possa essersi sviluppato senza la presenza di un episcopus, di un pastore e di una guida fornita di autorità: ne potrebbe derivare l’ipotesi di una maggiore antichità della sede diocesana, che è attestata sicuramente per la prima volta un secolo dopo, in età vandala, in occasione del concilio di Cartagine del 484 con il vescovo Felix de Turribus, quando la provincia ecclesiastica comprendeva ormai la Sardegna, la Corsica e le Baleari; forse in questo IV secolo e nel successivo vissero gli episcopi turritani Gaudentius, Florentius, Iustinus, Luxurius, di un incerto titulus epigrafico su mosaico, che la tradizione vorrebbe sepolti proprio sulMonte Agellu.

Ancora a Turris Libisonis bisogna ricordare un terzo testo su un mosaico decorato con un’elegante coppa, che copre la tomba del vir spectabilis Pascalis peregrina morte raptus: è evidente che siamo di fronte a un personaggio di altissimo rango morto in Sardegna, lontano dalla patria: si tratta di un senatore di Roma o Costantinopoli. Un caso analogo è quello ricordato da Gregorio Magno per il defunto vir spectabilis romano, sepolto in Sicilia nel 591, di cui si dovevano recuperare gli schiavi.

AE 2006, 527:   Tomba del senatore Pascalis: qui giace strappato via da una morte in terra straniera (p[e]regrina morte raptus), un cittadino rende a lui onore degno per aver ben meritato, visse sessant’anni riposa cristianamente in pace.

Infine è dubbio se l’epigrafe perduta di San Saturnino a Carales (Corda 55) ricordi un Peregrinus oppure citi uno straniero: per usare le parole di Antonio Corda <<indichi <<uno stato sociale (peregrinus) oppure, ancora, più difficilmente “pellegrino”>>.

Il tema è dunque quello di capire chi fossero i peregrini aiutati da Matera e da Secundus, mentre per il vir spectabilis Pascalis sembra un personaggio morto lontano dalla patria, ma per il quale viene dedicata una elegante tomba privilegiata presso il luogo ove erano sepolti i martiri di Turris. Analogamente Cugusi segnala il fatto che per la vergine trentenne Ammia del IV secolo morta a Carales e proveniente dalla Frigia, sepolta presso San Saturnino «è copertamente adombrato il tema della ‘morte in un luogo straniero’».

Che esistessero presso il santuario di un martire degli xenodochia per ospitare gratuitamente i pellegrini è testimoniato dalla celebre iscrizione di Calama di inizio V secolo che nell’età di Onorio e Teodosio II ricorda l’intervento del curator rei publicae cittadino per restaurare l’edificio crollato, ad peregrinorum hospitalitatem.  Negli stessi anni Sant’Agostino parlava nel XXII libro della Città di Dio di un sacerdote di nome Eucario che viveva ancora a Calama e che era stato guarito miracolosamente grazie alla reliquia del martire Stefano, che il vescovo Possidio aveva trasportato fin dove abitava. Colpito da un male molto grave, Eucario giaceva come morto sicché gli stavano già legando i pollici. Egli risuscitò per l’intercessione del martire quando gli fu riportata a casa, dal luogo ove era la reliquia del santo, la tunica e posta sopra il suo corpo disteso.

Siamo assolutamente convinti dell’esistenza di forme di pellegrinaggio oltre che ad Olbia e Turris Libisonis, presso i rispettivi approdi marittimi, anche per Sant’Efisio a Nora e San Saturnino a Carales: un pellegrino devoto arrivato dal Nord Africa fino al martyrium di Saturninus possiamo considerare anche il celebre nobile vescovo Fulgenzio di Ruspe, nel suo secondo esilio in Sardegna per volontà del re vandalo Trasamondo: lasciato il primo monastero collocato presso il porto di Carales in una posizione urbanistica centrale, dove aveva vissuto per una decina d’anni e dove forse aveva sepolto le reliquie di Agostino ora conservate a Pavia, Fulgenzio nel 517, aiutato dal vescovo Brumasio, costruì il secondo monastero presso la tomba monumentale di  Saturninus che era stato sepolto due secoli prima in periferia, in un luogo ben distante dal porto, più isolato e silenzioso rispetto al centro cittadino. Il secondo monastero si trovava infatti secondo il discepolo Ferrando procul a strepitu civitatis, alla periferia orientale di Carales. Questo monastero segnò un salto di qualità nello sviluppo dell’esperienza monastica, che doveva rappresentare per l’isola un momento di straordinaria fioritura culturale e di profonda spiritualità con un costante richiamo all’insegnamento di Agostino nella chiesa sarda, almeno fino al definitivo ritorno in Africa di Fulgenzio e degli altri vescovi esiliati, per volontà di Ilderico.  Mi sembra se ne debba dedurre che presso il martyrium di San Saturninus a Carales doveva essere un ambiente protetto, senza il chiasso dei devoti arrivati da ogni dove attraverso il porto di Carales. Da qui proviene la lastra perduta che abbiamo visto citare in età paleocristiana  un peregrinus.

Attorno al 725 d.C. proprio al porto vediamo approdare secondo una tarda tradizione agiografica in pellegrinaggio i monaci inviati da Liutprando da Ticinum attraverso Genova fino a Carales, per comprare il corpo di Agostino conservato nell’ipogeo dell’attuale Carlo Felice (sotto Palazzo Accardo), con l’acqua prodigiosa e il saluto al visitatore che rimangono: in età moderna un’epigrafe invitava il viandante a sostare e venerare il sepolcro di sì gran padre.  Lascerei da parte il solenne pellegrinaggio che si ripeterà nelle prossime settimane fino alle campagne di Sedilo sul Tirso, con S’Ardia , la corsa cerimoniale a cavallo, sicuramente introdotta al confine con il Barbaricum in età bizantina.

Infine vorrei tornare al le stratificazioni del culto di Lussorio a Forum Traiani, con la complessità del martirium e con le sue singolari succursali, come nella grotta di Romana, una bilocazione che gli agiografi spiegano in modo alquanto contraddittorio: il numero dei pellegrini ancora nell’Ottocento era tale che i fedeli che frequentavano questo rozzo luogo di culto a Romana hanno potuto pagare parzialmente la ricostruzione della cattedrale di Bosa. 

Vogliamo  solo sfiorare in questa sede il tema dello specifico isolano, cioè  della permanenza in uno stesso luogo di antichissimi culti nuragici, rifunzionalizzati e reinterpretati in età imperiale in ambito pagano e poi cristiano, almeno fino al IV secolo: ad Alghero è il caso del pozzo sacro della Purissima, dove è conosciuto uno dei tanti casi di sanatio (come testimoniano gli ex voto di mani, piedi, gambe, lucerne), ottenuta attraverso l’invocazione ad un dio, da ultimo alla Madonna da parte dei fedeli ammalati, come testimonia la lucerna cristiana, prima che qualche autorità decidesse di distruggere il santuario. Ma pensiamo ai graffiti dell’ipogeo di San Salvatore di Cabras, con una continuità che da età preistorica, attraverso il mito di Eracle, arriva sino al luogo di culto cristiano. Oppure al tempio del Sardus Pater-Babai ad Antas, luogo di pellegrinaggio antichissimo, ma anche vicino alle miniere dove fu esiliato Callisto e gli altri cristiani romani. Ancora i santuari salutari pagani come quelli dedicati ad Esculapio e alle Ninfe, che hanno una storia nella fase tardo-antica cristiana.  Infine rimane anche il tema dei visitatori che violavano le tombe, per recuperare amuleti o oggetti di culto: tanto che si invocava il destino di Giuda il traditore o l’intervento del demone Abraxas, quasi l’Anticristo.  Nel luogo che ricorda il martire Efisio ad Orune in Barbagia gli ultimi scavi hanno fatto emergere nel IV secolo una lampada vitrea con l’elegante scena di traditio legis, Cristo che offre il rotolo della legge a 6 discepoli.

Concludendo, numerose fonti segnalano nella Sardegna tardo antica forti differenze sociali per la presenza di poveri, orfani, vedove, ciechi, prigionieri, oppressi, stranieri. Quanto di queste espressioni è riferito alla situazione reale della provincia Sardegna e quanto deriva dalle notissime fonti bibliche ed evangeliche, adattate per indicare la povertà e la malattia dei pellegrini che visitavano un santuario ? Ovviamente l’impegno verso gli stranieri è in primo piano per i cristiani, con varianti che però sono significative.  Per gli stranieri il latino usa il termine peregrinus, che è stato inteso in passato con riferimento alle folle che visitavano le tombe dei martiri. Dobbiamo ammettere che il termine è generico ed indica gli stranieri di passaggio ae nche i non credenti, i forestieri, gli immigrati, gli esuli, le persone sradicate dalla propria terra a causa di guerre o carestie:  Zaccaria 7,9 ricorda un precetto del Signore degli eserciti: Praticate la giustizia e la fedeltà; esercitate la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodate la vedova, l’orfano, il pellegrino, il misero e nessuno nel cuore trami il male contro il proprio fratello, con il termine προσήλυτον tradotto in italiano pellegrino; nel Salmo 146, 9 si ricorda che il Signore protegge lo straniero (τὸν ἀλλογενῆ), egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi. Geremia 7,5 promette: se non opprimerete lo straniero (il sopravvenuto, il forestiero: προσήλυτον), l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre.  Il tema torna in Levitico 19,34 e nel Deuteronomio 10, 19 nel VI secolo a.C.: Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Nella versione dei Settanta: καὶ ἀγαπήσετε τὸν προσήλυτον, προσήλυτοι γὰρ ἦτε ἐν γῇ Αἰγύπτῳ.  Diversamente nell’Esodo 22:21 e 23,9: Non opprimere lo straniero (ξένος); voi conoscete lo stato d’animo dello straniero, poiché siete stati stranieri nel paese d’Egitto.

Sorprende positività di queste raccomandazioni, che tornano nei vangeli come in Matteo: Gesù si identifica con lo straniero bisognoso (ξένος, in latino hospes): Ero forestiero e mi avete ospitato… (Matteo 25, 35): in latino: hospes eram, et collegistis me: nudus, et cooperuistis me: infirmus, et visitastis me: in carcere eram, et venistis ad me.Sorprende positività di queste raccomandazioni, che tornano nei vangeli come in Matteo: Gesù si identifica con lo straniero bisognoso (ξένος, in latino hospes): Ero forestiero e mi avete ospitato… (Matteo 25, 35): in latino: hospes eram, et collegistis me: nudus, et cooperuistis me: infirmus, et visitastis me: in carcere eram, et venistis ad me.




Del coraggio e della passione. L’avventurosa storia di Adelasia Cocco, la prima donna medico condotto

Nuoro, 9 maggio 2024. Intervento di Attilio Mastino (Presentazione del volume di Eugenia Tognotti, Del coraggio e della passione. L’avventurosa storia di Adelasia Cocco, la prima donna medico condotto nell’Italia contemporanea (1914-1954), Prefazione di Rosy Bindi, Franco Angeli)

Cari amici,

s’incontrano in questo libro due diverse passioni di Eugenia Tognotti, la storia della medicina e della sanità da un lato e la storia delle donne dall’altro, partendo dalla straordinaria figura dell’elegante colta e coraggiosa Adelasia Cocco, prima donna medico condotto nell’Italia Contemporanea tra il 1914 e il 1945, una storia ambientata  a Nuoro a Seuna ma anche a Lollove sulla strada per Orune, a Galtellì, Sassari, Pisa, Firenze.  

Non è un caso che a parlarne ci troviamo qui a Nuoro nell’auditorium dell’ISRE, l’Istituto che ha fornito molte fotografie inedite e molti documenti raccolti da Eleonora Arba. Del resto questo complesso museale e di ricera è collocato – secondo il progetto di Simon Mossa –  in Via Antonio Mereu, il tenente antifascista capo della resistenza partigiana ucciso dai tedeschi presso Ravenna il 12 ottobre 1944, che abbiamo ricordato pochi giorni fa per il 25 aprile; egli era il fratello del mio maestro elementare Paolo Mereu, anch’egli nuorese.

Allora in questa serata si uniscono tante storie diverse e tante vicende che fanno parte della nostra identità profonda, della quale siamo orgogliosi, partendo dalla reazione salutare agli ostacoli progressivamente posti dal regime fascista, che interpretava il progresso con il ritorno a rapporti sociali irrigiditi, a steccati che si proponevano senza successo di sbarrare la strada alle donne. Oggi con una figura nuova e significativa per tutti, una donna innamorata del marito Giovannino Floris e dei figli, insieme distinta, raffinata, vestita con abiti ricercati e di buon gusto in un ambiente caratterizzato da povertà, disagio sociale, scarsa igiene. Qui in Sardegna anche prima donna a prendere la patente di guida per percorrere in lungo e in largo la sua gigantesca condotta sanitaria piena di problemi e di malati, che la obbligavano a esaminare – lei da sola –  il contenuto delle provette, che la esponevano personalmente e la costringevano a sdoppiarsi anche come igienista e responsabile di laboratorio.  

L’autrice, l’amica Eugenia Tognotti, coordina il Centro per gli Studi Antropologici, Paleopatologi e Storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo nato dieci anni fa nel Dipartimento di Scienze Biomediche, dove è stata professore ordinario di Storia della medicina e Scienze Umane. È saggista, editorialista di La Stampa, Il Secolo XIX, La Nuova Sardegna. Collabora con il gruppo di esperti europei di diverse discipline che fanno capo all’Institut Montaigne, con sede a Parigi. Ha pubblicato celebri volumi su La Malaria in Sardegna (Angeli Ed., Milano 1996); Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia (Roma-Bari 2000); La Spagnola in Italia (1 ed. Milano 2002, 2 ed. 2018 ); L’altra faccia di Venere. La sifilide dalla prima età moderna all’avvento dell’Aids (Milano 2006); La tisi nell’Italia dell’Ottocento (Milano 2008); Vaccinare i bambini tra obbligo e persuasione. 300 anni di controversie (Milano 2021).

Rosy Bindi ha scritto una bella prefazione, interrogandosi sulle ragioni della comparsa proprio in una Barbagia chiusa ed arcaica di un personaggio tanto moderno, Adelasia che nel nome rimanda (soprattutto a Sassari dove era nata) all’ultima giudicessa logudorese; e poi questo suo rapporto con Sebastiano Satta, Antonio Ballero, Grazia Deledda attraverso il padre il cancelliere-poeta Salvatore Cocco Solinas; questa determinazione a conseguire obiettivi alti che contrasta con la presunta fragilità fisica e psicologica delle donne in genere relegate tra i fornelli di casa. Eppure le donne oggi – nei tempi di un sistema sanitario universalistico e solidale – hanno superato i maschi come numero di laureati in medicina, pur rimanendo in minoranza nei ruoli apicali. Il tema dell’impegno contro la malaria, la turbercolosi, la spagnola, il colera, il contrastato rapporto con il regime fascista, in un territorio caratterizzato da pessime condizioni igieniche, ma ormai avviato verso la modernizzazione. 

Tutti temi che saranno trattati questo pomeriggio ora dalla presidente Alessandra Todde e poi dagli specialisti che interverranno con più competenza di me. Voglio solo dire che l’autrice, ricostruendo la vita di Adelasia Cocco in realtà è riuscita a presentare al lettore uno spaccato vivacissimo della storia di Nuoro e della Sardegna, delle conseguenze della nascita della nuova provincia littorio nel 1927, dei ritardi, delle resistenze, delle difficoltà, dei sacrifici di tante donne sarde vittime di pregiudizi, di soprusi e di prevaricazioni, anche quando erano espressione di un’aristocrazia poco incline a compromettersi col fascismo. In queste pagine e nella vita della protagonista ci sono due guerre mondiali, con i disagi per gli sfollati rifugiatisi sul monte Ortobene, fino a cinquant’anni fa, quando quasi centenaria Adelasia è scomparsa a Nuoro, lasciando un rimpianto ormai generale. Questo libro ci aiuta a capire la società nuorese con i suoi originali percorsi, i suoi successi, le sue anticipazioni, le sue avanguardie.




Al Museo Nazionale del Bardo a Tunisi: l’intervento di Attilio Mastino

Intervention d’Attilio Mastino, Président sortant de l’École Archéologique Italienne de Carthage
Tunis, Musée du Bardo, 24 avril 2025

Autorités, chers amis,

Avec cette cérémonie au Musée National du Bardo, un long et heureux chapitre de notre vie se clôt. Il y a dix ans, lorsque nous avons fondé l’École Archéologique Italienne de Carthage, en prolongeant les projets de maîtres comme Sabatino Moscati, Piero Bartoloni, M’hamed Fantar et Ferruccio Barreca, nous nous inscrivions dans la continuité des études africanistes menées dans de nombreuses universités italiennes. Ces travaux avaient notamment donné naissance à ce véritable forum international que représentent les colloques de L’Africa Romana, qui célèbreront à Rome, en 2026, leur 23e édition, marquant aussi leur 40e anniversaire.

Nous avons commencé à suivre les activités de nombreux centres spécialisés dans les échanges culturels concernant l’Afrique du Nord, de la préhistoire à l’époque phénicienne et punique, de la phase romaine aux Vandales, aux Byzantins, et à l’ouverture (futuhat) vers l’Islam,. Nous avons ainsi redécouvert les figures de nombreux chercheurs, européens et arabes, pionniers animés par une sincère curiosité, passion et engagement, qu’il faut replacer dans leur contexte historique, souvent marqué par des guerres sanglantes, sans rien oublier d’un passé quiconserve pour chacun de nous sa propre signification.

Nous connaissons la complexité des enjeux politiques impliquant les relations entre l’Europe et les pays arabes. En fait, nous avons été impliqués dans des missions archéologiques, découvrant l’enthousiasme, les projets et les compétences de nombreux collègues italiens et arabes, en collaboration avec le Ministère des Affaires Culturelles, l’Institut National du Patrimoine, l’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle, et les divers musées, de Carthage au Bardo, de Sousse à Utique. Puis les sites archéologiques disséminés sur le territoire, expression d’une histoire, d’une culture et d’une perspective de collaboration commune qui, nous en sommes certains, restera durable. Rétrospectivement, nous voyons combien de pierres ont été posées, de réponses tentées, de chemins explorés, de murs abattus, d’amitiés cultivées.

Le cadre dans lequel évolueront les nouveaux dirigeants de notre École (Anna Depalmas en tant que Présidente et Sergio Ferdinandi Président honoraire) sera une fois de plus à dimension méditerranéenne : Je voudrais exprimer aux nouveaux dirigeants, au Comité Scientifique, à tous les membres les plus grands succès et les satisfactions encore plus significatives dans les relations avec les collègues tunisiens.

Ces derniers mois, à Rome, nous avons commémoré Sabatino Moscati, à qui nous devons la bibliothèque que nous avons inaugurée sur la colline de Didon à Carthage, en collaboration avec l’Institut National du Patrimoine. Dans son dernier ouvrage, Sabatino Moscati abordait Les fondements de l’histoire méditerranéenne comme une civilisation de la mer, soulignant que nous ressentons tous « l’insuffisance d’une véritable histoire méditerranéenne, précisément au moment où l’apport de nouvelles connaissances révèle la partialité des traités existants. On peut même dire qu’il n’existe pas encore cette histoire méditerranéenne véritable, où les différentes contributions doivent se confronter et s’intégrer. Il est difficile de dire quand une telle histoire pourra être écrite. Et pourtant, l’histoire à dimension méditerranéenne me semble être la grande frontière de l’avenir, le dépassement nécessaire de cloisons anormales, voire trompeuses, pour comprendre le seul dénominateur commun valable et complet du monde antique ». S’il y a un protagoniste, hier comme aujourd’hui, c’est bien la mer. « Cette mer des anciens, qui constitue l’horizon, la condition, la limite de leur aventure ». Il faut donc partir du parcours maritime d’Énée jusqu’à Carthage et de la promesse de Vénus dans l’Énéide de Virgile : « Punica regna vides », titre de l’ouvrage patiemment composé par Sergio Ribichini ces derniers mois. Nous aussi, nous sommes entrés en Afrique sur la pointe des pieds, pleins de curiosité et d’envies, accueillis avec respect par nos collègues tunisiens, impliqués dans mille projets, avec nos étudiants, en accompagnant les initiatives de la Fondation de Sardaigne qui, avec la Région Sarde, nous a soutenus durant toutes ces années. C’est précisément la Région Sarde qui, par la loi régionale du 18 décembre 2024, nous a confié, en tant qu’Institut d’Études et de Programmes pour la Méditerranée, la mission de travailler à la création de la Macro-région européenne de la Méditerranée occidentale, en concertation avec la Corse, les Baléares, la Tunisie, l’Algérie et le Maroc. Plus encore que dans le passé, nous chercherons à nous confronter sur un pied d’égalité, désireux de construire une relation positive, avec un regard amical et une perspective de paix, en surmontant tout héritage colonial.

L’École de Carthage a été un véritable terrain de formation pour nos élèves, avec un flot de revues, de monographies, de dossiers qui continueront à exister ; nous avons assuré la coordination entre groupes de chercheurs et disciplines, sans barrières. Nous avons œuvré de manière concrète à indiquer des perspectives de développement pour la rive sud de la Méditerranée. Nous avons présenté nos idées lors de séminaires, rencontres, conférences,. Nous avons construit, avec la Bibliothèque Moscati, un pont de livres entre Rome et Carthage. Nous savons que bien des choses auraient pu être mieux faites, mais avec les modestes moyens à notre disposition, nous nous mettons de côté aujourd’hui avec un sourire jovial, sûrs d’avoir gagné de nombreux amis et de pouvoir continuer à travailler pour répondre à des attentes désormais considérables.

S’il y a une chose que nous espérons avoir enseignée à nos élèves et que nous voudrions aujourd’hui transmettre à nos quelque deux cent cinquante membres, c’est bien celle du respect mutuel, des relations positives, du caractère concret de l’engagement de chacun, convaincus que seuls de grands groupes de chercheurs pourront véritablement changer l’avenir.

Parmi nos membres du côté tunisien figure un grand maître : M’hamed Hassine Fantar, docteur honoris causa de l’Université de Sassari il y a vingt ans,. Son exemple et sa dimension internationale nous ont inspirés durant toutes ces années, et nous sommes certains qu’ils continueront à nous soutenir. Dans un message qu’il nous a envoyé ces derniers jours, notre Maître formulait le vœu du renforcement de la coopération tuniso-italienne dans tous les domaines, espérant que l’Italie considère que la période punique fait partie de son histoire ancienne. Il ajoutait un point fondamental : l’arabité ifriqiyenne constitue un chapitre de son histoire médiévale.

À une époque marquée par les guerres, les fractures des valeurs et les mots souvent criés au lieu d’être écoutés, ses mots ainsi que ces jours nous rappellent que le changement commence par prendre soin, des autres, du monde, de nous-mêmes. Je vous souhaite des journées sereines, lumineuses et une véritable proximité.

Avec toute mon affection et mes meilleurs vœux.




La scoperta delle specificità del Cristianesimo delle origini in Sardegna: Raimondo Turtas

FEDE E CULTURA: IL MONDO DI RAIMONDO TURTAS

Storia, lingua e identità

Bitti 22 marzo 2025

La scoperta delle specificità del Cristianesimo delle origini in Sardegna: Raimondo Turtas

Cari amici,

m’immagino che Padre Turtas, se fosse ancora con noi, avrebbe seguito con spirito critico i nostri interventi, per quanto mi abbia sempre difeso da lui uno scudo, quello di essere l’allievo  prediletto della mia maestra bittese Giovanna Sotgiu. L’abbiamo ricordata in questa sala quindici anni fa nel convegno promosso da Claudio Farre e Giorgio Rusta – per il quale porto i saluti di Mustapha Khanoussi, ricordando l’accoglienza tumultuosa una mattina presto a Theborsouk (Accabakela, Baluba) Mi ha scritto oggi Giorgio: <<Bongiorno Professó, comente istates? A dolu mannu non bi resesso ca semus in s’Annossata, unu de sos locos de so coro de ziu remunnu, aprontanne sa esta de 25 de Martu>>.

Quando scomparve a Sassari nel 2018 a 87 anni di età lo ricordammo come Maestro rigoroso e severo, amico sincero, esponente di punta del movimento per l’ingresso della lingua sarda nella liturgia, secondo i canoni del Concilio Plenario Sardo e le allora recenti prescrizioni di Papa Francesco. La questione della lingua e della cultura della Sardegna è centrale per inquadrare la sua figura atipica e sarà approfondita nel corso di questa giornata: per Turtas la lingua sarda derivata direttamente dal latino volgare, con questo particolare carattere conservativo nel centro montano, può essere oggi una risorsa irrinunciabile e un simbolo della profondità della storia e della capacità di elaborazione anche poetica e musicale delle comunità locali. Oggi diamo per acquisto un radicamento territoriale di una lingua sarda che mantiene una freschezza e una capacità espressiva innanzi tutto in rapporto con un luogo, con una geografia, con un ambiente naturale e umano; abbiamo raggiunto il senso profondo di una ricchezza che deve essere difesa e coltivata nel rispetto di una storia lunga dove la lingua sarda è anche pensiero, riflessione, strumento per intendere la realtà, per entrare in comunicazione profonda con gli altri, per identificare un’appartenenza. Tra i ricordi più luminosi che conserviamo c’è la partecipazione alla Santa Messa per S’Annossada, nell’antico santuario di Bitti caro alla sua famiglia, dove Turtas pronunciava le sue straordinarie omelie in una lingua che ci emozionava per essere limpidamente legata al latino, in occasione della festa: un momento intenso per tornare commossi alle sue origini lontane. Eravamo arrivati in tanti da Sassari venticinque anni fa per ascoltarlo: quando finalmente cominciò l’omelia – ero anni che attendevo di sentirlo – fu interrotto da una turista sgarbata che diceva che il figlio non capiva una parola. Sappiamo tutti che Turtas non era un uomo che si faceva impressionare, e dunque continuò imperterrito in Sardo promettendo una traduzione in italiano alla fine della messa. Sorridevamo leggendo alla fine degli anni 80 i suoi interventi sull’Ortobene, quando sparava con la mitragliatrice sui vescovi per le lentezze del Concilio Plenario Sardo fin dall’insediamento in Ogliastra delle commissioni antepreparatorie per la Missa in limba, considerata essenziale per riconoscere uno specifico identitario. Terminato vent’anni dopo il lunghissimo Concilio effettivamente aperto solo nel 1992, la mitragliatrice fu imbracciata di nuovo dopo il 2001 per sparare ancora sui vescovi questa volta perché, alla rovescia, non davano attuazione ai decreti sinodali – pure prudentissimi – sul tema del rapporto tra l’universalità della chiesa di Dio all’inizio del terzo millennio e la dimensione locale. Conoscendo bene la proposta elaborata dal parroco di Bulzi don Francesco Tamponi, Turtas riteneva che il cammino verso la piena valorizzazione della lingua sarda presonera tra nuraghes e baddes soliànas (G.M. Dettori) – marginalizzata nel contesto religioso – sia stato segnato da numerosi ostacoli, non solo legati alla tradizione liturgica, ma anche da una visione di inferiorità culturale che ha accompagnato la lingua sarda, percepita come “minore” rispetto ad altre lingue. Del resto lo ha ribadito nei giorni scorsi ancora una volta la CEI. Turtas credeva positivamente all’identità del popolo sardo anche in campo religioso, apprezzava la fase sperimentale in atto per Sa die de Sa Sardigna in tema di Missa in limba; per riprendere categorie care a Bachisio Bandinu ha contribuito a costruire l’autostima dei Sardi e perfino arrvava ad ammettere che alcuni retaggi pagani (la superstizione e la magia, il concetto distorto di giustizia) potessero ancora sopravvivere in Sardegna e richiedessero dunque una chiara strategia locale fondata sulla coscienza critica e sulla riscrittura della storia senza una tesi preconcetta e una finalizzazione obbligata. Io arrivo anche a dire che forse non avrebbe apprezzato molti concetti astratti elaborati dagli antropologi e imprudentemente accolti in una delle ultime encicliche di Papa Francesco (Fratelli tutti 148) a proposito dell’esigenza del meticciato – un’espressione orrenda per il tempo che abitiamo.  Tanti episodi: la visita al nuraghe Loelle, a Su Romanzesu con Giosué Ligios, nella sua casa a Sassari in viale Dante, dove aveva cucinato per noi.

Del resto con molti di noi si era scontrato frontalmente, come in occasione delle celebrazioni per i 450 anni dell’Università volute dai nostri colleghi storici delle istituzioni, partendo da quel 1562 della nascita del collegio gesuitico, data che lui stesso aveva messo in copertina del volume dedicato alla Casa dell’Università presso la chiesa di San Giuseppe (La Casa dell’Università. La politica edilizia della Compagnia di Gesù nei decenni di formazione dell’Ateneo sassarese (1562-1632)): arrivavano Giorgio Napolitano e Gianfranco Fini e chiaramente la polemica interna rischiava di creare un imbarazzo che generosamente non volle suscitare, tacque e poi ribadì comunque che l’avvio dei corsi di Filosofia e Teologia era avvenuto solo nel 1612 e vent’anni dopo la trasformazione del Collegio in Università di diritto regio.. E aveva anche ironizzato sull’uso incrociato delle parole sigillo o di stemma che facevamo per richiamare i martiri Gavino e Gianuario di Turris Libisonis nel sigillo storico disegnato dal pubblicitario Gavino Sanna, che poi rettificammo di comune accordo.

Dunque non trattava temi locali, considerati da tanti inferiori o di nicchia: del resto le tappe della sua formazione sono davvero internazionali, dopo il Seminario di Cuglieri dove conobbe il caro Mons. Antonio F. Spada: Gallarate – presso l’Istituto filosofico Aloysianum tra il ’59 e il ’63, dove ottenne la Licenza in Filosofia, poi Lione – presso la Faculté de théologie, Fourvière – compiendo ricerche sulla storia della teologia medievale. Tra il 1965 e il 1969 studiò a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, nella Facoltà di Storia ecclesiastica, giovandosi del confronto con i più grandi maestri; infine dal 1967 risiedette a Londra presso l’Institute of Historical Research, dove si dedicò alla storia delle missioni protestanti inglesi dalla fine del secolo XVIII conseguendo nel 1972 il titolo di “doctor in Historia ecclesiastica”.Ho un mio ricordo – ho visto non errato – di una lunga missione in Madagascar prima di tornare in Sardegna.

Con questo incredibile retroterra culturale, nello stesso anno arrivava finalmente alla Facoltà di Magistero di Sassari appena costituita, poi di Lettere e Filosofia, inizialmente assistente incaricato di Storia Contemporanea, poi titolare di Storia moderna (1977) e di Storia della chiesa (1984). Sono convinto che proprio l’esperienza interazionale abbia pesato per guardare con occhi nuovi alla Sardegna, alla sua posizione nel Mediterraneo, al valore della cultura e dell’identità locale, alla necessità di una riforma degli studi che scoprisse strade nuove. Ecco la sua partecipazione ai Convegni de L’Africa Romana, come a Nuoro per il IX convegno del 1991 quando presentò una relazione sui rapporti tra Africa e Sardegna nell’epistolario di Gregorio Magno (509-604) oppure le note sul monachesimo in Sardegna fra Fulgenzio di Ruspe e Gregorio Magno sulla Rivista della storia della chiesa in Sardegna del 1987, la nascita delle prime diocesi ben prima di Costantino e i loro territori come per Sulci su Sandalion nel 1995. Il convegno su Eusebio curato da me con Giovanna Sotgiu e Natalino Spaccapelo nel 1996 dove parlò degli informatori sardi di Gregorio Magno. Tutti temi che avrebbero avviato approfondimenti da parte sua e dei suoi allievi, fino ai giorni nostri, con il prezioso spunto sulle provincie ecclesiastiche e i confini territoriali subprovinciali della Sardegna pre-giudicale. Basta sfogliare però il suo capolavoro, il volume del Giubileo (Storia della Chiesa in Sardegna. Dalle Origini al 2000, oltre mille pagine) per capire quanto fosse stata accurata le revisione critica delle fonti, la severità verso i falsari e la valutazione puntuale degli studi precedenti; con l’impegno di aggiornare periodicamente l’opera che costituisce anche per l’età antica un punto di vista essenziale, integrata col volume su Gregorio Magno di Tomasino Pinna del 1989. Non mi azzardo a parlare dei campi di sua diretta competenza, l’età medioevale e moderna. Dopo il pensionamento nel 2003 scrisse ancora su Gregorio Magno: La situazione politica e militare in Sardegna e Corsica secondo il Registrum epistolarum di Gregorio Magno del 2007;e sui Gesuiti: I Gesuiti in Sardegna. 450 anni di storia (1559-2009), del 2010. Alla fine, su incarico del Rettore, era impegnato nell’edizione di un imponente corpus documentario per la Storia dell’Università di Sassari e nella revisione del suo volume principale.

Il lettore coglie l’attenzione inusuale in un manuale di storia della chiesa per il rapporto tra la provincia romana e il Barbaricum, attenzione che era fondata sulle sue origini bittesi e sulla lunga riflessione critica, come quando ad Orune visitammo in gruppo gli scavi di Alessandro Teatini nella località alpestre di Sant’Efis, tra le polemiche con la Soprintendenza. Qui passava la strada direttissima Olbia Carales che toccava secondo l’Itinerario Antoniniano la stazione di Caput Thyrsi, a S di Buddusò: strada rifatta verso il 365 da un personaggio centrale come quel governatore Flavio Massimino che sappiamo da Ammiano Marcellino amico e sodale di un mago sardo che riusciva ad evocare i morti e, grazie ad essi, indovinare il futuro e compiere malefici: il padre del preside Flavio Massimino (che conosciamo attraverso i miliari barbaricini) aveva acquisito nel Barbaricum dacico la capacità di interpretare il volo e il canto degli uccelli, gli augurales alites e i cantus oscinum: proprio grazie a queste competenze ornitomantiche che gli provenivano dalla cultura barbarica di origine (carpico-gotica), suo padre aveva predetto al figlio Maximinus un futuro di grandi successi nella carriera, ma alla fine una morte per mano del boia. Cosa che avvenne realmente nell’età di Graziano, dopo l’uccisione del mago sardo che gli era stato amico. C’è davvero la cultura tradizionale della Sardegna interna, il mondo della magia, la devozione per Diana e Silvano, i demoni del bosco oscuro di Sorabile, l’attuale Fonni; le tabellae defixionum con le maledizioni, alcune in osso come a Sulci o in piombo come ad Olbia che cita i malos homines da ligare oppure ad Orosei dove è ripetuta per tre volte a parola nur(a)go (?), collegata forse con la parola di sostrato nurak, che ricorre sulla Campeda di Molaria o a Posada. Infine a Nulvi dove registriamo la triplice invocazione ad un dominus, il dio degli inferi, rogo: tutti cimeli (cofanetti di piombo scritti con all’interno delle ossa) che ci hanno conservato le maledizioni nei confronti dei nemici, i ladri, i malvagi, gli abigeatari. Sembra di trovare la Sardegna arcaica coi suoi problemi specifici e le sue virtrù descritta anche di recente da Bachisio Bandinu. Un quadro analogo alle defixiones è rappresentato dall’ostracon di Neapolis, dal santuario di Marsia, con l’invito al dio: «O Marsuas di Neapolis, rendi misero (?), muto e sordo Decimo (?) Ostilio Donato, per quanto tu possa rispondere all’uomo». Possiamo riferire ad uno stesso ambito culturale le pratiche oracolari, gli anatemi con l’invocazione a Cagliari del demone Abraxas (l’Anticristo indicato in col numerale greco 365), il culto dei morti, fino ad alcune pratiche magiche documentate nella età paleocristiana, quando operavano dei maléfici, indovini e stregoni capaci di gestire forze oscure e potenti (Fulgenzio, Epistol. XIII; Gregorio Magno, Ep., IX, 205). Coinvolti risultano anche esponenti della chiesa sarda, come il chierico Paolo in maleficiis deprehensus (Gregorio Magno, Ep. IV, 24). Possiamo aggiungere, ben distinto, il piombo di Cornus con l’invocazione greca a Salàmazaza legato a Mitra. Infine le invocazioni per respingere il demonio come quella con l’ordine di tenersi lontano dai corpi dei soldati della caserma del centurione Longino a Carales: +. / Hic abes a do/mino diabule + Oppure l’iscrizione di Tharros che augura la lebbra ai violatori della tomba prima del giorno del giudizio: Si [quis] / (h)anc sepultu[ram] ebertere bolu[erit] (h)abeat parte(m) c[um] Iuda et lebra[m] G(iezi). In un quadro sardo vorremmo collocare anche il richiamo minaccioso al giorno del giudizio di Porto Torres: —— / [— coniuro oppure adiuro] / per diem trem[endu]m iudicii [quo ?] / anima ventura [ut] nullus audea[t in] / sepultura mea [mole]stare ossa m[ea].

Se torniamo per un momento ad Orune, proprio gli scavi di Sant’Efis hanno squarciato un velo sul secolo successivo e restituito la moneta di Valentiniano III, con i resti della strada e la splendida lampada vitrea del Museo Nazionale Sanna con la scena di traditio legis: Cristo consegna la legge a 6 dei 12 apostoli inviati ad evangelizzare il mondo, giungendo dunque fino al Barbaricum della Sardinia. Oggetto che è quanto di più elegante e curato si possa immaginare per una chiesa sarda ancora alle origini, nel terribile momento del passaggio dal paganesimo al cristianesimo, quando secondo l’Agostino dell’omelia di Thignica recentemente riscoperta i fedeli erano ancora schiavi delle passioni pagane: Vos ante paucos annos pagani eratis, modo christiani estis, parentes vestri daemoniis serviebant. Così in Sardegna c’erano i provinciales cristiani che non servivano più i demoni e c’erano i barbari dell’interno, alcuni battezzati come l’Ospitone di età bizantina, anch’essi ormai aperti alla nuova religione.

Nel volume del Giubileo ci sono interamente queste premesse, se si pensa che Turtas è riuscito forse tra i primi a dare una sintesi della situazione sociale della Sardegna durante le persecuzioni utilizzando le nuove scoperte nell’atrio metropoli di San Gavino di Porto Torres: appare ora luminosamente la conoscenza delle Sacre scritture, riprese nelle nuove epigrafi, con questa rivalutazione della figura femminile come quella domina Flavia Cyriace che possedeva un patrimonio che volle lasciare ai poveri e non ai suoi eredi e con un ribaltamento rispetto all’Atilia Pomptilla pagana della Grotta delle vipere di Cagliari, perché qui non è la donna che offre la sua vita per la salvezza del marito, ma anzi è il marito Demeter che si augurava invecchiando di poter lasciare il suo spirito nelle braccia dell’amata (nam et ego optabam in manibus / tuis anans spiritum dare). Essa è casta, solerte guardiana, delle più belle doti ornata, ai poveri lascia ora ogni suo bene e non ai suoi eredi, in un periodo che è sicuramente il IV secolo, visto che successive sono le due iscrizioni datate con anno consolare al 395 (Musa) e al 415 (puer Victorinus fidelis).

Questa attenzione per i poveri in una provincia sottoviluppata come la Sardegna, dove la povertà doveva essere particolarmente diffusa, ci rimanda alla situazione sociale delle città in una terra caratterizzata da forti differenze sociali che tornano nell’epitafio scoperto proprio 25 anni fa di Matera: dopo la dedica iniziale pagana (Agli dei Mani), si esalta la fede cristiana di Matera, morta settantenne nel IV secolo e forse coinvolta nalla persecuzione dioclezianea. Lei che spesso il popolo considerò soccorritrice degli stranieri. Con il fulgido esempio della sua vita terrena dimostrò anche coraggiosamente alla sua stessa gente che tutti considerava come figli. Non ebbe paura della morte violenta ma superò ogni prova (confidando) in Cristo; a gloria di lei la luce risplenderà con un’aureola perenne; lei che Cristo stesso aveva destinato come genitrice delle madri e degli indigenti. Per ciò il consorte racconta tali cose della dolce compagna. Dove notevole è la distinzione tra il populus dei credenti e il vulgus dei bisognosi.

Sono significativi i riferimenti all’attività caritativa della defunta, indirizzata a favore dei peregrini, delle matres e forse degli orfani, degli inopes, in generale erga omnes: l’attributo auxilium peregrinorum trova un significativo confronto ancora in Sardegna nell’epitafio di Secundus a Olbia, pater orfanorum, inopum refugium, peregrinorum fautor, espressioni che certo alludono alle virtù del perfetto cristiano, ma che hanno fatto pensare ad uno xenodochium, ad un ospizio per stranieri, ad una struttura permanente installata in un’epoca così antica e gestita da Secundus, come sembrano ricordare la moglie Paulina ed il figlio Ianuarius. Il termine pater orfanorum è evidentemente ripreso dal salmo 68: 5-6, perché Dio è Padre degli orfani e difensore delle vedove nella sua santa dimora. L’espressione auxilium peregrinorum si confronta bene – sia pure molti anni dopo – von gli attributi di un Karissimus, amicorum omnium pr(a)estator bonus, pauperum mandatis serviens, sepolto a Tharros nel IV secolo.

Infineprezioso è il riferimento alle opere benefiche tanti esponenti dell’aristocrazia locale a vantaggio degli inopes o dei pauperes, tema che sembra richiamare un fervido impegno di carità cristiana, in particolare verso i mendicanti, in una società caratterizzata da profonde divisioni sociali. In tutti questi casi ci sarebbero elementi per pensare alla parallela esistenza di personaggi inseriti nella classe sociale dei ricchi possessores; gli epitafi di Tharros e di Olbia sembrano conservare un «emblematico elemento di continuità: l’immagine del ricco proprietario, uomo di grande integrità morale, padre degli orfani, rifugio dei poveri, aiuto dei pellegrini». Anche il caso di F(lavia) Cyriace a Turris Libisonis con le espressioni rem suam lpauperibus] linquit nec quidem ipsa po[steris suisl (?) richiama all’ opposizione «povertà in fatto (di) ricchezze vs ricchezza in fatto di costumi», che ha profonde radici nella cultura pagana. Del resto dall’epistolario di Gregorio Magno sappiamo che a Turris in età bizantina il vescovo Mariniano, arrivando fino all’ esarca d’Africa Gennadio, avrebbe dovuto difendere contro il dux Sardiniae Theodorus i poveri della sua Chiesa, in tutti i modi vessati e afflitti da svariate usure: civitatis suae pauperes omnino vexari et commodalibus affligi dispendiis. Matera fu esponente di spicco della comunità turritana, una ricca proprietaria, un’aristocratica sicuramente in grado di far fronte con i propri mezzi ad un’azione caritativa a favore di un ambiente sociale degradato, che avrà avuto anche precisi costi economici.

Tutti temi che tornano con immediata semplicità nel volume di Turtas, che qualche anno dopo si era mostrato possibilista sulla possibilità che l’iscrizione di Adeodata conservi traccia della persecuziome dioclezianea, se la vergine immacolata che porta lo stesso nome del figlio di Agostino è stata a sanctis marturibus suscepta, nel senso che è stata sepolta a Monte Agellu presso la tomba di Gavino, Proto e Gianuario; e aveva anche negato che l’antichissima espressione turritana potesse essere collegata con la tarda e attuale liturgia esequiale In paradisum deducant te angeli, in tuo adventu suscipiant te martyres et perducant te in civitatem Sancatam Jerusalem.

Infine il tema della risurrezione come a Cagliari (non ad Olmedo) per il diacono Silvio che aspetta nella tomba che, grazie alla potenza di Cristo, la sua carne possa vivere di nuovo ed attende di vedere le gioie dell’ultima luce, mentre Cristo finalmente potrà regnare in eterno (Hic situs Silbius ecle/siae sanctae minister / expectat Christi ope / rursus sua vivere carne / et gaudia lucis nobae / ipso dominante videre. / Vixit ann(is) XXXIII d(epositus) in pace nonis / XP April(is) XP).

Se portiamo avanti il ragionamento di Padre Turtas, le categorie difese dai cristiani sardi che guardano con preoccupazione ai problemi della società di una provincia povera e sottosviluppata con forti differenze sociali sono nell’ordine: i poveri, gli orfani, le vedove, i ciechi, i prigionieri, gli oppressi, gli stranieri. Quanto di queste espressioni è riferito alla situazione reale della provincia Sardegna e quanto deriva dalle notissime fonti bibliche ed evangeliche ?

I poveri: Apri la bocca e giudica con equità e rendi giustizia all’infelice e al povero (Proverbi, 31,9).

Perché soccorrevo il povero che chiedeva aiuto, l’orfano che ne era privo. La benedizione del morente scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia (Giobbe, 20, 12-13).

Dio salva il misero dalla spada e il povero dalla mano del potente (Giobbe 5:15).

Dio non porta rispetto all’apparenza dei grandi, non considera il ricco più del povero, poiché sono tutti opera delle sue mani (Giobbe 34, 17).

E Cristo nel discorso delle beatitudini: Gesù, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: “Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete (Luca 6, 20-21).

Dio ha scelto quelli che sono poveri secondo il mondo perché sono ricchi in fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano (Giacomo 2:5).

I ciechi e i prigionieri Lo spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi (Luca 4:18).

Gli orfani: Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, la mia collera si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani (Esodo 22, 21:23).

Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova (Isaia 1,17).

Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo (Giacomo 1:27).

Onora le vedove,quelle che sono veramente vedove. 1, Timoteo 5:3

Gli stranieri: il latino usa il termine peregrinus, che è stato inteso in passato con riferimento alle folle che visitavano le tombe dei martiri. In realtà il termine è generico ed indica gli stranieri di passaggio anche i non credenti, i forestieri, gli immigrati, gli esuli, le persone sradicate dalla propria terra a causa di guerre o carestie:

Ecco ciò che dice il Signore degli eserciti: Praticate la giustizia e la fedeltà; esercitate la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodate la vedova, l’orfano, il pellegrino, il misero e nessuno nel cuore trami il male contro il proprio fratello (Zaccaria 7, 9-10).

Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova,ma sconvolge le vie degli empi (Salmo 146, 9).

Poiché, se veramente emenderete la vostra condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste sentenze fra un uomo e il suo avversario; se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia altri dei, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre (Geremia 7, 5-7).

Del resto Gesù si identifica con lo straniero bisognoso: Ero forestiero e mi avete ospitato… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto ame (Matteo 25)

Infine, permettetemi di ricordare come le recentissime scoperte avvenute in molte località della Sardegna dopo la scomparsa di Padre Turtas hanno confermato molte sue intuizioni: una tra tutte la dignità e la antichità della chiesa sarda, come risulta oltre che dalla posizione del vescovo di Carales al concilio di Arles sotto Costantino, dall’insegnamento di Eusebio poi primo vescovo di Vercelli e del Piemonte pagano e di Lucifero di Carales, dal ruolo dei vescovi arrivati con Fulgenzio di Ruspe in età vandalica, dall’arrivo delle reliquie di Sant’Agostino di Ippona; ancora dalla conoscenza delle Scritture come abbiamo dimostrato e nel testo caralitano del Miserere e di altre preghiere; il tema del giorno del giudizio, della resurrezione, della luce nuova di Cristo; infine dalla dignità della donna nella chiesa sarda, come per Flavia Cyriace, per le Famulae Dei non solo Imbenia, per le monache di San Lorenzo a Carales con l’Abatissa Redempta, del monastero di San Gavino e Lussorio, di S. Erma, di San Vito, quest’ultimo istituito da una Vitula che potrebbe essere identificata con una omonima nobile maura, ricordata dal poeta Draconzio per il matrimonio con Iohannes, con l’auspicio che l’erba sardonia del marito possa unirsi amorevolmente con le roselline di Sitifis. Oggi ad esempio dal testo scritto sul pavimento della villa dei mosaici marini di Porto Torres alla foce del Riu Mannu con la frase agostiniana (IX, 10,26) Deogratias qui praestitiit vitam, che apre uno scenario di incredibile complessità allontanandoci dal Monte Agellu.Del resto gli scavi di Orune avevano già messo in discussione un luogo comune, quello della scarsa evangelizzazione delle campagne sarde, retoricamente evocata da Gregorio Magno.

Credo che oggi dobbiamo dire che con Turtas abbiamo perso un Maestro, uno studioso grande, capace di leggere la realtà della Chiesa in Sardegna con occhio critico ma anche con amore e dedizione, senza rinunciare alla ricchezza della ritualità tradizionale e dell’associazionismo cattolico in tutta l’isola. Per me personalmente è stato punto di riferimento costante, che non lesinava critiche severe ma anche era capace di stimoli e suggerimenti, con amicizia e affetto. Attilio Mastino




Introduzione, “Epigraphica”, LXXXVI, 2024, L’ERMA di Bretschneider, pp. 9-11

Introduzione

È per me un piacere e un onore presentare questo LXXXVI volume di “Epigraphica, periodico internazionale di Epigrafia” fondato da Aristide Calderini, con il sottotitolo ini­ziale di “Rivista italiana di Epigrafia”, dopo il congresso di Amsterdam (il primo Congres­so epigrafico internazionale) in quel terribile 1938, editore Ceschina di Milano. Questo volume, datato al giugno 2024 viene pubblicato per la prima volta dal prestigioso Edito­re L’ERMA di Bretschneider di Roma, una nostra vecchia e apprezzata conoscenza. A par­tire dalla prima registrazione del 15 marzo 1974 nr. 586, la proprietà era stata assunta dai Fratelli Lega in data 27 ottobre 1999, due anni dopo Mirta Tanesini era diventata rappre­sentante legale. Era stata Angela Donati a chiamarmi a dirigere con lei dal 2010 la rivista assieme a Maria Bollini; otto anni dopo sono subentrato come direttore, all’indomani del­la sua scomparsa avvenuta il 13 ottobre 2018, anche per volontà dell’Editore F.lli Lega e della Famiglia: e ciò dal numero LXXXI, con registrazione al Tribunale di Ravenna del I luglio 2019, con l’aiuto di Maria Bollini. Quando il proprietario Fratelli Lega ha ceduto la proprietà della testata con generosità e amicizia, si è arrivati a chiedere la cancellazio­ne dal Registro Stampa del Tribunale di Ravenna in data 22 marzo 2022; dal giorno suc­cessivo con provvedimento nr. 797/2022 (Registro Stampa nr. 1/2022) la rivista è stata registrata presso il Tribunale di Sassari; l’editore Carocci ha curato la pubblicazione dei numeri LXXXIV e LXXXV, 2022-23 e di alcuni numeri della collana:

49. C. Cenati, Miles in urbe. Identità e autorappresentazione nelle iscrizioni dei soldati di origine danubiana e balcanica a Roma, Carocci 2022.

50. E. Ortiz de Urbina, Agrupaciones cívicas, intracívicas y no cívicas en Hispania citerior altomperiale, Carocci Editore, Roma 2024.

51. F. Cenerini, E. Filippini, M. Mongardi, D. Rigato (cur.), L’iscrizione come strumento di integrazione culturale nella società romana, Bertinoro 28-30 ottobre 2021, Colloqui Borghesi, studi in ricordo di Angela Donati, Carocci Editore, Roma 2023.

52. S. Aounallah, F. Hurlet, P. Ruggeri (cur.), L’Africa antica dall’età repubblicana ai Giulio-Claudii (L’Africa Romana XXII), Carocci Editore, Roma 2024.

Cambia ora il proprietario, il rappresentante legale, l’Editore, la Tipografia, ma “Epi­graphica” mantiene pienamente tutte le caratteristiche di internazionalità, di scientificità, di un approccio volto allo studio delle iscrizioni latine e greche e alla problematica dell’epigrafia antica: il nostro comune proposito è quello di procedere ad un ampio rinnova­mento e ad un rilancio della Rivista e della Collana “Epigrafia e Antichità”, ritrovando un patto di collaborazione tra le Università di Bologna, di Sassari, di tante altre Scuole e di tante altre realtà del mondo che viviamo, con un profondo rinnovamento del Comitato scientifico e del Comitato di redazione, anche per rispondere al nuovo “Regolamento sui criteri di classificazione delle Riviste ai fini dell’Abilitazione Scientifica Nazionale,” pur esaltando ulteriormente la dimensione internazionale della rivista. Antonio M. Corda e Paola Ruggeri sono i nuovi vice direttori.

Voglio rinnovare il più vivo apprezzamento per l’azione svolta per cinquanta anni, dai nostri Editori Fratelli Lega (in particolare negli ultimi tempi da Vittorio Lega) e per due anni da Carocci, per assicurare la regolare uscita di Epigraphica, con questi volumi pieni di novità e di sorprese; gli ultimi numeri della rivista sono sotto gli occhi di tutti, con un prestigio scientifico e un orizzonte che desideriamo ancora allargare, facendo tutti gli sforzi possibili per mantenere standard qualitativi alti, soprattutto per proseguire un ser­vizio a favore degli specialisti più determinati ad indagare il mondo antico con un ap­proccio originale e non convenzionale, con la capacità di entrare in sintonia con realtà tanto complesse, col desiderio di applicare la critica testuale a documenti talora fram­mentari, ma che hanno il vantaggio di collegarci al passato senza intermediazioni, con tante prospettive inattese, formulando mille domande alle quali non sempre è possibile dare delle risposte certe. Il nuovo Editore L’ERMA di Bretschneider, al quale siamo dav­vero grati, preannuncia una profonda riorganizzazione della Rivista e della Collana d’in­tesa con la proprietà a iniziare da questo 86° volume della rivista e dal 53° volume della collana “Epigrafia e antichità”. Negli ultimi mesi sono stati resi accessibili gratuitamente al pubblico dei lettori in PDF sul sito https://www.epigraphica.it/volumi/ tutti i numeri della rivista “Epigraphica” fino al numero LXXXIII, 2021: un grande sforzo organizzati­vo che è stato possibile grazie alla redazione e agli Editori.

Lasciatemi però ricordare ancora una volta il debito che abbiamo contratto nei con­fronti di Giancarlo Susini e Angela Donati, la loro passione, la loro generosità, la loro di­sponibilità senza uguali, il magistero del loro insegnamento, la loro amicizia, che in qual­che modo continua con le famiglie e gli allievi. Pensiamo che entrambi avrebbero gioito con noi per l’uscita di questo 86° volume di Epigraphica che arriva ad oltre 500 pagine con gli interventi di oltre 50 autori provenienti da tanti paesi diversi. In 40 articoli, 7 schede e notizie, alcune recensioni, le consuete Nouvelles Aiegl firmate dalla Presidente Silvia Orlandi e dalla Segretaria Generale Camilla Campedelli.

Vorremmo dire grazie agli autori, ai membri del Comitato scientifico e del Comitato di redazione, ai tanti revisori anonimi; insieme esprimere l’ammirazione per le molte im­prese scientifiche di Università, Soprintendenze, Centri di ricerca, Deputazioni di storia patria, istituzioni che hanno preceduto e reso possibili questi interventi in Italia ma in tutto il Mediterraneo, fino all’Africa, alla Turchia, al Portogallo, dall’età repubblicana fino al tardo impero: la storia degli studi a partire dal ’500, scavi, indagini in depositi, archivi, musei come il Museo Lapidario Maffeiano o il Museo di Alessandria o il Museo di Efeso, collezioni private, biblioteche, attentissime verifiche filologiche ed epigrafiche, fondate su un metodo che condividiamo tutti, quello dell’autopsia dei documenti spesso disper­si, della ricerca dei testi collocati in collezioni o come le iscrizioni rupestri incatenate ad un territorio, ad un paesaggio e ad un ambiente; con l’utilizzo delle nuove tecnologie, an­che per lo studio dell’instrumentum; riaffermiamo la responsabilità dei singoli studiosi nello stabilire il testo, nel colmare le lacune, nel proporre confronti, con una maggiore o minore capacità di collegare spunti, idee, prospettive di ricerca. Sentiamo tutti la neces­sità di avere più rispetto per la complessità della storia senza rinunciare a stabilire connes­sioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizzazione del passato, per comprendere e spiegare: per usare le parole di Marco Tangheroni, fondamentale è il concetto che l’in­quietudine sul proprio mestiere debba accompagnare sempre gli storici e gli epigrafisti che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi. Con un metodo che ha ormai caratteristiche di piena scientificità e che rende sempre più l’epigrafia una disci­plina incardinata anche nell’ambito delle scienze sperimentali, per quanto radicata nelle scienze umanistiche. Oggi, raccogliendo gli stati d’animo di tutti, desidero riaffermare che siamo onorati per l’impegno degli autori, per la novità dei risultati con l’imponente materiale inedito che viene presentato in questa sede, per l’attenzione al tema della geo­grafia nella storia, per il rapporto tra epigrafia, topografia, archeologia, tra mondo greco e mondo romano. Sentiamo che le nuove generazioni di studiosi fanno entrare aria fresa ed irrompono con le loro mille curiosità e mille passioni: è un motivo di gioia e di spe­ranza per un futuro fondato sul rispetto per le tradizioni culturali e che metta al centro una collaborazione internazionale consapevole che tutti dobbiamo costruire, come direb­be Giorgio La Pira, la “Pace inevitabile”.

Roma-Bologna-Sassari, Pasqua 2024.

Attilio Mastino

Direttore di “Epigraphica”




Antonio Simon Mossa, l’architetto delle libertà, secondo Luciano Deriu

Il poeta delle Nazionalità, in L. Deriu, Antonio Simon Mossa, L’architetto delle Libertà, Carlo Delfino editore, Sassari 2024, pp. 13-22.

Questa biografia di Antonio Simon Mossa (Padova 1916 – Sassari 1971), scritta da Luciano Deriu sarà una meravigliosa sorpresa per i lettori: rappresenta un passo in avanti decisivo nella conoscenza di una delle figure centrali della Sardegna del secondo dopoguerra, indaga su tanti versanti l’azione di un democratico visionario, che è stato capace di guardare la nostra terra con uno sguardo non convenzionale, aperto, originale, creativo: ora emerge la coerenza di una vita intera spesa con obiettivi alti e positivi, con l’utilizzo dei linguaggi più diversi, perfino della musica. Finalmente ci accorgiamo quante siano le cose che gli dobbiamo, quanto la Sardegna di oggi sia stata cambiata in profondità, più di quanto pensassimo. Del resto lo avevamo iniziato a dimostrare con gli studi, le mostre e i volumi voluti dall’Isre, dalla Società Umanitaria Cineteca Sarda (con l’Archivio Simon Mossa) e dagli Architetti di Mastros negli ultimi anni, col sostegno della famiglia. Ma sempre con un angolo visuale parziale, che ora diventa globale e davvero lineare e coerente.

La scrittura serrata e la narrativa veloce contribuiscono a creare una tensione, a suscitare un interesse, a preannunciare mille piccole scoperte, innanzi tutto sugli esordi e la passione per il cinema, in parallelo con la grande storia e l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940): la collaborazione a Firenze con il più giovane Fiorenzo Serra (Porto Torres 1921-Sassari 2005) per il documentario “L’Armata grigia” o per “La barca sul fiume”, per il volume di teoria del cinema Praxis und kino prodigiosamente riemerso negli ultimi anni dagli archivi di famiglia e ora ripubblicato da Rubettino a cura di Andrea Mariani. Infine la sceneggiatura per il film vincitore dei Littoriali nazionali di Bologna del 1940, “Vento di terra”, una storia di pesca, di tradimenti e d’amore, ambienta in un porto di una città che assomiglia molto ad Alghero, con le sue fortificazioni spagnole, con le sue tradizioni marinare, col suo corallo, con il suo scoglio all’ingresso della rada; il documentario di guerra in Corsica. Infine l’aiuto alla regia del film “Bengasi”, girato a Roma da Augusto Genina nel 1942, proprio al termine dell’esperienza coloniale italiana in Libia; o del film “La donna del peccato” di Harry Hasso. Un osservatore superficiale potrebbe collocare questa ricca esperienza nel solco della morente cinematografia fascista, ma le cose sono ben più complesse come testimonia la partenza per Holliwood di Viveca Lindfors, moglie del regista tedesco Hasso e la nascita della società di produzione Sardinia Pictures che anche nel titolo avrebbe voluto segnare la svolta verso una cultura nuova, quella statunitense, che ben presto però rischiava di diventare quasi una forma inaccettabile e deteriore di colonialismo imperiale: del resto non ci sarà un seguito, perché questo capitolo cinematografico fu ben presto accantonato; fu la laurea in architettura conseguita a Firenze nel 1941 con una tesi su “Un progetto di villaggio rurale nella zona di Ottava in Sardegna” (sempre pensando a Fertilia e alla storia della pertica della colonia di Cesare Turris Libisonis) ad allontanare definitivamente Simon Mossa dalle sue passioni giovanili e ad aprirgli un mondo nuovo, al fianco – lo scopriamo con questo libro – di un personaggio carismatico come Vico Mossa, che ora ritroviamo a tutto tondo, soprattutto come indagatore della ruralità architettonica della Sardegna, il tema cardine per capire Simon Mossa come Architetto.

Ad ereditare parte di quelle scelte iniziali per il cinema fu l’amico Fiorenzo Serra, che ci ha commosso con il suo capolavoro recentemente riscoperto, il lungometraggio L’ultimo pugno di terra (vincitore ancora a Firenze del Festival dei popoli nel 1966), col tentativo di raccontare la Sardegna con la sua transumanza degli uomini, in parallelo con la transumanza delle pecore: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta. La cinepresa di Fiorenzo coglie il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra. Il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta, eco evidente del volume di Antonio Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico.

Simon Mossa sognava una Sardegna diversa, esito di eredità lontane come avevano insegnato Emilio Lussu e Camillo Bellieni, ma anche fatta di eleganza, di gusto, di linguaggi plurali, di incontri: quando si ricompone la famiglia Simon ad Alghero inizia una storia nuova che oggi ci consente di dire che egli è stato anche un politico, un poeta, uno scrittore, un ideologo e nei suoi ultimi decenni esponente dell’indipendentismo sardo, all’interno di una visione internazionale, pluralista, aperta a nuovi orizzonti mediterranei, consapevole del valore della diversità di una cultura – quella sarda – che rappresenta una risorsa per il futuro. La collaborazione con “La riscossa”, con “Il solco”, con “La gazzetta sassarese”, con “La Nuova Sardegna”, con Radio Sardegna libera al fianco di Amerigo Gomez, segna l’ingresso su un versante, quello sardista, che però poggia su una scelta ben più ampia: quella a favore di tutti i popoli, in particolare delle minoranze perseguitate del Mediterraneo, da Andorra alla Barcellona antifranchista, dai Baschi spagnoli o francesi ai Bretoni, agli Irlandesi, ai Gallesi, agli Scozzesi, ai Ladini, ai Corsi, ai Sardi, ai Catalani. Sono i popoli giovani, destinati a federarsi e a scrivere il futuro comune, che si ribellano al genocidio culturale, alla distruzione etnica; da qui i contatti con l’ETA, l’Euskadi, il Partito Nazionalista Basco.

Già per Giovanni Lilliu Simon Mossa arrivò ad essere il poeta della nazionalità, uno dei padri dell’autonomia, in un quadro multiculturale, anche se oggi colpisce la totale assenza di contati con la riva sud del Mediterraneo, dove si annidava – secondo Lilliu – quel “Terzo Mondo” che si era lasciato incantare dal <<verbalismo rivoluzionario di Gheddafi in Libia>>, un modo per nascondere <<il volto feudale-petrolifero del paese>>. Ma questa assenza di attenzione per il Magreb arabo è forse solo una bizzarria: il mio Maestro era orgoglioso delle sue origini contadine e leggeva la sua esperienza in continuità ideale con la storia della sua famiglia originaria di Barumini, con generazioni e generazioni di antenati che lo riportavano sempre più indietro, fino agli eroici costruttori del nuraghe: continuità che era innanzi tutto un persistente legame affettivo con gli spazi, con i monumenti, con il territorio, con l’ambiente fisico che contribuiva a costruire un’identità. Il tema dell’identità del resto era centrale, un’identità non fossile, ma aperta al nuovo, non digiuna del moderno, culturalmente e storicamente dinamica. Un tema oggi discusso e frainteso con pedanteria, ma che continua ad avere una sua prepotente vitalità per interpretare il mondo che viviamo.

Simon Mossa politicamente era strettamente legato a quel Pietrino Mastino che con Emilio Lussu e Camillo Bellieni fu il fondatore del Partito Sardo (eppure avrebbe contribuito alla sua espulsione dal partito nel 1967, a Cagliari, al momento della vittoria dell’eresia simoniana e in qualche modo della corrente indipendentista): egli era interessato a riscoprire le origini rivoluzionarie del PSd’Az, il suo carattere di massa, in una prospettiva di stato repubblicano italiano federalista, tendenzialmente proteso verso l’autonomia dell’Isola. Infine la denuncia – davvero incredibilmente precoce – contro l’<<imbroglio della chimica>> a Ottana e nella altre <<case del petrolio>>, nei poli chimici osannati da tutte le altre forze politiche asservite all’industria pesante, in particolare sul Tirso.

Simon Mossa fin dal 1961 era stato premiato al Premio Città di Ozieri e poi era diventato anche in questo campo un protagonista, aveva fatto parte della Giuria del Premio, anticipando la scelta – davvero significativa – che ha determinato la nuova dimensione per il Premio, quella di considerare il catalano (con il turritano, il gallurese, il tabarchino) come una delle lingue della Sardegna. Ma innanzi tutto la lingua sarda, che come aveva scritto Antonio Gramsci a Teresina nel 1927 è una risorsa in più, uno strumento per capire il mondo: << Spero che [Franco] lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispia­ceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse libe­ramente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambi­ni. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è pos­sibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche fra­si e parole delle vostre conversazioni con lui, pura­mente infantile; egli non avrà contatto con l’ambien­te generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti racco­mando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontanea­mente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro […]>>.

Dunque il sardismo di Simon Mossa, l’amicizia con Michele Columbu, con Giovanni Battista Columbu (ricordo nel 1965 a Bosa il Primo convegno sulla lingua e la cultura della Sardegna), Giovanni Battista Melis (per le elezioni a Porto Torres), Mario Melis, la nascita del Movimento Indipendentista Rivoluzionario Sardo, la visione collettivista e il socialismo progressista nei commenti di Fidel, con un richiamo sorprendente alle politiche antiamericane di Fidel Castro. La consapevolezza del ritardo storico della Sardegna, della sopravvivenza del feudalesimo nelle campagne. L’attenzione delle Questure e dei Servizi Segreti, fino all’incontro con Giangiacomo Feltrinelli sull’Ortobene, per un accordo coi Gruppi d’Azione Partigiana, senza però concessioni alla violenza. Eppure la totale chiusura sulla prospettiva della nascita del Parco Nazionale del Gennargentu, all’indomani di Pratobello, considerata <<una provocazione colonialista>>, denunciata sui murales di Orgosolo, in particolare da Francesco Del Casino.

Giovanni Lilliu ammetteva di aver ricevuto molte suggestioni dall’architetto algherese, come testimoniano gli articoli su La Nuova Sardegna pubblicati nel 1973 sotto il titolo “Su Antonio Simon Mossa, Un ricordo lontano”: due anni dopo la morte dell’architetto, Lilliu presentava un solo ricordo personale, un incontro fugace in Sassari, come “per un incantesimo”, <<nella umbertina piazza d’Italia, allora “salotto” della città “contadina”>>. I due discussero di archeologia nuragica e di colonialismo romano; Simon Mossa sembrò all’archeologo davvero distante dalle passioni fredde e disincantate <<della vecchiaia dei nostri partiti politici>>. Dunque un eroe romantico di un partito giovane; nella concezione che Simon Mossa aveva del suo Partito Sardo c’era una carica di utopia commovente e trascinatrice, una tensione intellettuale di apostolo, che ne faceva una sorta di “nuovo profeta”, verso la nuova “terra promessa” per il Popolo Sardo. Dunque la teoria di un Partito Sardo volontaristico, disinteressato, intransigente. Negli ultimi scritti su Sardegna libera del 1971 Simon Mossa precisa meglio l’intuizione lussiana del carattere universale dell’autonomismo sardista, coinvolgendo idealmente il movimento di riscatto dei Sardi in quello mondiale della liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo. In questo modo la rivoluzione sarda per l’indipendenza e l’autodeterminazione avrebbe significato non tanto l’emancipazione economica e sociale di una classe (il proletariato): l’obiettivo era quello di rendere l’intero popolo sardo – pastori e contadini soprattutto – il lievito e lo strumento, oltre che il fine della lotta contro l’oppressione statale. Del resto la tesi di Simon Mossa legava la comunità etnica sarda alle comunità etniche del c.d. terzo mondo europeo. Lilliu comprendeva la collera di Simon Mossa, la sua disperata risoluzione che non restasse altra via che quella della “rivoluzione” e dell’insurrezione armata. Opzione quest’ultima che riteneva pericolosa in un momento come quello che l’Italia stava vivendo negli anni 70, mentre forze politiche di destra <<amoreggiavano per restituire alla Nazione governi forti di blocco d’ordine>>. Da qui l’esigenza di un’azione della Regione verso una modifica della Costituzione per via democratica, con più potere e sovranità alle periferie. In realtà prima di morire Simon Mossa voleva denunciare la morte del popolo sardo, della sua cultura, della sua lingua, del suo patrimonio morale, delle sue stesse caratteristiche fisiche. In questo contrasto finale fondato sulla sincerità, Lilliu proponeva un manifesto di tutti i Sardi per un’alleanza che li portasse ad operare insieme per il rifiorimento della loro piccola nazione.

Simon Mossa coltivava il mito di una Sardegna un tempo bellissima, ricca di prodotti, abitata dalle ninfe e dagli dei del mare come a Capo Caccia e nella Grotta di Nettuno, il finis terrae dell’Occidente sardo: qui l’architetto progettò e realizzò l’Escala del Cabirol coi suoi 654 gradini, proprio in faccia alla grande Barcellona. La compagnia di Simon Mossa era quanto meno composita: la famiglia, la sposa Rina Altea, i figli Italo, Pepita, Annamaria, Juliana, Pietro; la politica, con i difficili rapporti con il Partito Sardo d’Azione del gruppo “Sardegna libera”, il giovane Giampiero Marras; lo studio con gli ingegneri Cordella e Grixoni e Pinuccio Bertolu, col ceramista Giuseppe Silecchia, con Filippo Figari, ripensando L’Alguer, “la città a brandelli” da ricucire prima che esplodesse il turismo di massa, salvando la lingua e la cultura catalana: temi approfonditi con Rafael Catardi, Rafael Sari, Antonella e Mario Salvietti del Centre d’Estudis Algueresos (analogo all’Institut d’Estudis Catalans), un luogo di incontro anche per tanti perseguitati dal Franchismo, fuoriusciti che si vedevano abitualmente a Prada sui Pirenei francesi.

Il viaggio della nave Virginia de Charruca (25 agosto 1960) carica di cittadini catalani provenienti da Valencia, da Barcellona, dalle Baleari, dai Pirenei, dai paesi valenzani, da Perpignan non è stata solo un’opportunità turistica, ma la tappa di una strategia politica che viene esplicitata nella rivista ispirata a quella degli esiliati catalani, “Reinaxença Nova”. E poi i Jocs Florals, la gara poetica di origini trecentesche vietata dal Franchismo, che fu trionfalmente celebrata il 10 settembre 1961 al Teatro Selva di Alghero. Soprattutto l’amicizia con Jordi Pujol i Soley, il sovversivo che Simon Mossa avrebbe tentato di visitare nel carcere del Torrero e poi a Girona (io stesso anni dopo l’avrei conosciuto per un’onorificenza a lui concessa dalla rete dei Rettori delle Università Catalane della quale ho fatto parte).

Da queste premesse si sarebbero sviluppate tante occasioni successive, fino all’adesione dell’Università di Sassari alla Xarxa Vives d’Universitats, alla partecipazione a Prada dell’Universitat Catalana d’Estiu (Vice Rettore Carlo Sechi), all’istituzione di una cattedra di Lingua catalana nella Facoltà di Lettere e Filosofia e alla nascita della Facoltà di Architettura Mediterranea di Alghero orientata al Progetto e voluta da Giovanni Maciocco, Giovanni Lobrano, Silvano Tagliagambe, Raimondo Zucca, Alessandro Maida, oggi Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica, decentrato nella splendida cornice delle fortificazioni medioevali della città catalana di L’Alguer: una città che aderisce alla rete delle città storiche del Mediterraneo. Mi ha sorpreso la controversa conferenza svolta da Simon Mossa a Valencia su “Arquitectos y Arquitectura en Cerdena” nel dicembre 1962: è come se il maestro algherese avesse anticipato di trent’anni i nostri urbanisti della Provincia di Nuoro rispetto al volume su Archeologie e ambiente naturale. Prospettive di cooperazione tra le autonomie locali nel Sud d’Europa, a cura di A. Mastino, Ilisso, Nuoro 1993, con gli articoli sull’urbanistica tradizionale e l’ambiente di Valencia firmati da Gianni Bacchetta e Manuel Costa per la Provincia di Nuoro.

Ci sono dunque tante linee che si incontrano in modo coerente, ma sorprendono i tempi, le anticipazioni, la maturità dello studioso e del politico: tornare a Simon Mossa significa riprendere le battaglie per le lingue minoritarie, per il catalano, una lingua tagliata nel buio della dittatura; ritrovare il desiderio di un rapporto forte col vasto mondo catalano. Come non pensare al nonno di Pasqual Maragall i Mira (laureato ad honorem a Sassari il 5 dicembre 2011), il sensibile poeta Joan Maragall (amico di Jordi Pujol per aver scritto Il canto della bandiera catalana), nell’Oda nova a Barcelona, coi versi che a me sembrano un simbolo dei suoi rapporti con la Sardegna e testimoniano un legame profondo tra le due sponde, Alghero e Barcellona veicolato forse dalle onde del mare:

Oh! detura’t d’un punt! Mira el mar, Barcelona,

com té faixa de blau fins al baix horitzó,

els poblets blanquejant tot al llarg de la costa,

que s’en van plens de sol vorejant la blavor.

Ora occorre fermarsi e guadare il mare, come una cintura d’azzurro all’orizzonte basso, i villaggi imbiancati lungo tutta la costa, in quella parte piena di sole che confina con l’azzurro. Pasqual Maragall avrebbe trasformato in realtà il sogno di suo nonno, avrebbe aperto Barcellona al mare in occasione del nuovo disegno urbanistico per la grande Olimpiade del 1992 nel suo mandato di alcalde. Così vorremmo che sempre più diventasse Alghero e la sua straordinaria passeggiata lungo il porto, una nuova Rambla, là dove la terra finisce e il mare comincia, con il sole che offre incredibili tramonti sul Mare Sardum. Alghero, la Piccola Barcellona, ha anticipato di qualche decennio quello che sarebbe stato il percorso della capitale del mondo catalano: soprattutto grazie all’architettura di Simon Mossa, l’aeroporto di Fertilia, le nuove strutture ricettive, il ristorante La Lepanto l’Ospedale Ortopedico sul mare con Giuseppe Mastrandrea, il castello dei Sant’Elia a Las Tronas e il Palau de Valencia, l’Hotel Calabona ultimo avamposto verso la litoranea per Bosa. E poi il contestato piano urbanistico del 1959, in attesa del Piano Regolatore generale, soprattutto il profetico Piano territoriale Paesistico di Alghero-Fertilia, che ci fa ricordare le coraggiose passeggiate di un altro architetto che l’ha conosciuto, il nostro amico Giovanni Oliva, considerate pericolose da chi dovrebbe difendere il patrimonio ambientale di oggi.

Ma a mio avviso è soprattutto a Nuoro, nel cuore della Barbagia, che Simon Mossa poté sviluppare il suo disegno urbanistico non più modernista ma radicato su una tradizione che l’architetto ha avuto la pazienza di riscoprire: le nostre ricerche nell’archivio del Comune di Nuoro hanno consentito di recuperare la delibera del 1951 e le altre con le quali si indicava poi definitivamente l’area sulla quale sarebbe stato edificato nel 1957 il Museo del Costume, sul colle di Sant’Onofrio, per il quale Simon Mossa esplicitamente dichiara di ispirarsi al Museu de Arts, Industrias y Tradicciones Popular di Barcellona ne “El Poble Espanyol” inaugurato nel 1929 in occasione dell’ Exposición Internacional, con l’intento esplicito di documentare la ricchezza architettonica della Spagna: oltre cento esempi di architettura locale, con un sapore di autenticità ben diverso dal fastoso Museu Nacional d’Art de Catalunya, sul colle di Montjuïc.

A Nuoro la chiesa, le case, le officine, le sale espositive, dovevano essere animate, nelle intenzioni del progettista, dalla presenza di fabbri, artigiani, contadini, tessitrici, vasai: un’utopia, che però ha dato tanti frutti, fino ad arrivare alla legge del 1972 proposta un anno prima da Giovanni Lilliu, Pietrino e Mario Melis, Angelino Rojch, Gonario Gianoglio e Nino Carrus, che istituiva l’Istituto Regionale Superiore Etnografico, durante l’assessorato di Paolo Dettori. Giovanni Lilliu presiedette l’Isre dal 1985. Scrivendone su Il Popolo Sardo di Ariuccio Carta, egli immaginava l’Isre e il nuovo “Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde” come il motore della vita sociale e culturale dell’isola, con la missione creare reti e collegamenti tra gli studiosi di scienze umane, per rifare la Sardegna nel segno delle antiche suggestioni e della sua lunga tradizione resistenziale.

Infine i tanti altri luoghi della Sardegna: Sassari (l’Automobil Club, la chiesa San Giovanni Bosco delle Celestine, il Brefotrofio), l’Hotel “Gallura Mirage” a Santa Teresa, l’Abi d’Oru a Porto Rotondo.

I temi recentemente approfonditi nella mostra su Antoni Simon Mossa architetto ”Tra modernità e tradizione” nel centenario della nascita dall’ Associazione Mastros, Segni e progetti per la città mediterranea, con il bellissimo intervento di Andrea Faedda, ci consente di riassumere questi aspetti, pur avendo ormai un’idea chiara degli obiettivi dell’Archittetto in tutta l’isola, dei suoi propositi, dell’avvio tormentato del progetto in Costa Smeralda, ai Monti di Mola, dei rapporti con l’Aga Khan e con il Consorzio Costa Smeralda, delle preoccupazioni per un’architettura importata dall’esterno, sempre alla ricerca di un equilibrio tra arte coloniale e localismo esasperato, appunto tra modernità e tradizione nella nascita di quello che doveva essere a Porto Cervo il progetto di un Borgo Marinaro misurato con le pertiche antiche usate dai fondatori di una città nuova: dunque le dimensioni, le altezze, la vegetazione, ancora la chiesa di Maria Stella Maris, dove avrebbe operato il nostro rimpianto don Raimondo Satta. Già Giovanni Lilliu aveva un poco ironizzato sulle <<favolose architetture “orientali” nella Costa Smeralda volute dal conquistatore ismaelitico>>: lo stesso Vico Mossa guardava con un poco di rincrescimento alla “architettura smeraldina”, col rischio che l’alluvione delle nuove forme rischiasse di far <<risultare stucchevole quanto originariamente è stato originale e gentile>>. Forse Simon Mossa si lasciò convincere dall’amico (autore del bellissimo volume Architettura domestica in Sardegna: contributo per una storia della casa mediterranea. Cagliari, La Zattera, 1957), se è vero che abbandonò l’impresa che l’aveva visto inizialmente protagonista e non si fece pagare il suo lungo lavoro iniziale.

Trent’anni dopo Lilliu avrebbe riconosciuto il ruolo profetico che l’architetto aveva avuto nel cammino dell’autonomia, per l’intelligenza del disegno politico orientato verso l’autogoverno, per la denuncia del fallimento del regionalismo, contro il qualunquismo e la nostalgia centralistica; temi attuali al momento della Riforma della Costituzione del 2001 in senso federale. La Regione, creata come antitesi allo Stato centralistico, si era sdraiata sulla tesi che mirava teoricamente a negare, tanto che si poteva parlare di una “Regione ministeriale”. Era orribile che lo statuto zoppo, moderato, piccolo borghese, fondasse la specialità della Sardegna quasi esclusivamente sul fattore economico, orientandosi verso l’integrazione e non verso la diversità, non riconoscendo la peculiarità etnica, culturale, storica, politica e territoriale di un popolo distinto, risorto a nazione. Lilliu a posteriori poteva constatare che <<non se ne fece nulla>> della proposta di una Assemblea costituente che approvasse un nuovo statuto, anzi la questione entrò in un lungo sonno dal quale ancora non è riemersa. Oggi anche il pessimismo di Lilliu è superato e possiamo davvero raccogliere le riflessioni svolte a Nuoro al Museo del Costume tra maggio e ottobre 2017 (ora negli Atti curati da Antonello Nasone) con gli interventi di Giuseppe Pirisi, Andrea Soddu, Paolo Serra, Antonio Giua, Riccardo Campanelli, Alessandro Doneddu, Simone Ligas, Joseph Pintus, Andrea Mariani, Eugenio Berretta, Andrea Fadda, Rosa Manca, Federica Pau, Pisana Posocco, Battista Giordano, Pepita Simon. Uno sguardo incrociato e davvero sorprendente, che ora con questo volume viene presentato splendidamente e che dovrà esser tenuto presente da chi intende capire la Sardegna di oggi, senza la fretta e la superficialità ai quali siamo ormai abitati.




In difesa dell’umano, problemi e prospettive, 12 febbraio 2025

Cagliari, Manifattura Tabacchi

La presentazione del volume In difesa dell’umano, problemi e prospettive

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Mi accingo con qualche timore a presentare questo volume In difesa dell’umano, problemi e prospettive edito da Vivarium Novum a cura di Luciano Boi, Umberto Curi, Lamberto Maffei e Luigi Miraglia: l’opera è stata pensata nel pieno della pandemia del Covid 19. Quattro anni fa siamo stati investiti da una crisi che forse testimonia come la Natura ormai finisce per ribellarsi all’uomo. A distanza di qualche anno – e naufragio emergentes scrive Luigi Miraglia – pensavamo di aver ritrovato la normalità che avevamo conosciuto in passato e che in realtà oggi sappiamo costituiva il vero problema di fondo.

Osserviamo come lo scenario si aggravi, con la deriva dell’era digitale (come si esprime Marcello Foa): assistiamo ad un passaggio significativo e ancor più drastico, forse traumatico, verso le tecnologie digitali, come con sviluppo dell’Intelligenza artificiale fondata su tante promesse fallaci. Soprattutto osserviamo con preoccupazione il successo di una politica che lentamente tenta di negare la verità e di affermare una realtà virtuale che si dà per acquisita e nella quale non sempre ci ritroviamo. Penso all’emigrazione dei Palestinesi proposta e ormai affermata (come possibile e prossima) dal Presidente Trump, in una terra nella quale si sono allevati colpevolmente i possibili terroristi del futuro. Mattarella nei giorni scorsi a Marsiglia ci ha ricordato gli aspetti più rischiosi dei cambiamenti in corso in un mondo opaco quasi distopico in cui riemergono «sfiducia nella democrazia, unilateralismo e nazionalismi», un mondo in cui «si riaffaccia, con forza […] il concetto di “sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo». E ha aggiunto ricordando il pericolo causato da figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche. Forse una nuova catastrofe antropologica, con la nascita di contropoteri incontrollabili.

Questo però è un libro a più voci, con tanti registri differenti e indirizzato positivamente verso il futuro, per Mauro Ceruti verso un nuovo umanesimo planetario capace di cogliere la complessità per partire di nuovo. Queste pagine mi hanno fatto ricordare il passo delle Questioni naturali di Seneca che ho voluto collocare nell’atrio dell’Università di Sassari per i suoi 450 anni di vita: nell’età di Nerone e di San Paolo – come ricorda Giancarlo Rinaldi – Seneca affermava:

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet;

multa saeculis tunc futuris,

cum memoria nostra exoleverit, reservantur:

pusilla res mundus est,

nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;

molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,

quando di noi anche il ricordo sarà svanito:

il mondo sarebbe una ben piccola cosa

se l’umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

Per un popolo nuovo, il ruolo della conoscenza, della cultura, della scuola saranno essenziali. Desideriamo uno sguardo positivo verso un futuro nel quale ci sia più rispetto per gli altri uomini, contro le schiavitù e il pericolo della fine della storia. Come scrive Ignacio Armella Chavez, dobbiamo muoverci in un gioco di specchi, tra l’accaduto e l’avvenire.

Terenzio nella commedia Heautontimorumenos ricordava che il saggio è un essere umano e niente di ciò che è umano è estraneo a lui, homo sum, humani nihil a me alienum puto, un’espressione forse abusata ma nella quale ci riconosciamo pienamente, che attraverso il tempo arriva fino all’Italo Calvino di Marcovaldo, e che condensa anche il tema del desiderio di bellezza e di giustizia.

Merito dei curatori di questo libro è quello di aver affermato la necessità di una visione trasversale, che è il denominatore comune di tante riflessioni raccolte da mezzo centinaio di studiosi delle più diverse provenienze, italiani e stranieri, umanisti, scienziati, matematici, interessati a fissare paletti visibili, riconosciuti, positivi, fondati su un’etica che – come si esprime Cesare Polizzi – riconosce come necessario un destino di simbiosi.

Chi mi conosce sa che sono convinto del valore della tradizione e penso che gli studi classici possono rappresentare un punto di riferimento oltre che per i paesi europei paradossalmente anche per il Maghreb e per altre aree del mondo, a iniziare dall’America latina, con lo scopo – scrive Nuccio Ordine – di darci strumenti per combattere la mercantilizzazione dell’educazione, della scuola, dell’università.

Voglio ricordare le parole di Gaio, fatte proprie da Giustiniano nel Digesto: Nel dispormi a interpretare le antiche leggi, ho ritenuto necessario che il diritto del popolo romano sia da riprendere dalle origini di Roma, non perché io voglia scrivere commenti prolissi, ma perché noto che in tutte le cose è completo ciò che risulti formato in tutte le sue parti; e certamente di ciascuna cosa è l’origine la parte più importante, id perfectum esse quod ex omnibus suis partibus constaret et certe cuiusque rei potissima pars principium est. Occorre richiamare fortissimamente i giovani di tutti i Paesi europei a non trascurare il proprio principium, un principium che non è nazionale ma che immerge in particolare il nostro paese in una prospettiva universale e globale, che tiene conto degli intrecci della storia e che ci orienta verso un’apertura sempre più ampia e solidale. Se abbiamo un futuro – e noi vogliamo avere un futuro– il futuro sta proprio nel far intendere ai giovani il loro rapporto con il passato e quindi saper leggere il loro presente in relazione al passato e il passato in relazione al presente, ricorrendo all’intertestualità e riscoprendo il continuum della nuova Europa con il mondo antico.

Dunque, cultura classica come libertà, diritto, giustizia, solidarietà, fides, ragione, poesia, arte, patrimonio degli uomini, faticoso a raggiungersi, se volete, ktema eis aei, secondo il monito di Tucidide, non oggetto di antiquariato e di nostalgica erudizione. Ma insieme questo volume nella sua parte quinta afferma l’esigenza che scienze della natura e studi umanistici costituiscano una sola cultura, perché scrive il nostro amico Giorgio Parisi a cosa esattamente serve la scienza ? Occorre allora riscoprire la complessità e le possibilità dell’umano oltre il modello della macchina. Del resto già Karl Popper nel 1956 scriveva che <<la mia disciplina non esiste, perché le discipline non esistono in generale. Non ci sono discipline, né rami del sapere; o piuttosto, di indagine. Ci sono solo problemi e l’esigenza di risolverli>>.

Nell’età della globalizzazione, dove troppo spesso emerge il demone dell’homo oeconomicus, del mercato, della tecnologia digitale, degli algoritmi, delle armi, la lezione antica e moderna della cultura classica ci insegna a riconoscerci nei valori fondati sull’humanitas, superando quelle che Lamberto Maffei chiama le patologie della modernità, attraverso un impegno concreto per la giustizia, la cura, il rispetto, il sogno.

Penso che sia necessaria la volontà di “lavorare insieme”, respingendo categoricamente la prospettiva falsamente progressista del rapporto tra culture egemoni e culture subalterne, la voglia di immaginare per la riva sud del Mediterraneo ma per noi stessi un futuro desiderabile anche senza prevederlo e, per usare un’espressione felice di Bibo Cecchini e di Ivan Blečić, di programmare una fase nuova di un mondo futuro animato da città che vorremmo antifragili, partendo dalla profondità della storia e dalla complessità delle culture diverse. Le Corbusier nel 1965 sosteneva: <<Essere moderni non è una moda, è uno stato: Bisogna capire la storia: e chi capisce la storia sa trovare la continuità tra ciò che era, che è e che sarà>>. Credo che una lezione di questo tipo nel mondo sanguinoso e violento che stiamo vivendo sia davvero preziosa, soprattutto se metteremo da parte soporattutto quell’idea di “mare nostrum” che Franco Cassano ne Il pensiero meridiano considera <<odiosa per il suo senso proprietario>>: essa <<oggi può essere pronunziata solo se si accetta uno slittamento del suo significato. Il soggetto proprietario di quell’aggettivo non è, non deve essere, un popolo imperiale che si espande risucchiando l’altro al suo interno, ma il “noi” mediterraneo. Quell’espressione non sarà ingannevole solo se sarà detta con convinzione e contemporaneamente in più lingue>>.

Attilio Mastino




Gerardo Severino, Storia di Nicolò Diana, Delfino 2024

28 maggio 2024

Gerardo Severino, Storia di Nicolò Diana, Delfino

Presentazione

Sassari, Circolo Diavoli Rossi

La città di Sassari deve moltissimo al Col. Gerardo Severino, amico personale e amico della Sardegna, direttore fino a pochi anni fa del Museo Storico della Guardia di finanza, infaticabile studioso del Novecento italiano: se la nuova caserma della Guardia di Finanza di Via Gavino Pinna a Sassari, inaugurata il I agosto 2018, è oggi intestata al partigiano Giovanni Gavino Tolis di Chiaramonti lo si deve soprattutto al bel volume dedicato dal Col. Severino e dall’Editore Delfino al finanziere morto nel Campo di concentramento di Mauthausen il 28 dicembre 1944, accusato di aver aiutato molti profughi ebrei a Chiasso (Il contrabbandiere di uomini, 2012). È una delle tante figure nobili, evocate con la speranza che possano far parte di un pantheon ideale di Sardi generosi e illustri, soprattutto mossi da sentimenti di giustizia e di solidarietà verso i più deboli. Sono molte le opere del Col. Gerardo Severino che ci raccontano una Sardegna diversa, fatta di combattenti sardisti identificati per il loro coraggio, di finanzieri ricordati nel giardino dei giusti come Salvatore Corrias fucilato a Moltrasio (Como) nel gennaio del 1945 dalle Brigate Nere della Repubblica sociale, di molti altri personaggi impegnati nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione. Fino a Salvatore Cabitta e Martino Cossu, nel 1966 vittime del terrorismo altoatesino. E poi tanti altri sardi, come quelli che sono alle origini della Brigata Sassari durante la prima guerra mondiale o nei reparti composti da valorosi combattenti di origine isolana: figure che emergono dalle pagine di questi bei volumi che ci raccontano l’autore, per un’attenzione, una vicinanza, una volontà di affermare la giustizia, una conoscenza del territorio, un desiderio di incontro e di amicizia.

Con questa Storia della lunga e tormentata vita di un valoroso combattente, il Generale sassarese Nicolò Diana (1811-1896), torniamo indietro nel tempo per conoscere uno dei protagonisti del Risorgimento nazionale: assieme all’amico fraterno il Generale Raffaele Cadorna fu un protagonista delle prime guerre d’indipendenza combattute dalla fanteria dell’esercito Sardo.

Dunque i Savoia, con le loro luci e le loro ombre all’indomani della “cacciata dei Piemontesi” e dei moti rivoluzionari in Sardegna, quindi la repressione guidata con ferocia da Carlo Felice (viceré a Cagliari fino al 1812), protagonista però poi di una politica di sviluppo, inevitabile dopo la triste esperienza dell’esilio sardo durante l’età napoleonica, in una terra povera e sfruttata, uscita quasi immobile a un secolo di distanza dalla dominazione spagnola, un’isola sempre uguale a sé stessa.

Dunque la vita del nostro protagonista, iniziando dal battesimo del bimbo – appartenente ad una nobile famiglia locale, nato dal notaio Antonio Maria Diana e da Maria Perantoni – battezzato il I febbraio 1811 nell’antica chiesa di santa Caterina, edificio oggi demolito in Piazza Azuni: già i nomi assegnati di Nicolò Gavino Maria che compaiono nei quinque libri ci rimandano ai santi protettori che più contano in città e testimoniano un radicamento nella città: Nicolò o Nicolao dal celebre Nicola di Myra, il santo dei miracoli, che conosciamo come titolare della pieve medievale fin dall’XI secolo (Sanctu Nicola de Thathari, CSPS 83, 1), oggi riconosciuto come il titolare della cattedrale arcivescovile di Sassari; Gavino, martirizzato da Diocleziano a Turris Libisonis e patrono dell’archidiocesi turritana; infine la Madonna, venerata dai francescani di Silki e di S. Maria di Betlem all’ingresso della città, luogo dove si conclude tradizionalmente la Faradda Unesco, la pittoresca sfilata dei Gremi.

L’a. ricostruisce la storia della famiglia (originaria di Simala al piede orientale del Monte Arci, verso la Marmilla), divenuta con i Savoia tra le più attive della Baronia di Monreale, tra Sardara e San Gavino, giungendo a Sassari proprio nell’Ottocento con militari e funzionari impegnati nel notariato e nel Controllo generale di finanza al servizio della Reale Udienza. Nicolò apparteneva a una famiglia di notai, il nonno Antonio Effisio, il padre Antonio Maria, alcuni zii e cugini. Questo volume racconta tutte le tappe degli studi e di una carriera luminosa, fondata sul coraggio e la dedizione: il diploma di magistero (1829), la formazione militare come volontario delle Guardie del Corpo del Re Vittorio Emanuele I a 18 anni, poi cadetto all’interno della prestigiosa Reale Accademia Militare di Torino dalla quale uscì come sottotenente (1830), poi arruolato nel secondo reggimento della Brigata di Fanteria”Aosta” comandata dal Generale Giovanni Antonio Pagliaccio, Marchese di Planargia; in forza al secondo e poi nel 16° Reggimento fanteria della Brigata Savona (1838-46), Sullo sfondo appare evidente il contrasto tra la prima fase della vita del soldato, deciso a stroncare le cospirazioni mazziniane e repubblicane (si pensi alla fucilazione a Chambery l’11 giugno 1832 del sassarese Efisio Tola, fratello del più celebre Pasquale), e la successiva partecipazione alle fasi più significative delle Guerre d’Indipendenza, per la condivisione degli ideali risorgimentali, dopo la Fusione Perfetta della Sardegna agli stati di terraferma (1847) e l’estensione dello Statuto Albertino (1848). Il Diana continuò a frequentare la città d’origine, Sassari, inizialmente destinata a uno sviluppo edilizio davvero impetuoso: la costruzione del Palazzo di Città (il Teatro Civico), sui resti dell’antico santuario di Ercole, il nuovo Ospedale, le Carceri di Via Roma, le Scuole e le Piazze: il “piano d’ornato” ed i nuovi strumenti urbanistici consentivano ora di creare quartieri ordinati e regolari, anche arrivando però a spaventosi abbattimenti (il castello nel 1871 e parte delle mura medioevali). Qui il Diana era in sintonia con le tradizioni popolari, con le feste (come la Faradda dei Candelieri), con i progetti della famiglia.

Intanto diventava Luogotenente presso l’11° Reggimento Fanteria della Brigata Casale (1847) e veniva trasferito a Sassari – forse per punizione – presso il Deposito del Battaglione dei Cacciatori Franchi: dalla Sardegna sarebbe partito nel 1848 per partecipare alla prima guerra d’Indipendenza, lasciandosi alle spalle una città che presto sarebbe stata investita dal colera. Carlo Alberto guidò le sue truppe fino alla sconfitta di Novara, alla quale il Diana partecipò inquadrato nell’11° Reggimento Fanteria come capitano e responsabile di una compagnia di 250 uomini (23 marzo 1849). Nicolò Diana aveva preso parte da protagonista il 6 maggio 1848 alla battaglia di Santa Lucia verso Verona e il 30 maggio a quella di Goito sul Mincio, vinta dal Gen. Eusebio Bava per i Piemontesi. Sono gli episodi che portarono al Diana il grado di capitano, le decorazioni di cui andava fiero, infine il matrimonio con la figlia (Anna Maria) del commilitone – conosciuto in quell’occasione – il concittadino Antonio Vincenzo Agnesa. Per il matrimonio era possibile dunque tornare a Sassari presso il Deposito dei Cacciatori Franchi (1850), mentre in città scoppiava una sommossa popolare del Carnevale 1852 provocata dal risentimento dei Sardi della Guardia Nazionale, ostili ai Bersaglieri: sono i mesi del lungo stato d’assedio decretato da Vittorio Emanuele II, della repressione affidata ai cavalleggeri di Sardegna e ai Cacciatori Franchi, temporaneamente ospitati nel Monte Frumentario; vent’anni dopo sarebbero stati trasferiti nella Caserma La Marmora, costruita sui resti dell’antico castello. Alla fine della rivolta il Diana fu spostato a Vercelli ancora presso i Cacciatori di Sardegna, poi inquadrati nei Granatieri di Sardegna. Il Capitano partecipò con i suoi uomini al Corpo di spedizione in Crimea guidato dal Generale Alfonso La Marmora, secondo le coraggiose e imprevedibili scelte di Cavour: alla testa del Reggimento Provvisorio dei Granatieri di Sardegna, il Capitano partecipò vittoriosamente alla battaglia della Čërnaja rečka, il “fiume nero”, dove i Piemontesi il 16 agosto 1855 sconfissero rapidamente gli zaristi di Alessandro II, chiusi a Sebastopoli, ora occupata dai Francesi, afflitti a loro volta dall’epidemia di colera. Promosso Maggiore, il Diana fu trasferito al 17° Reggimento Fanteria della Brigata Acqui a Vercelli e poi tornò ai Granatieri di Sardegna per partecipare alla seconda guerra d’Indipendenza, arrivando a come comandante del terzo Battaglione del I Reggimento liberare Milano dagli Austriaci e il 24 giugno 1859 combattendo vittoriosamente al Santuario della Madonna della Scoperta tra Solferino e San Martino (a Sud del Garda): per quest’episodio egli ottenne da Napoleone III il Cavalierato della Legion d’Onore e dai Savoia il grado di Luogotenente colonnello e l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine militare dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dal 1860 lo troviamo a Cuneo al comando del 51° Reggimento di fanteria “Brigata Cacciatori delle Alpi”, erede della tradizione garibaldina.
Finalmente il grado di colonnello (28 luglio 1861), all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia: in tale veste partecipò alla repressione del brigantaggio in Sicilia, tra Palermo e Trapani, poi in Toscana. Colonnello Brigadiere dal 1864, Diana comandò la Brigata di fanteria “Puglie” con sede a Piacenza, per poi assumere pochi mesi dopo il comando della Brigata dei Granatieri di Toscana a Napoli. L’anno dopo arrivava la promozione in servizio a Maggior Generale (Generale della Brigata), il comando nella terza guerra di indipendenza con la sconfitta di Custoza (alla quale il Diana e i sodati della !7° divisione “Cadorna” non parteciparono direttamente), Grazie al ruolo svolto da Garibaldi, l’Italia con l’armistizio di Gorizia ottenne nel 1866, attraverso una delicata trattativa diplomatica, il Veneto. Mentre scoppiavano varie rivolte, anche a Sassari, in Sicilia, persino nel Napoletano dove ora si trovava, il Diana a 56 anni d’età nel 1867 si ritirava in disponibilità forse con la moglie proprio a Sassari dove il cognato Vincenzo Agnesa era diventato Sindaco. Si trasferì prestissimo definitivamente a Milano, dove sappiamo ebbe modo dio frequentare l’amico Giorgio Asproni, che lo ricorda assieme alla moglie nel suo diario. Nel 1872 fu infine promosso Tenente Generale (Generale di Divisione) della Riserva, dall’anno successivo in congedo assoluto. L’a. non esclude una successiva temporanea frequentazione sassarese dopo la morte di Garibaldi, per ragioni di famiglia oppure ad esempio quando fu posta la lapide per ricordare Efisio Tola (1880): non sappiamo si sia trattato di un tardivo ripensamento.

La scomparsa del Generale Diana a 85 anni d’età avvenne a Milano il 9 giugno 1896, seguita da un funerale solenne al quale parteciparono le autorità, i reduci, i familiari: si chiudeva davvero con molti interrogativi una vita lunga, operosa, attraversata dalle mille contraddizioni della politica del tempo.

L’abilità dell’autore è evidente: il col. Gerardo Severino riesce a seguire in parallelo tante storie diverse e alla fine arriva a riannodare i fili di tante carriere militari e di tanti protagonisti: il cugino Luigi Castelli (legion d’onore in Crimea), Raffaele Cadorna (Legion d’onore in Algeria, comandante del V corpo d’armata a Porta Pia), Tommaso Castelli, Beppe de Angioy e tanti altri.

Credo che non si possa andare oltre: trovo però necessario ricordare che siamo di fronte ad un frutto prezioso di una lunga ricerca che il col. Gerardo Severino continua a portare avanti, animato da uno straordinario amore per la Sardegna: oggi ci restituisce a tutto tondo l’immagine di un militare davvero speciale, che pure era sostanzialmente sconosciuto a Sassari e in Sardegna.

Sappiamo che questa è una terra che ha accolto l’a. e che davvero manifesta in tante occasioni riconoscenza e amicizia.

Sassari, Faradda dei Candelieri Unesco 2023