Tracce di pellegrinaggi nella Sardegna antica attraverso le iscrizioni

Convegno “Pellegrinaggi e luoghi santi nella Sardegna medioevale e moderna”

Cagliari 20 giugno 2025

Questo convegno su Pellegrinaggi e luoghi santi nella Sardegna medioevale e moderna ha una necessaria premessa: dobbiamo occuparci della fase tardo antica e bizantina, sulla quale spesso si sorvola per la paura di incorrere nei falsi, nei sancti innumerabiles barocchi, anche se la pratica religiosa ha radici profondissime, che è necessario tener presenti se si vuole davvero comprendere il tema della lunga durata e della rete di relazioniculturali che precedono l’età giudicale, senza la paura di affidarci ad una documentazione che arriva indietro in alcuni casi quasi all’età delle persecuzioni.   

A Roma i cristiani celebravano l’eucaristia presso le tombe dei martiri, spesso situate nelle catacombe, veri luoghi sacri: qui il cielo e la terra si incontravano. Queste celebrazioni rafforzavano il senso di comunità e di continuità tra i vivi e i defunti nella fede; al momento della morte, i fedeli potevano farsi seppellire nelle vicinanze della tomba di un martire: il che finiva per esser considerato un privilegio speciale, che veniva ricercato fin dalle origini del cristianesimo, perché si accompagnava ad una promessa di sopravvivenza, garantendo effettivamente la vittoria sull’oblio dopo la morte, anche per la frequenza con la quale si celebravano le ricorrenze liturgiche per ricordare il martirio dei santi vicini, in qualche modo comites del defunto. Il credente poteva così sperare nell’aiuto miracoloso dei santi sepolti a breve distanza da lui, che in qualche modo si sarebbero potuti occupare della quies e della securitas delle ossa e della protezione della tomba, evidentemente destinata, quest’ultima, a divenire essa stessa luogo di devozione e di preghiera e dunque protetta dalla venerazione dei fedeli che frequentavano la necropoli privilegiata. Sono i santi vicini che intercedono presso il Signore in favore dei defunti sepolti con loro e che un domani, arrivata l’ora del giudizio finale, daranno al corpo l’impulso per rinascere nella risurrezione. La sepultura ad sanctos, [ad] martyres, ante specum martyrum, ad sanctorum locum, è una costante nell’epigrafia funeraria già dal IV secolo in tutto l’impero e anche in Sardegna, perché il defunto risorgerà assieme ai santi: resurrecturus cum sanctis, come a presso Carthago Nova, dove il prete Crispinus affida la tomba alla protezione dei martiri, [ut cu]m flamma vorax ve[n]iet comburere terras, ce[ti]bus s(an)c(torum) merito sociato resurgam, hic vite curso anno finito (affinché quando la fiamma vorace giungerà a bruciare le terre, io possa risorgere, meritatamente associato ai santi, qui, una volta terminato l’anno della mia vita).

Nella liturgia esequiale medioevale l’espressione In Paradisum deducant te Angeli; in tuo adventu suscipiant te Martyres, et perducant te in civitatem sanctam Jerusalem, con i verbiverbi incalzanti ducant-suscipiant-perducant, richiama il movimento verso quella realtà ultraterrena che è la santa Gerusalemme. Vedremo che queste espressioni sono tarde ma in parte ricorrono sei secoli prima a Turris Libisonis nel IV secolo per la Puella dulcia Ad[e]odata a sanctis marturibus suscepta, la dolce fanciulla Adeodata, accolta dai santi Martiri. Mentre era ancora promessa sposa, abbandonò la vita sul far dell’alba nel giorno mercoledì 16 dicembre. Ella visse circa 16 anni; morì vergine. Raimondo Turtas era convinto che l’espressione sarda sia non solo precedente ma anche autonoma dalla liturgia esequiale romana medioevale, evidentemente fondata su fonti comuni.

A partire dal IV secolo, forse già prima, a Roma le tombe dei martiri divennero mete di pellegrinaggio, e su di esse sorsero basiliche e santuari, i martyria. Alla vigilia del sacco del 410 da parte dei Visigoti, formulando quasi una premonizione, Girolamo scriveva nel 403 dalla lontana Palestina, nell’anno del trionfo di Onorio su Alarico osservando con dolore ma anche con speranza: «il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnatele hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le sono proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accorre alle tombe dei martiri», in particolare San Pietro e San Paolo: auratum squalet Capitolium; fuligine et aranearum telis omnia templa cooperta sunt; movetur urbs sedibus suis et inundans populus ante delubra semiruta currit ad martyrum tumulos. Per usare le parole che Agostino pronunciò con riprovazione l’anno dopo nell’omelia recitata nella basilica della nostra Thignica, il municipio africano dove abbiamo in corso gli scavi, era passata solo una generazione da quando tutti gli abitanti erano pagani e servivano i demoni.  L’abbiamo ritrovato Agostino a Pavia e a Milano presso il Centro Ambrosiano e la Biblioteca rileggendo le Confessioni: <<Et veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum, in optimis notum orbi terrae, pium cultorem tuum, cuius tunc eloquia strenue ministrabant adipem frumenti tui et laetitiam olei et sobriam vini ebrietatem populo tuo>>. L’abbiamo ritrovato, Agostino di Ippona,  nei nostri luoghi in Africa o in Sardegna, come a Thignica o a Carales, qualche anno dopo, con un’emozione che mi è ora davvero difficile descrivere.

Se torniamo proprio alla Sardegna, conosciamo non pochi fedeli morti nell’isola, lontano dalla propria patria, il cui corpo fu oggetto di venerazione prima e poi trasferito nelle catacombe romane: solo per fare alcuni esempi ricorderemo almeno il vescovo di Roma Ponziano e il presbitero Ippolito nell’età di Severo Alessandro, deportati in Sardinia, in insula nociva; in eadem insula adflictus maceratus fustibus defunctus est III kal. Novemb. L’arrivo del successore Fabiano e di un gruppo di chierici giunti in Sardegna per recuperare le salme si presenta come un vero e proprio pellegrinaggio ad martyres.

Le iscrizioni ci fanno conoscere anche il caso del messo pontificio Annius Innocentius, un attivissimo acol(uthus), che ob eclesiasticam dispositionem itinerib(us) saepe laborabit: infine morì in Sardegna; le sue ossa furono traslate alla metà del IV secolo a Roma, nel cimitero di Callisto: postremo missus in Sardiniam, ibi exit de saeculo; corpus eius huc usq(ue) est adlatum. Non escluderei che questa missione ufficiale in Sardegna, svoltasi poco prima del 366, secondo Ferrua «nel pieno delle traversie subite dalla chiesa romana da parte degli ariani», possa essere collegata con le posizioni assunte da Lucifero di Cagliari: a recuperare il corpo venerato di Annius Innocentius arrivò forse una delegazione da Roma, ancora una volta in una sorta di pellegrinaggio devoto.

Come nel resto dell’impero, anche in Sardegna fin dai primi secoli del cristianesimo, la memoria dei defunti — in particolare di coloro che avevano sacrificato la vita per la fede in Cristo — fu oggetto di profonda venerazione da parte dei fedeli. Addirittura in età adrianea sarebbe morto Antioco, che si vuole cacciato in esilio dalla Mauretania per la sua adesione alla dottrina cristiana ed approdato secondo una dubbia tradizione alla Sulcitana insula Sardiniae contermina a bordo di una parva navicula. Conosciamo la topografia del santuario di Sulci, ove risplende per i fedeli che percorrono il corridoio sotterraneo l’aula ubi corpus beati sancti Anthioci quiebit in gloria virtutis; i restauri decisi dal vescovo Pietro sono stati effettuati per arricchire l’edificio di culto cultu splendore, marmoribus, titulis, nobilitate fidei, evidentemente ad edificazione dei numerosi visitatori; tituli ha il significato tecnico di epigrafi. Ci resta una copia in marmo dell’iscrizione musiva originaria, il titulus metricoche Antonio M. Corda ritiene quasi una “didascalia” collegata ad un’immagine del santo nella gloria.

Gli studi sui Martyriae Sardiniae, i santuari dei martiri sardi, sono stati completamente rinnovati a partire dal 2000, dopo l’opera di Pier Giogio Spanu, che ha in copertina il titulus di Luxurius che proviene dal luogo dove effusus est sanguis beatissimi martyris Luxuri, completamente restaurato al tempo del vescovo Elia a Forum Traiani, la capitale bizantina dell’isola, presso le sorgenti calde delle Aquae Ypsitane, in passato votate ad Esculapio e alle Ninfe Salutari ed ora al culto salutifero di Lussorio: da qui provengono le monete d’oro, i tremissi di Liutprando con le quali sarebbe stato acquistato il corpo di Agostino a Carales, quello di Lussorio, di Cisello e Camerino a Forum Traiani-Crisopoli; le reliquie arrivarono fino a Ticinum, Pavia. Sempre al 2000 risalgono gli studi di Antonio Corda sulle iscrizioni paleocristiane della Sardegna e di Ramondo Turtas sulla Chiesa in Sardegna fino al 2000.

Voglio ricordare anche il volume del 2006 sui Culti, santuari, pellegrinaggi in Sardegna e nella penisola iberica tra medioevo ed età contemporanea curato per il CNR da Maria Giuseppina Meloni e Olivetta Schena, con numerosi interventi che trattano il nostro tema, anche se il punto di vista tardo antico è molto trascurato. Proprio da questo volume si sviluppa il filone dei pellegrinaggi in Sardegna in età medioevale e, con l’articolo di Ignazio Grecu, le segnalazioni delle “orme dei pellegrini” che avevano costituito il tema della mostra promossa da Giampietro Dore nel 2001, con il relativo catalogo, da Tergu a Bisarcio, da Fordongianus a San Paolo di Milis, a Zuri. Infine, il mio allievo Giuseppe Piras ha recentemente presentato il santuario di Balai a Porto Torres, con i segni epigrafici del passaggio di pellegrini.

Credo sia ora giunto il momento di fare un passo in avanti sul tema specifico del pellegrinaggio in età tardo antica e bizantina e dunque ci concentreremo soprattutto sulle nuove scoperte che testimoniano l’esistenza di una pratica religiosa legata alle tombe venerate così soprattutto a Carales per Leontius, per Saturninus e per Agostino, ad Olbia, presso la basilica del martire Simplicio, a Turris Libisonis presso il santuario di Monte Agellu.

Per questo intervento abbiamo scelto due immagini della lastra decorata di Maximus, sepolto a Cornus in un sarcofago, coperto da un lastrone calcareo al cui interno era inserita la lastra, che testimonia una storia di redenzione. Il sarcofago era collocato entro uno spazio tra due absidi della basilica cimiteriale, spazio accessibile attraverso una fenestella confessionis, frequentata dai fedeli; con tutta probabilità siamo negli anni successivi all’arrivo di cristiani dal Nord Africa al tempo di Fulgenzio di Ruspe, esiliato dai Vandali all’inizio del VI secolo: la colomba e la nave, con i monogrammi A e Omega. Come è noto la tomba è stata scoperta nel 1956; ho avuto l’onore di lavorarci alla fine degli anni 70 e di esser scelto dal vescovo Giovanni Pes per accompagnare il pellegrinaggio del Card. Jozef Glemp nell’estate 1981. La colomba di Cornus è stata oggetto di recente dello studio frontale di mons. Pietro Meloni, ma compare anche sulle tombe a mosaico di Turris Libisonis. Non possiamo non rimandare al volume di Anna Maria Giuntella, Giuseppina Borghetti e Daniela Stiaffini, Mensae e riti funerari in Sardegna, la testimonianza di Cornus, che è un testo esemplare per ricostruire l’interazione tra vivi e defunti attraverso il refrigerium. Analoghe situazioni riguardano le reliquie di martiri africani trasferite in Sardegna nella stessa occasione, che favorirono lo sviluppo di forme di pellegrinaggio legate alla collocazione degli esiliati e delle reliquie da essi introdotte nell’isola, destinate a nuova chiese; a parte Cornus, di cui si è detto, come non pensare a Speratus ad esempio, uno dei martiri scillitani di cui ci restano gli Atti del martirio e tanti altri nel Campidano ? E a Carales ad alcuni dei martiri di Abitina uccisi nel 304? Infine, a pur titolo di esempio, al santuario di Santa Filitica sul mare di Sorso, che farebbe pensare ad una reliquia di Felicita, martire a Cartagine ?

Le recentissime scoperte in corso di pubblicazione sulle origini della Chiesa di Turris Libisonis ancora inedite e presentate da Gabriella Gasperetti, Alessandra La Fragola, Alessandra Carrieri nella domus dei mosaici marini dimostrano ora un aspetto centrale di questo intervento, il ruolo dei porti – di Turris così come di Carales e di Olbia – per l’arrivo della nuova religione in Sardegna e dimostrano che le strutture religiose sulla collina di San Gavino di Porto Torres – il Mons Agellus – sono decisamente posteriori ai primi insediamenti. Arrivati dalla penisola e stabilitisi alla foce del Fiume Mannu presso il porto sul mare, i primi cristiani costruiscono un edificio al piede della collina: la domus presenta un mosaico con l’espressione Deo gratias qui praestitit (vitam)”, ovvero “grazie a Dio che ridato la vita ai morti”, un’espressione che forse anticipa il De correptione et gratia, 11, 29.30, scritto nel 427 da Agostino. Anche in questo caso da qui si sviluppa col tempo la nuova urbanistica della città cristiana, che poi si organizza attorno alla tomba di Gavino a Turris, ma anche di Simplicio ad Olbia e di Saturnino a Carales giustiziato nei pressi del porto, per non parlare di Efisio a Nora o di Antioco a Sulci, presso le tombe venerate. Infine la temporanea sepoltura di Agostino sul porto di Carales. 

Proprio a Porto Torres non possiamo non citare la “matassa” di scritte sulle pareti dell’ipogeo di Balai (sto facendo mia l’espressione di Margherita Guarducci – si parva licet – per la tomba di Pietro) : qui la Passio colloca il martirio di Gavino, Proto e Gianuario. Pier Giorgio Spanu ha documentato i segni dell’ininterrotto culto riservato ai martiri presso l’originario ipogeo al quale si addossa la chiesa di Balai, le cui pareti sono segnate da numerosi graffiti, coperti in parte dal nerofumo dei ceri collocati su mensole: il palinsesto delle iscrizioni, molte delle quali evidentemente votive, permette di accertare l’esistenza di graffiti antichi: in alcuni casi i solchi delle lettere presentano spesse incrostazioni e precedono lo strato annerito creato dal fumo, elementi questi che potrebbero essere sintomi di maggiore antichità di queste lettere e segni graffiti rispetto ad altri: una croce monogrammatica con occhiello semicircolare che si conclude inferiormente presso la sbarra orizzontale della croce, altre croci e una palmetta; ora Giuseppe Piras segnala l’incisione di due croci sul Golgota, (una nella parete nord). Sappiamo che si tratta in alcuni casi di grafiti attribuibili ai fedeli che visitavano il celebre santuario, luogo della temporanea deposizione dei martiri: ma che fossero pellegrini che avevano attraversato il mare è tutto da dimostrare. Il fenomeno del resto è notissimo e ben studiato da Werner Eck, Gaffiti nei luoghi di pellegrinaggio dell’impero tardoantico che cerca di circoscrivere alquanto – forse troppo – il concetto di pellegrinaggio chiedendo un approfondimento caso per caso e, riferendosi soprattutto alla Terra Santa: << Il termine moderno indica in genere gli stranieri che lasciano temporaneamente la propria città natale, la patria, per raggiungere un luogo particolarmente venerato>>: andrebbero invece esclusi i fedeli che visitano abitualmente un santuario.

Effettivamente il problema esiste ed è rappresentato dal fatto che il termine peregrinus (specialmente nei carmina), che troviamo almeno quattro volte nelle iscrizioni paleocristiane della Sardegna, è generico, varia nel tempo e si applica inizialmente ai nativi privi della cittadinanza romana, anche dopo la consititutio antoniniana de civitate del 212; nell’isola dunque i sardi non cives, che sono per così dire stranieri in patria. Ma il termine indica anche gli stranieri veri e propri, anche cittadini romani, richiamati ripetutamente sulle iscrizioni paleocristiane della Sardegna per essere assistiti assieme alle viduae, alle matres, agli orfani, ai poveri, con riferimento alle notissime prescrizioni della Bibbia e dei vangeli. Potremmo citare una molteplicità di passi scritturistici, che sono certamente un punto di partenza essenziale. F. Grossi Gondi definiva peregrinus il fedele che viveva o era di passaggio, in una comunità cristiana, diversa da quella a cui era stato aggregato a mezzo del battesimo: citava alcune iscrizioni come ad esempio i pii subb[entores et hospi]tes peregrinorum.  I pellegrini venivano soccorsi dalla pietà dei fedeli e, in Africa essi avevano degli ospizi presso le chiese, come si rileva dall’iscrizione del municipium Turcetanum dove si ricorda che hac porta domus est ecresie patens peregrinis et pauperibus. Tra gli elogi dei defunti si incontra il susceptor peregrinorum et hospitum, come a Sorrento. E poi le virgines peregrinae, gli infantes peregrini o pellegrini ecc. Temi che ricorrono esattamente anche in Sardegna, dove conosciamo gli elogia per personaggi dell’aristocrazia che si sono distinti per aiutare i peregrini, i pauperes, le viduae, gli orfani accolti in xenodochia, come ad Olbia, a proposito di uno xenodochium realizzato ad peregrimorum hospitalitatem. Il cristianesimo e le istituzioni ecclesiastiche seppero creare una formidabile rete di assistenza per il soccorso e la cura dei poveri ammalati. Anche l’Occidente latino fu in grado di sviluppare strutture per l’accoglienza e il ricovero dei poveri che si trasformarono in ospedali per ammalati. Mentre in oriente e in particolare in Egitto si distinguono i nosokomeia (ospedali), gli xenodocheia (luoghi di accoglienza) sino ai lochomeia (residenze per donne/maternità) o ad esempio i lebbrosari (kelyphokomeia), il lessico per designare i luoghi di cura in Occidente fu xenodocheion, termine generalmente usato per designare la struttura ospedaliera. Andrebbero riesaminati in questo senso il lessico epigrafico e i formulari cristiani nei quali spesso ci si imbatte in espressioni, talvolta superficialmente ritenute convenzionali e retoriche, come inopum refugium, peregrinorum auxilium oppure fautor che potrebbero piuttosto far riferimento alla presenza di xenodocheia citati in Sardegna da Gregorio Magno.  Certo ilmeccanismo assistenziale, il concorso di strutture di accoglienza e le elargizioni di beni materiali, insomma in generale l’opera caritativa più o meno istituzionalizzata non erano alieni da disfunzioni.

A noi sembra evidente che il termine tardo antico e medievale latino di peregrinus non si sovrapponga a hospes, alienigena, àdvena, extraneus, barbarus o altro; esso è alla base anche del nostro pellegrino, che indica i fedeli devoti ad un personaggio venerato, ad un luogo sacro, ad un santuario, ad una memoria.  Alcune testimonianze ci assicurano che peregrini sono coloro che, singoli o in gruppo, lasciano la propria comunità nativa per motivi religiosi, per recarsi in un luogo diverso, sacro: in alcuni sarebbe implicita la volontà di tornare in patria, per altri è essenziale l’abbandono della comunità nativa per motivi religiosi, la distanza di luogo rispetto al porto di sbarco in Sardegna. Per Eck, se si vuole stabilire la necessaria chiarezza definitoria che dovrebbe essere alla base di ogni lavoro storico, allora proprio la distanza spaziale tra la patria del “pellegrino” e il luogo di culto diventa il nodo per capire se noi abbiamo a che fare con il graffito di un pellegrino o solo con il graffito di un altro visitatore del santuario.

Se guardiamo al mondo romano, Lietta De Salvo ci ha insegnato in un contesto geografico preciso, quello della Gallia della seconda metà del VI secolo, che i pauperes, malati, che si recavano alla basilica di Tours, per invocare la grazia presso la tomba di san Martino (secondo la statistica di Luce Pietri circa il 70% sul totale dei pellegrini che si recavano a Tours) dovevano per la maggior parte essere modesti agricoltori, artigiani, pastori, servi e schiavi accomunati da scarsa o inesistente capacità economica e in molti casi da insufficienze alimentari a loro volta fonte di malattia.  I pauperes spesso possono essere pellegrini sebbene non tutti i pellegrini siano pauperes in quanto, nel caso di Tours, conosciamo l’eterogeneità sociale dei pellegrini. Abbiamo detto che nelle nuove iscrizioni paleocristiane della Sardegna la parola peregrinus va tradotta pellegrino o straniero e compare almeno quattro volte spesso in associazione con pauperes.

Sarebbe utile stabilire, almeno indicativamente, l’affermarsi a livello epigrafico del parallelismo lessicale tra pauperes e peregrini: per la Sardegna ancora nella prima metà del IV secolo è attestato piuttosto il parallelismo peregrini-inopes, come si ricava dall’iscrizione di Matera, da Turris Libisonis con la lunga laudatio metrica della defunta, con l’espressione auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulgus, datata ora verso il 350 d.C. Per Matera ci troveremmo allora di fronte ad una tomba della metà del IV secolo, che conserva il corpo di una defunta vissuta 70 anni, nata dunque attorno al 280 d.C., lodata dal marito, dal populus e dal vulgus di Turris Libisonis; essa non ha avuto paura della morte (exitium nec timuit sed vicit omnia in Chris(to), cui lux erit perenni circulo fulcens)». Che ci muoviamo in pieno IV secolo è testimoniato dalle due vicine iscrizioni datate con anno consolare, l’epitafio di Musa del I giugno 394 e l’epigrafe del puer Victorinus del 25 ottobre 415, entrambe più tarde di alcuni decenni. I recenti scavi hanno dimostrato una la serrata sequenza stratigrafica, aperta con i mosaici funerari di Turritana e Pelagius [forse anche Pascasia ricordata dal genitor] e chiusa con l’epitafio di Musa datato con anno consolare al I giugno 394: prima di questa data dovremmo collocate nell’ordine la tomba di Matera (nr. 16), quella di Adeodata a sanctis marturibus suscepta, come si è visto con un esplicito riferimento ai martiri (tomba nr. 17) e infine di Musa (nr. 19).

Per Matera ci troveremmo allora di fronte ad una tomba della metà del IV secolo, che conserva il corpo di una defunta lodata dal marito, dal populus e dal vulgus di Turris Libisonis; essa non ha avuto paura della morte (exitium nec timuit sed vicit omnia in Chris(to), cui lux erit perenni circulo fulcens).

Una recente traduzione del testo:A Matera di buona memoria. Lei che spesso il popolo (vulgus) considerò soccorritrice degli stranieri (peregrini). Con il fulgido esempio della sua vita terrena dimostrò anche coraggiosamente alla sua stessa gente (populus dei cives) che tutti considerava come figli. Non ebbe paura della morte violenta ma superò ogni prova (confidando) in Cristo; a gloria di lei la luce risplenderà con un’aureola perenne; lei che Cristo stesso aveva destinato come genitrice delle vedove (matrum) e degli indigenti (inopum parentem). Per ciò il consorte racconta tali cose della dolce compagna. È vissuta 70 anni, 3 mesi, 15 giorni. Lei che è morta il 22 aprile.

Non possiamo escludere del tutto che i peregrini di cui si parla siano gli stranieri che visitavano il santuario martiriale poco dopo la morte di Gavinus, perché il nostro testo sembra conservare il ricordo della persecuzione, se abbiamo inteso bene l’anastrofe exitium nec timuit sed vicit omnia in Christo. E’ vero che Vincenzo Fiocchi Nicolai in occasione dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Cagliari, 2014) interpreta l’exitium nec timuit del testo, non come un accenno alla “morte non temuta” della donna durante la persecuzione di Diocleziano, ma più semplicemente come un riferimento alla concezione, tipica dei cristiani, della morte come evento ”da non temere”, in quanto passaggio alla vita ultraterrena; viceversa Paolo Cugusi ha accolto la suggestione (fin qui molto contrastata) di interpretare exitium del v. 4, come la morte violenta, come un collegamento al martitrio di Gavinusexitium, scil. ‘martyrii’»). Fiocchi Nicolai non vedrebbe, invece, in Matera una donna scampata al martirio durante la persecuzione dioclezianea. Eppure il rapporto coi martiri sembra certo ed è rafforzato dalle recenti osservazioni – sul piano più strettamente archeologico e stratigrafico – di Franco G.R. Campus, che ricostruisce la nascita del culto di Gavinus e dei suoi compagni, spostando il luogo del supplizio a Balagai-Balai come già Giuseppe Piras, mentre il Mons Agellus (dove pure è documentata la continuità tra la necropoli pagana e quella cristiana) avrebbe ospitato i corpi santi solo in un secondo momento, secondo la versione che ormai sembra prevalere tra gli studiosi.

L’attributo auxilium peregrinorum è ben confrontato in Sardegna con l’epitafio di Secundus di Olbia ritrovato presso il martyrium del vescovo Simplicio CIL X 7995,  inviato al Regio Museo di Antichità di Torino nell’Ottocento, oggi non reperibile anche se abbiamo affidato alla direttrice Elisa Panero un’indagine in proposito (Il dedicante si commuove ricordando come il defunto sia stato in vita inopum refugium e peregrinorum fautor):  Alla buona memoria di Secundus, degno e dolcissimo per i suoi meriti, uomo di grande integrità, padre degli orfani, rifugio dei poveri, soccorritore dei pellegrinipatri orfanorum inopum refugium peregrinorum fautor),  religiosissimo e impegnatissimo nel rigore davvero severo, egli che è vissuto all’incirca 70 anni. A lui che l’ha meritato Paolina sua moglie e Gianuario suo figlio fecero (riposi) in pace.

Nell’epitafio di Matera i termini populus e vulgus non sembrano sovrapporsi tra loro, se il primo indica forse i soli cives della colonia e il secondo i peregrini immigrati o i pellegrini, devoti che visitano il santuario.  Il tutto va confrontato con plebs dell’iscrizione turritana che cita almeno un martur; la stessa espressione plebs in un testo metrico forse caralitano che fa riferimento alla venerazione dei visitatori nella necropoli di Sant’Avendrace: i visitatori sono la plebs semper venerans, cioè ‘plebs (populus, vulgus) laudans et deflens mortuum’, il defunto forse un Leontius, la cui anima è arrivata in cielo: [corpus ter]ra tegit, anima [ad astra volat] (?).

Per il resto, abbiamo già messo in evidenza il fatto che il nome femminile Matera è raro e che sembra evidente un lusus nominis, effettuato giocando con il contenuto dell’epitafio (quem matrum aut inopum decernerat ipse parentem). Ci sarebbero elementi per pensare ad un personaggio inserito nella classe sociale dei ricchi possessores: Matera, «munifica in pauperes» appare come un esponente di spicco della comunità turritana, una ricca proprietaria, un’aristocratica sicuramente in grado di far fronte con i propri mezzi ad un’azione caritativa a favore di un ambiente sociale degradato, che avrà avuto anche precisi costi economici. I commenti più recenti hanno messo in rilievo tra l’altro: la dedica originaria della lastra, che era agli Dei Mani in ambito pagano, poi corretta all’uscita dall’officina in B(onae) m(emoriae), quando fu inciso l’epitafio; gli aspetti metrici del carmen che sono estremamente significativi (dattili poco curati, parum boni); una serie di interpunzioni sembrano indicare la fine di ogni verso. Il giudizio finale di P. Cugusi è davvero importante: sed re vera fortasse novi generis, ut dicam, versus esse videantur, maxime in clausulis. Significativo il riferimento alla luce della vita eterna (lucendo al v. 2), che torna al v. 5 con la spiegazione di Cugusi (cui lux erit perenni circulo fulcens: scil. “illi (Materae) lux erit splendens in aeterno circulo”, i.e. “semper relucenti corona circumdata erit” pro meritis); il confronto più immediato con i gaudia lucis nobae di CLESard. 22non da Olmedo ma da Cagliari; si veda anche felici condita luci per l’Emerita forse di Carales.  Al v. 6. viene commentata l’espressione inopum… parentem, che trova confronti in Sardegna e in tutto l’impero: «Matera fuit ‘mater pauperum’, ut Karissimus fuit ‘pauperum mandatis serviens’ in 2307 (prope Tharros), ut Flavia Cyriaca ‘rem sua[m pauperibus] linquit’ in 2309 (Turris Libisonis, item ad Sanctum Gavinum) utque Secundus quidam fuit ‘pater orfanorum, inopum refugium’ in Olbiensi,  itaque Christianis pauperum auxilium maximae curae fuit in Sardinia».

Abbiamo osservato in passato che sarebbe poco credibile che tutto ciò possa essersi sviluppato senza la presenza di un episcopus, di un pastore e di una guida fornita di autorità: ne potrebbe derivare l’ipotesi di una maggiore antichità della sede diocesana, che è attestata sicuramente per la prima volta un secolo dopo, in età vandala, in occasione del concilio di Cartagine del 484 con il vescovo Felix de Turribus, quando la provincia ecclesiastica comprendeva ormai la Sardegna, la Corsica e le Baleari; forse in questo IV secolo e nel successivo vissero gli episcopi turritani Gaudentius, Florentius, Iustinus, Luxurius, di un incerto titulus epigrafico su mosaico, che la tradizione vorrebbe sepolti proprio sulMonte Agellu.

Ancora a Turris Libisonis bisogna ricordare un terzo testo su un mosaico decorato con un’elegante coppa, che copre la tomba del vir spectabilis Pascalis peregrina morte raptus: è evidente che siamo di fronte a un personaggio di altissimo rango morto in Sardegna, lontano dalla patria: si tratta di un senatore di Roma o Costantinopoli. Un caso analogo è quello ricordato da Gregorio Magno per il defunto vir spectabilis romano, sepolto in Sicilia nel 591, di cui si dovevano recuperare gli schiavi.

AE 2006, 527:   Tomba del senatore Pascalis: qui giace strappato via da una morte in terra straniera (p[e]regrina morte raptus), un cittadino rende a lui onore degno per aver ben meritato, visse sessant’anni riposa cristianamente in pace.

Infine è dubbio se l’epigrafe perduta di San Saturnino a Carales (Corda 55) ricordi un Peregrinus oppure citi uno straniero: per usare le parole di Antonio Corda <<indichi <<uno stato sociale (peregrinus) oppure, ancora, più difficilmente “pellegrino”>>.

Il tema è dunque quello di capire chi fossero i peregrini aiutati da Matera e da Secundus, mentre per il vir spectabilis Pascalis sembra un personaggio morto lontano dalla patria, ma per il quale viene dedicata una elegante tomba privilegiata presso il luogo ove erano sepolti i martiri di Turris. Analogamente Cugusi segnala il fatto che per la vergine trentenne Ammia del IV secolo morta a Carales e proveniente dalla Frigia, sepolta presso San Saturnino «è copertamente adombrato il tema della ‘morte in un luogo straniero’».

Che esistessero presso il santuario di un martire degli xenodochia per ospitare gratuitamente i pellegrini è testimoniato dalla celebre iscrizione di Calama di inizio V secolo che nell’età di Onorio e Teodosio II ricorda l’intervento del curator rei publicae cittadino per restaurare l’edificio crollato, ad peregrinorum hospitalitatem.  Negli stessi anni Sant’Agostino parlava nel XXII libro della Città di Dio di un sacerdote di nome Eucario che viveva ancora a Calama e che era stato guarito miracolosamente grazie alla reliquia del martire Stefano, che il vescovo Possidio aveva trasportato fin dove abitava. Colpito da un male molto grave, Eucario giaceva come morto sicché gli stavano già legando i pollici. Egli risuscitò per l’intercessione del martire quando gli fu riportata a casa, dal luogo ove era la reliquia del santo, la tunica e posta sopra il suo corpo disteso.

Siamo assolutamente convinti dell’esistenza di forme di pellegrinaggio oltre che ad Olbia e Turris Libisonis, presso i rispettivi approdi marittimi, anche per Sant’Efisio a Nora e San Saturnino a Carales: un pellegrino devoto arrivato dal Nord Africa fino al martyrium di Saturninus possiamo considerare anche il celebre nobile vescovo Fulgenzio di Ruspe, nel suo secondo esilio in Sardegna per volontà del re vandalo Trasamondo: lasciato il primo monastero collocato presso il porto di Carales in una posizione urbanistica centrale, dove aveva vissuto per una decina d’anni e dove forse aveva sepolto le reliquie di Agostino ora conservate a Pavia, Fulgenzio nel 517, aiutato dal vescovo Brumasio, costruì il secondo monastero presso la tomba monumentale di  Saturninus che era stato sepolto due secoli prima in periferia, in un luogo ben distante dal porto, più isolato e silenzioso rispetto al centro cittadino. Il secondo monastero si trovava infatti secondo il discepolo Ferrando procul a strepitu civitatis, alla periferia orientale di Carales. Questo monastero segnò un salto di qualità nello sviluppo dell’esperienza monastica, che doveva rappresentare per l’isola un momento di straordinaria fioritura culturale e di profonda spiritualità con un costante richiamo all’insegnamento di Agostino nella chiesa sarda, almeno fino al definitivo ritorno in Africa di Fulgenzio e degli altri vescovi esiliati, per volontà di Ilderico.  Mi sembra se ne debba dedurre che presso il martyrium di San Saturninus a Carales doveva essere un ambiente protetto, senza il chiasso dei devoti arrivati da ogni dove attraverso il porto di Carales. Da qui proviene la lastra perduta che abbiamo visto citare in età paleocristiana  un peregrinus.

Attorno al 725 d.C. proprio al porto vediamo approdare secondo una tarda tradizione agiografica in pellegrinaggio i monaci inviati da Liutprando da Ticinum attraverso Genova fino a Carales, per comprare il corpo di Agostino conservato nell’ipogeo dell’attuale Carlo Felice (sotto Palazzo Accardo), con l’acqua prodigiosa e il saluto al visitatore che rimangono: in età moderna un’epigrafe invitava il viandante a sostare e venerare il sepolcro di sì gran padre.  Lascerei da parte il solenne pellegrinaggio che si ripeterà nelle prossime settimane fino alle campagne di Sedilo sul Tirso, con S’Ardia , la corsa cerimoniale a cavallo, sicuramente introdotta al confine con il Barbaricum in età bizantina.

Infine vorrei tornare al le stratificazioni del culto di Lussorio a Forum Traiani, con la complessità del martirium e con le sue singolari succursali, come nella grotta di Romana, una bilocazione che gli agiografi spiegano in modo alquanto contraddittorio: il numero dei pellegrini ancora nell’Ottocento era tale che i fedeli che frequentavano questo rozzo luogo di culto a Romana hanno potuto pagare parzialmente la ricostruzione della cattedrale di Bosa. 

Vogliamo  solo sfiorare in questa sede il tema dello specifico isolano, cioè  della permanenza in uno stesso luogo di antichissimi culti nuragici, rifunzionalizzati e reinterpretati in età imperiale in ambito pagano e poi cristiano, almeno fino al IV secolo: ad Alghero è il caso del pozzo sacro della Purissima, dove è conosciuto uno dei tanti casi di sanatio (come testimoniano gli ex voto di mani, piedi, gambe, lucerne), ottenuta attraverso l’invocazione ad un dio, da ultimo alla Madonna da parte dei fedeli ammalati, come testimonia la lucerna cristiana, prima che qualche autorità decidesse di distruggere il santuario. Ma pensiamo ai graffiti dell’ipogeo di San Salvatore di Cabras, con una continuità che da età preistorica, attraverso il mito di Eracle, arriva sino al luogo di culto cristiano. Oppure al tempio del Sardus Pater-Babai ad Antas, luogo di pellegrinaggio antichissimo, ma anche vicino alle miniere dove fu esiliato Callisto e gli altri cristiani romani. Ancora i santuari salutari pagani come quelli dedicati ad Esculapio e alle Ninfe, che hanno una storia nella fase tardo-antica cristiana.  Infine rimane anche il tema dei visitatori che violavano le tombe, per recuperare amuleti o oggetti di culto: tanto che si invocava il destino di Giuda il traditore o l’intervento del demone Abraxas, quasi l’Anticristo.  Nel luogo che ricorda il martire Efisio ad Orune in Barbagia gli ultimi scavi hanno fatto emergere nel IV secolo una lampada vitrea con l’elegante scena di traditio legis, Cristo che offre il rotolo della legge a 6 discepoli.

Concludendo, numerose fonti segnalano nella Sardegna tardo antica forti differenze sociali per la presenza di poveri, orfani, vedove, ciechi, prigionieri, oppressi, stranieri. Quanto di queste espressioni è riferito alla situazione reale della provincia Sardegna e quanto deriva dalle notissime fonti bibliche ed evangeliche, adattate per indicare la povertà e la malattia dei pellegrini che visitavano un santuario ? Ovviamente l’impegno verso gli stranieri è in primo piano per i cristiani, con varianti che però sono significative.  Per gli stranieri il latino usa il termine peregrinus, che è stato inteso in passato con riferimento alle folle che visitavano le tombe dei martiri. Dobbiamo ammettere che il termine è generico ed indica gli stranieri di passaggio ae nche i non credenti, i forestieri, gli immigrati, gli esuli, le persone sradicate dalla propria terra a causa di guerre o carestie:  Zaccaria 7,9 ricorda un precetto del Signore degli eserciti: Praticate la giustizia e la fedeltà; esercitate la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodate la vedova, l’orfano, il pellegrino, il misero e nessuno nel cuore trami il male contro il proprio fratello, con il termine προσήλυτον tradotto in italiano pellegrino; nel Salmo 146, 9 si ricorda che il Signore protegge lo straniero (τὸν ἀλλογενῆ), egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi. Geremia 7,5 promette: se non opprimerete lo straniero (il sopravvenuto, il forestiero: προσήλυτον), l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre.  Il tema torna in Levitico 19,34 e nel Deuteronomio 10, 19 nel VI secolo a.C.: Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Nella versione dei Settanta: καὶ ἀγαπήσετε τὸν προσήλυτον, προσήλυτοι γὰρ ἦτε ἐν γῇ Αἰγύπτῳ.  Diversamente nell’Esodo 22:21 e 23,9: Non opprimere lo straniero (ξένος); voi conoscete lo stato d’animo dello straniero, poiché siete stati stranieri nel paese d’Egitto.

Sorprende positività di queste raccomandazioni, che tornano nei vangeli come in Matteo: Gesù si identifica con lo straniero bisognoso (ξένος, in latino hospes): Ero forestiero e mi avete ospitato… (Matteo 25, 35): in latino: hospes eram, et collegistis me: nudus, et cooperuistis me: infirmus, et visitastis me: in carcere eram, et venistis ad me.Sorprende positività di queste raccomandazioni, che tornano nei vangeli come in Matteo: Gesù si identifica con lo straniero bisognoso (ξένος, in latino hospes): Ero forestiero e mi avete ospitato… (Matteo 25, 35): in latino: hospes eram, et collegistis me: nudus, et cooperuistis me: infirmus, et visitastis me: in carcere eram, et venistis ad me.




Del coraggio e della passione. L’avventurosa storia di Adelasia Cocco, la prima donna medico condotto

Nuoro, 9 maggio 2024. Intervento di Attilio Mastino (Presentazione del volume di Eugenia Tognotti, Del coraggio e della passione. L’avventurosa storia di Adelasia Cocco, la prima donna medico condotto nell’Italia contemporanea (1914-1954), Prefazione di Rosy Bindi, Franco Angeli)

Cari amici,

s’incontrano in questo libro due diverse passioni di Eugenia Tognotti, la storia della medicina e della sanità da un lato e la storia delle donne dall’altro, partendo dalla straordinaria figura dell’elegante colta e coraggiosa Adelasia Cocco, prima donna medico condotto nell’Italia Contemporanea tra il 1914 e il 1945, una storia ambientata  a Nuoro a Seuna ma anche a Lollove sulla strada per Orune, a Galtellì, Sassari, Pisa, Firenze.  

Non è un caso che a parlarne ci troviamo qui a Nuoro nell’auditorium dell’ISRE, l’Istituto che ha fornito molte fotografie inedite e molti documenti raccolti da Eleonora Arba. Del resto questo complesso museale e di ricera è collocato – secondo il progetto di Simon Mossa –  in Via Antonio Mereu, il tenente antifascista capo della resistenza partigiana ucciso dai tedeschi presso Ravenna il 12 ottobre 1944, che abbiamo ricordato pochi giorni fa per il 25 aprile; egli era il fratello del mio maestro elementare Paolo Mereu, anch’egli nuorese.

Allora in questa serata si uniscono tante storie diverse e tante vicende che fanno parte della nostra identità profonda, della quale siamo orgogliosi, partendo dalla reazione salutare agli ostacoli progressivamente posti dal regime fascista, che interpretava il progresso con il ritorno a rapporti sociali irrigiditi, a steccati che si proponevano senza successo di sbarrare la strada alle donne. Oggi con una figura nuova e significativa per tutti, una donna innamorata del marito Giovannino Floris e dei figli, insieme distinta, raffinata, vestita con abiti ricercati e di buon gusto in un ambiente caratterizzato da povertà, disagio sociale, scarsa igiene. Qui in Sardegna anche prima donna a prendere la patente di guida per percorrere in lungo e in largo la sua gigantesca condotta sanitaria piena di problemi e di malati, che la obbligavano a esaminare – lei da sola –  il contenuto delle provette, che la esponevano personalmente e la costringevano a sdoppiarsi anche come igienista e responsabile di laboratorio.  

L’autrice, l’amica Eugenia Tognotti, coordina il Centro per gli Studi Antropologici, Paleopatologi e Storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo nato dieci anni fa nel Dipartimento di Scienze Biomediche, dove è stata professore ordinario di Storia della medicina e Scienze Umane. È saggista, editorialista di La Stampa, Il Secolo XIX, La Nuova Sardegna. Collabora con il gruppo di esperti europei di diverse discipline che fanno capo all’Institut Montaigne, con sede a Parigi. Ha pubblicato celebri volumi su La Malaria in Sardegna (Angeli Ed., Milano 1996); Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia (Roma-Bari 2000); La Spagnola in Italia (1 ed. Milano 2002, 2 ed. 2018 ); L’altra faccia di Venere. La sifilide dalla prima età moderna all’avvento dell’Aids (Milano 2006); La tisi nell’Italia dell’Ottocento (Milano 2008); Vaccinare i bambini tra obbligo e persuasione. 300 anni di controversie (Milano 2021).

Rosy Bindi ha scritto una bella prefazione, interrogandosi sulle ragioni della comparsa proprio in una Barbagia chiusa ed arcaica di un personaggio tanto moderno, Adelasia che nel nome rimanda (soprattutto a Sassari dove era nata) all’ultima giudicessa logudorese; e poi questo suo rapporto con Sebastiano Satta, Antonio Ballero, Grazia Deledda attraverso il padre il cancelliere-poeta Salvatore Cocco Solinas; questa determinazione a conseguire obiettivi alti che contrasta con la presunta fragilità fisica e psicologica delle donne in genere relegate tra i fornelli di casa. Eppure le donne oggi – nei tempi di un sistema sanitario universalistico e solidale – hanno superato i maschi come numero di laureati in medicina, pur rimanendo in minoranza nei ruoli apicali. Il tema dell’impegno contro la malaria, la turbercolosi, la spagnola, il colera, il contrastato rapporto con il regime fascista, in un territorio caratterizzato da pessime condizioni igieniche, ma ormai avviato verso la modernizzazione. 

Tutti temi che saranno trattati questo pomeriggio ora dalla presidente Alessandra Todde e poi dagli specialisti che interverranno con più competenza di me. Voglio solo dire che l’autrice, ricostruendo la vita di Adelasia Cocco in realtà è riuscita a presentare al lettore uno spaccato vivacissimo della storia di Nuoro e della Sardegna, delle conseguenze della nascita della nuova provincia littorio nel 1927, dei ritardi, delle resistenze, delle difficoltà, dei sacrifici di tante donne sarde vittime di pregiudizi, di soprusi e di prevaricazioni, anche quando erano espressione di un’aristocrazia poco incline a compromettersi col fascismo. In queste pagine e nella vita della protagonista ci sono due guerre mondiali, con i disagi per gli sfollati rifugiatisi sul monte Ortobene, fino a cinquant’anni fa, quando quasi centenaria Adelasia è scomparsa a Nuoro, lasciando un rimpianto ormai generale. Questo libro ci aiuta a capire la società nuorese con i suoi originali percorsi, i suoi successi, le sue anticipazioni, le sue avanguardie.




Al Museo Nazionale del Bardo a Tunisi: l’intervento di Attilio Mastino

Intervention d’Attilio Mastino, Président sortant de l’École Archéologique Italienne de Carthage
Tunis, Musée du Bardo, 24 avril 2025

Autorités, chers amis,

Avec cette cérémonie au Musée National du Bardo, un long et heureux chapitre de notre vie se clôt. Il y a dix ans, lorsque nous avons fondé l’École Archéologique Italienne de Carthage, en prolongeant les projets de maîtres comme Sabatino Moscati, Piero Bartoloni, M’hamed Fantar et Ferruccio Barreca, nous nous inscrivions dans la continuité des études africanistes menées dans de nombreuses universités italiennes. Ces travaux avaient notamment donné naissance à ce véritable forum international que représentent les colloques de L’Africa Romana, qui célèbreront à Rome, en 2026, leur 23e édition, marquant aussi leur 40e anniversaire.

Nous avons commencé à suivre les activités de nombreux centres spécialisés dans les échanges culturels concernant l’Afrique du Nord, de la préhistoire à l’époque phénicienne et punique, de la phase romaine aux Vandales, aux Byzantins, et à l’ouverture (futuhat) vers l’Islam,. Nous avons ainsi redécouvert les figures de nombreux chercheurs, européens et arabes, pionniers animés par une sincère curiosité, passion et engagement, qu’il faut replacer dans leur contexte historique, souvent marqué par des guerres sanglantes, sans rien oublier d’un passé quiconserve pour chacun de nous sa propre signification.

Nous connaissons la complexité des enjeux politiques impliquant les relations entre l’Europe et les pays arabes. En fait, nous avons été impliqués dans des missions archéologiques, découvrant l’enthousiasme, les projets et les compétences de nombreux collègues italiens et arabes, en collaboration avec le Ministère des Affaires Culturelles, l’Institut National du Patrimoine, l’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle, et les divers musées, de Carthage au Bardo, de Sousse à Utique. Puis les sites archéologiques disséminés sur le territoire, expression d’une histoire, d’une culture et d’une perspective de collaboration commune qui, nous en sommes certains, restera durable. Rétrospectivement, nous voyons combien de pierres ont été posées, de réponses tentées, de chemins explorés, de murs abattus, d’amitiés cultivées.

Le cadre dans lequel évolueront les nouveaux dirigeants de notre École (Anna Depalmas en tant que Présidente et Sergio Ferdinandi Président honoraire) sera une fois de plus à dimension méditerranéenne : Je voudrais exprimer aux nouveaux dirigeants, au Comité Scientifique, à tous les membres les plus grands succès et les satisfactions encore plus significatives dans les relations avec les collègues tunisiens.

Ces derniers mois, à Rome, nous avons commémoré Sabatino Moscati, à qui nous devons la bibliothèque que nous avons inaugurée sur la colline de Didon à Carthage, en collaboration avec l’Institut National du Patrimoine. Dans son dernier ouvrage, Sabatino Moscati abordait Les fondements de l’histoire méditerranéenne comme une civilisation de la mer, soulignant que nous ressentons tous « l’insuffisance d’une véritable histoire méditerranéenne, précisément au moment où l’apport de nouvelles connaissances révèle la partialité des traités existants. On peut même dire qu’il n’existe pas encore cette histoire méditerranéenne véritable, où les différentes contributions doivent se confronter et s’intégrer. Il est difficile de dire quand une telle histoire pourra être écrite. Et pourtant, l’histoire à dimension méditerranéenne me semble être la grande frontière de l’avenir, le dépassement nécessaire de cloisons anormales, voire trompeuses, pour comprendre le seul dénominateur commun valable et complet du monde antique ». S’il y a un protagoniste, hier comme aujourd’hui, c’est bien la mer. « Cette mer des anciens, qui constitue l’horizon, la condition, la limite de leur aventure ». Il faut donc partir du parcours maritime d’Énée jusqu’à Carthage et de la promesse de Vénus dans l’Énéide de Virgile : « Punica regna vides », titre de l’ouvrage patiemment composé par Sergio Ribichini ces derniers mois. Nous aussi, nous sommes entrés en Afrique sur la pointe des pieds, pleins de curiosité et d’envies, accueillis avec respect par nos collègues tunisiens, impliqués dans mille projets, avec nos étudiants, en accompagnant les initiatives de la Fondation de Sardaigne qui, avec la Région Sarde, nous a soutenus durant toutes ces années. C’est précisément la Région Sarde qui, par la loi régionale du 18 décembre 2024, nous a confié, en tant qu’Institut d’Études et de Programmes pour la Méditerranée, la mission de travailler à la création de la Macro-région européenne de la Méditerranée occidentale, en concertation avec la Corse, les Baléares, la Tunisie, l’Algérie et le Maroc. Plus encore que dans le passé, nous chercherons à nous confronter sur un pied d’égalité, désireux de construire une relation positive, avec un regard amical et une perspective de paix, en surmontant tout héritage colonial.

L’École de Carthage a été un véritable terrain de formation pour nos élèves, avec un flot de revues, de monographies, de dossiers qui continueront à exister ; nous avons assuré la coordination entre groupes de chercheurs et disciplines, sans barrières. Nous avons œuvré de manière concrète à indiquer des perspectives de développement pour la rive sud de la Méditerranée. Nous avons présenté nos idées lors de séminaires, rencontres, conférences,. Nous avons construit, avec la Bibliothèque Moscati, un pont de livres entre Rome et Carthage. Nous savons que bien des choses auraient pu être mieux faites, mais avec les modestes moyens à notre disposition, nous nous mettons de côté aujourd’hui avec un sourire jovial, sûrs d’avoir gagné de nombreux amis et de pouvoir continuer à travailler pour répondre à des attentes désormais considérables.

S’il y a une chose que nous espérons avoir enseignée à nos élèves et que nous voudrions aujourd’hui transmettre à nos quelque deux cent cinquante membres, c’est bien celle du respect mutuel, des relations positives, du caractère concret de l’engagement de chacun, convaincus que seuls de grands groupes de chercheurs pourront véritablement changer l’avenir.

Parmi nos membres du côté tunisien figure un grand maître : M’hamed Hassine Fantar, docteur honoris causa de l’Université de Sassari il y a vingt ans,. Son exemple et sa dimension internationale nous ont inspirés durant toutes ces années, et nous sommes certains qu’ils continueront à nous soutenir. Dans un message qu’il nous a envoyé ces derniers jours, notre Maître formulait le vœu du renforcement de la coopération tuniso-italienne dans tous les domaines, espérant que l’Italie considère que la période punique fait partie de son histoire ancienne. Il ajoutait un point fondamental : l’arabité ifriqiyenne constitue un chapitre de son histoire médiévale.

À une époque marquée par les guerres, les fractures des valeurs et les mots souvent criés au lieu d’être écoutés, ses mots ainsi que ces jours nous rappellent que le changement commence par prendre soin, des autres, du monde, de nous-mêmes. Je vous souhaite des journées sereines, lumineuses et une véritable proximité.

Avec toute mon affection et mes meilleurs vœux.




La scoperta delle specificità del Cristianesimo delle origini in Sardegna: Raimondo Turtas

FEDE E CULTURA: IL MONDO DI RAIMONDO TURTAS

Storia, lingua e identità

Bitti 22 marzo 2025

La scoperta delle specificità del Cristianesimo delle origini in Sardegna: Raimondo Turtas

Cari amici,

m’immagino che Padre Turtas, se fosse ancora con noi, avrebbe seguito con spirito critico i nostri interventi, per quanto mi abbia sempre difeso da lui uno scudo, quello di essere l’allievo  prediletto della mia maestra bittese Giovanna Sotgiu. L’abbiamo ricordata in questa sala quindici anni fa nel convegno promosso da Claudio Farre e Giorgio Rusta – per il quale porto i saluti di Mustapha Khanoussi, ricordando l’accoglienza tumultuosa una mattina presto a Theborsouk (Accabakela, Baluba) Mi ha scritto oggi Giorgio: <<Bongiorno Professó, comente istates? A dolu mannu non bi resesso ca semus in s’Annossata, unu de sos locos de so coro de ziu remunnu, aprontanne sa esta de 25 de Martu>>.

Quando scomparve a Sassari nel 2018 a 87 anni di età lo ricordammo come Maestro rigoroso e severo, amico sincero, esponente di punta del movimento per l’ingresso della lingua sarda nella liturgia, secondo i canoni del Concilio Plenario Sardo e le allora recenti prescrizioni di Papa Francesco. La questione della lingua e della cultura della Sardegna è centrale per inquadrare la sua figura atipica e sarà approfondita nel corso di questa giornata: per Turtas la lingua sarda derivata direttamente dal latino volgare, con questo particolare carattere conservativo nel centro montano, può essere oggi una risorsa irrinunciabile e un simbolo della profondità della storia e della capacità di elaborazione anche poetica e musicale delle comunità locali. Oggi diamo per acquisto un radicamento territoriale di una lingua sarda che mantiene una freschezza e una capacità espressiva innanzi tutto in rapporto con un luogo, con una geografia, con un ambiente naturale e umano; abbiamo raggiunto il senso profondo di una ricchezza che deve essere difesa e coltivata nel rispetto di una storia lunga dove la lingua sarda è anche pensiero, riflessione, strumento per intendere la realtà, per entrare in comunicazione profonda con gli altri, per identificare un’appartenenza. Tra i ricordi più luminosi che conserviamo c’è la partecipazione alla Santa Messa per S’Annossada, nell’antico santuario di Bitti caro alla sua famiglia, dove Turtas pronunciava le sue straordinarie omelie in una lingua che ci emozionava per essere limpidamente legata al latino, in occasione della festa: un momento intenso per tornare commossi alle sue origini lontane. Eravamo arrivati in tanti da Sassari venticinque anni fa per ascoltarlo: quando finalmente cominciò l’omelia – ero anni che attendevo di sentirlo – fu interrotto da una turista sgarbata che diceva che il figlio non capiva una parola. Sappiamo tutti che Turtas non era un uomo che si faceva impressionare, e dunque continuò imperterrito in Sardo promettendo una traduzione in italiano alla fine della messa. Sorridevamo leggendo alla fine degli anni 80 i suoi interventi sull’Ortobene, quando sparava con la mitragliatrice sui vescovi per le lentezze del Concilio Plenario Sardo fin dall’insediamento in Ogliastra delle commissioni antepreparatorie per la Missa in limba, considerata essenziale per riconoscere uno specifico identitario. Terminato vent’anni dopo il lunghissimo Concilio effettivamente aperto solo nel 1992, la mitragliatrice fu imbracciata di nuovo dopo il 2001 per sparare ancora sui vescovi questa volta perché, alla rovescia, non davano attuazione ai decreti sinodali – pure prudentissimi – sul tema del rapporto tra l’universalità della chiesa di Dio all’inizio del terzo millennio e la dimensione locale. Conoscendo bene la proposta elaborata dal parroco di Bulzi don Francesco Tamponi, Turtas riteneva che il cammino verso la piena valorizzazione della lingua sarda presonera tra nuraghes e baddes soliànas (G.M. Dettori) – marginalizzata nel contesto religioso – sia stato segnato da numerosi ostacoli, non solo legati alla tradizione liturgica, ma anche da una visione di inferiorità culturale che ha accompagnato la lingua sarda, percepita come “minore” rispetto ad altre lingue. Del resto lo ha ribadito nei giorni scorsi ancora una volta la CEI. Turtas credeva positivamente all’identità del popolo sardo anche in campo religioso, apprezzava la fase sperimentale in atto per Sa die de Sa Sardigna in tema di Missa in limba; per riprendere categorie care a Bachisio Bandinu ha contribuito a costruire l’autostima dei Sardi e perfino arrvava ad ammettere che alcuni retaggi pagani (la superstizione e la magia, il concetto distorto di giustizia) potessero ancora sopravvivere in Sardegna e richiedessero dunque una chiara strategia locale fondata sulla coscienza critica e sulla riscrittura della storia senza una tesi preconcetta e una finalizzazione obbligata. Io arrivo anche a dire che forse non avrebbe apprezzato molti concetti astratti elaborati dagli antropologi e imprudentemente accolti in una delle ultime encicliche di Papa Francesco (Fratelli tutti 148) a proposito dell’esigenza del meticciato – un’espressione orrenda per il tempo che abitiamo.  Tanti episodi: la visita al nuraghe Loelle, a Su Romanzesu con Giosué Ligios, nella sua casa a Sassari in viale Dante, dove aveva cucinato per noi.

Del resto con molti di noi si era scontrato frontalmente, come in occasione delle celebrazioni per i 450 anni dell’Università volute dai nostri colleghi storici delle istituzioni, partendo da quel 1562 della nascita del collegio gesuitico, data che lui stesso aveva messo in copertina del volume dedicato alla Casa dell’Università presso la chiesa di San Giuseppe (La Casa dell’Università. La politica edilizia della Compagnia di Gesù nei decenni di formazione dell’Ateneo sassarese (1562-1632)): arrivavano Giorgio Napolitano e Gianfranco Fini e chiaramente la polemica interna rischiava di creare un imbarazzo che generosamente non volle suscitare, tacque e poi ribadì comunque che l’avvio dei corsi di Filosofia e Teologia era avvenuto solo nel 1612 e vent’anni dopo la trasformazione del Collegio in Università di diritto regio.. E aveva anche ironizzato sull’uso incrociato delle parole sigillo o di stemma che facevamo per richiamare i martiri Gavino e Gianuario di Turris Libisonis nel sigillo storico disegnato dal pubblicitario Gavino Sanna, che poi rettificammo di comune accordo.

Dunque non trattava temi locali, considerati da tanti inferiori o di nicchia: del resto le tappe della sua formazione sono davvero internazionali, dopo il Seminario di Cuglieri dove conobbe il caro Mons. Antonio F. Spada: Gallarate – presso l’Istituto filosofico Aloysianum tra il ’59 e il ’63, dove ottenne la Licenza in Filosofia, poi Lione – presso la Faculté de théologie, Fourvière – compiendo ricerche sulla storia della teologia medievale. Tra il 1965 e il 1969 studiò a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, nella Facoltà di Storia ecclesiastica, giovandosi del confronto con i più grandi maestri; infine dal 1967 risiedette a Londra presso l’Institute of Historical Research, dove si dedicò alla storia delle missioni protestanti inglesi dalla fine del secolo XVIII conseguendo nel 1972 il titolo di “doctor in Historia ecclesiastica”.Ho un mio ricordo – ho visto non errato – di una lunga missione in Madagascar prima di tornare in Sardegna.

Con questo incredibile retroterra culturale, nello stesso anno arrivava finalmente alla Facoltà di Magistero di Sassari appena costituita, poi di Lettere e Filosofia, inizialmente assistente incaricato di Storia Contemporanea, poi titolare di Storia moderna (1977) e di Storia della chiesa (1984). Sono convinto che proprio l’esperienza interazionale abbia pesato per guardare con occhi nuovi alla Sardegna, alla sua posizione nel Mediterraneo, al valore della cultura e dell’identità locale, alla necessità di una riforma degli studi che scoprisse strade nuove. Ecco la sua partecipazione ai Convegni de L’Africa Romana, come a Nuoro per il IX convegno del 1991 quando presentò una relazione sui rapporti tra Africa e Sardegna nell’epistolario di Gregorio Magno (509-604) oppure le note sul monachesimo in Sardegna fra Fulgenzio di Ruspe e Gregorio Magno sulla Rivista della storia della chiesa in Sardegna del 1987, la nascita delle prime diocesi ben prima di Costantino e i loro territori come per Sulci su Sandalion nel 1995. Il convegno su Eusebio curato da me con Giovanna Sotgiu e Natalino Spaccapelo nel 1996 dove parlò degli informatori sardi di Gregorio Magno. Tutti temi che avrebbero avviato approfondimenti da parte sua e dei suoi allievi, fino ai giorni nostri, con il prezioso spunto sulle provincie ecclesiastiche e i confini territoriali subprovinciali della Sardegna pre-giudicale. Basta sfogliare però il suo capolavoro, il volume del Giubileo (Storia della Chiesa in Sardegna. Dalle Origini al 2000, oltre mille pagine) per capire quanto fosse stata accurata le revisione critica delle fonti, la severità verso i falsari e la valutazione puntuale degli studi precedenti; con l’impegno di aggiornare periodicamente l’opera che costituisce anche per l’età antica un punto di vista essenziale, integrata col volume su Gregorio Magno di Tomasino Pinna del 1989. Non mi azzardo a parlare dei campi di sua diretta competenza, l’età medioevale e moderna. Dopo il pensionamento nel 2003 scrisse ancora su Gregorio Magno: La situazione politica e militare in Sardegna e Corsica secondo il Registrum epistolarum di Gregorio Magno del 2007;e sui Gesuiti: I Gesuiti in Sardegna. 450 anni di storia (1559-2009), del 2010. Alla fine, su incarico del Rettore, era impegnato nell’edizione di un imponente corpus documentario per la Storia dell’Università di Sassari e nella revisione del suo volume principale.

Il lettore coglie l’attenzione inusuale in un manuale di storia della chiesa per il rapporto tra la provincia romana e il Barbaricum, attenzione che era fondata sulle sue origini bittesi e sulla lunga riflessione critica, come quando ad Orune visitammo in gruppo gli scavi di Alessandro Teatini nella località alpestre di Sant’Efis, tra le polemiche con la Soprintendenza. Qui passava la strada direttissima Olbia Carales che toccava secondo l’Itinerario Antoniniano la stazione di Caput Thyrsi, a S di Buddusò: strada rifatta verso il 365 da un personaggio centrale come quel governatore Flavio Massimino che sappiamo da Ammiano Marcellino amico e sodale di un mago sardo che riusciva ad evocare i morti e, grazie ad essi, indovinare il futuro e compiere malefici: il padre del preside Flavio Massimino (che conosciamo attraverso i miliari barbaricini) aveva acquisito nel Barbaricum dacico la capacità di interpretare il volo e il canto degli uccelli, gli augurales alites e i cantus oscinum: proprio grazie a queste competenze ornitomantiche che gli provenivano dalla cultura barbarica di origine (carpico-gotica), suo padre aveva predetto al figlio Maximinus un futuro di grandi successi nella carriera, ma alla fine una morte per mano del boia. Cosa che avvenne realmente nell’età di Graziano, dopo l’uccisione del mago sardo che gli era stato amico. C’è davvero la cultura tradizionale della Sardegna interna, il mondo della magia, la devozione per Diana e Silvano, i demoni del bosco oscuro di Sorabile, l’attuale Fonni; le tabellae defixionum con le maledizioni, alcune in osso come a Sulci o in piombo come ad Olbia che cita i malos homines da ligare oppure ad Orosei dove è ripetuta per tre volte a parola nur(a)go (?), collegata forse con la parola di sostrato nurak, che ricorre sulla Campeda di Molaria o a Posada. Infine a Nulvi dove registriamo la triplice invocazione ad un dominus, il dio degli inferi, rogo: tutti cimeli (cofanetti di piombo scritti con all’interno delle ossa) che ci hanno conservato le maledizioni nei confronti dei nemici, i ladri, i malvagi, gli abigeatari. Sembra di trovare la Sardegna arcaica coi suoi problemi specifici e le sue virtrù descritta anche di recente da Bachisio Bandinu. Un quadro analogo alle defixiones è rappresentato dall’ostracon di Neapolis, dal santuario di Marsia, con l’invito al dio: «O Marsuas di Neapolis, rendi misero (?), muto e sordo Decimo (?) Ostilio Donato, per quanto tu possa rispondere all’uomo». Possiamo riferire ad uno stesso ambito culturale le pratiche oracolari, gli anatemi con l’invocazione a Cagliari del demone Abraxas (l’Anticristo indicato in col numerale greco 365), il culto dei morti, fino ad alcune pratiche magiche documentate nella età paleocristiana, quando operavano dei maléfici, indovini e stregoni capaci di gestire forze oscure e potenti (Fulgenzio, Epistol. XIII; Gregorio Magno, Ep., IX, 205). Coinvolti risultano anche esponenti della chiesa sarda, come il chierico Paolo in maleficiis deprehensus (Gregorio Magno, Ep. IV, 24). Possiamo aggiungere, ben distinto, il piombo di Cornus con l’invocazione greca a Salàmazaza legato a Mitra. Infine le invocazioni per respingere il demonio come quella con l’ordine di tenersi lontano dai corpi dei soldati della caserma del centurione Longino a Carales: +. / Hic abes a do/mino diabule + Oppure l’iscrizione di Tharros che augura la lebbra ai violatori della tomba prima del giorno del giudizio: Si [quis] / (h)anc sepultu[ram] ebertere bolu[erit] (h)abeat parte(m) c[um] Iuda et lebra[m] G(iezi). In un quadro sardo vorremmo collocare anche il richiamo minaccioso al giorno del giudizio di Porto Torres: —— / [— coniuro oppure adiuro] / per diem trem[endu]m iudicii [quo ?] / anima ventura [ut] nullus audea[t in] / sepultura mea [mole]stare ossa m[ea].

Se torniamo per un momento ad Orune, proprio gli scavi di Sant’Efis hanno squarciato un velo sul secolo successivo e restituito la moneta di Valentiniano III, con i resti della strada e la splendida lampada vitrea del Museo Nazionale Sanna con la scena di traditio legis: Cristo consegna la legge a 6 dei 12 apostoli inviati ad evangelizzare il mondo, giungendo dunque fino al Barbaricum della Sardinia. Oggetto che è quanto di più elegante e curato si possa immaginare per una chiesa sarda ancora alle origini, nel terribile momento del passaggio dal paganesimo al cristianesimo, quando secondo l’Agostino dell’omelia di Thignica recentemente riscoperta i fedeli erano ancora schiavi delle passioni pagane: Vos ante paucos annos pagani eratis, modo christiani estis, parentes vestri daemoniis serviebant. Così in Sardegna c’erano i provinciales cristiani che non servivano più i demoni e c’erano i barbari dell’interno, alcuni battezzati come l’Ospitone di età bizantina, anch’essi ormai aperti alla nuova religione.

Nel volume del Giubileo ci sono interamente queste premesse, se si pensa che Turtas è riuscito forse tra i primi a dare una sintesi della situazione sociale della Sardegna durante le persecuzioni utilizzando le nuove scoperte nell’atrio metropoli di San Gavino di Porto Torres: appare ora luminosamente la conoscenza delle Sacre scritture, riprese nelle nuove epigrafi, con questa rivalutazione della figura femminile come quella domina Flavia Cyriace che possedeva un patrimonio che volle lasciare ai poveri e non ai suoi eredi e con un ribaltamento rispetto all’Atilia Pomptilla pagana della Grotta delle vipere di Cagliari, perché qui non è la donna che offre la sua vita per la salvezza del marito, ma anzi è il marito Demeter che si augurava invecchiando di poter lasciare il suo spirito nelle braccia dell’amata (nam et ego optabam in manibus / tuis anans spiritum dare). Essa è casta, solerte guardiana, delle più belle doti ornata, ai poveri lascia ora ogni suo bene e non ai suoi eredi, in un periodo che è sicuramente il IV secolo, visto che successive sono le due iscrizioni datate con anno consolare al 395 (Musa) e al 415 (puer Victorinus fidelis).

Questa attenzione per i poveri in una provincia sottoviluppata come la Sardegna, dove la povertà doveva essere particolarmente diffusa, ci rimanda alla situazione sociale delle città in una terra caratterizzata da forti differenze sociali che tornano nell’epitafio scoperto proprio 25 anni fa di Matera: dopo la dedica iniziale pagana (Agli dei Mani), si esalta la fede cristiana di Matera, morta settantenne nel IV secolo e forse coinvolta nalla persecuzione dioclezianea. Lei che spesso il popolo considerò soccorritrice degli stranieri. Con il fulgido esempio della sua vita terrena dimostrò anche coraggiosamente alla sua stessa gente che tutti considerava come figli. Non ebbe paura della morte violenta ma superò ogni prova (confidando) in Cristo; a gloria di lei la luce risplenderà con un’aureola perenne; lei che Cristo stesso aveva destinato come genitrice delle madri e degli indigenti. Per ciò il consorte racconta tali cose della dolce compagna. Dove notevole è la distinzione tra il populus dei credenti e il vulgus dei bisognosi.

Sono significativi i riferimenti all’attività caritativa della defunta, indirizzata a favore dei peregrini, delle matres e forse degli orfani, degli inopes, in generale erga omnes: l’attributo auxilium peregrinorum trova un significativo confronto ancora in Sardegna nell’epitafio di Secundus a Olbia, pater orfanorum, inopum refugium, peregrinorum fautor, espressioni che certo alludono alle virtù del perfetto cristiano, ma che hanno fatto pensare ad uno xenodochium, ad un ospizio per stranieri, ad una struttura permanente installata in un’epoca così antica e gestita da Secundus, come sembrano ricordare la moglie Paulina ed il figlio Ianuarius. Il termine pater orfanorum è evidentemente ripreso dal salmo 68: 5-6, perché Dio è Padre degli orfani e difensore delle vedove nella sua santa dimora. L’espressione auxilium peregrinorum si confronta bene – sia pure molti anni dopo – von gli attributi di un Karissimus, amicorum omnium pr(a)estator bonus, pauperum mandatis serviens, sepolto a Tharros nel IV secolo.

Infineprezioso è il riferimento alle opere benefiche tanti esponenti dell’aristocrazia locale a vantaggio degli inopes o dei pauperes, tema che sembra richiamare un fervido impegno di carità cristiana, in particolare verso i mendicanti, in una società caratterizzata da profonde divisioni sociali. In tutti questi casi ci sarebbero elementi per pensare alla parallela esistenza di personaggi inseriti nella classe sociale dei ricchi possessores; gli epitafi di Tharros e di Olbia sembrano conservare un «emblematico elemento di continuità: l’immagine del ricco proprietario, uomo di grande integrità morale, padre degli orfani, rifugio dei poveri, aiuto dei pellegrini». Anche il caso di F(lavia) Cyriace a Turris Libisonis con le espressioni rem suam lpauperibus] linquit nec quidem ipsa po[steris suisl (?) richiama all’ opposizione «povertà in fatto (di) ricchezze vs ricchezza in fatto di costumi», che ha profonde radici nella cultura pagana. Del resto dall’epistolario di Gregorio Magno sappiamo che a Turris in età bizantina il vescovo Mariniano, arrivando fino all’ esarca d’Africa Gennadio, avrebbe dovuto difendere contro il dux Sardiniae Theodorus i poveri della sua Chiesa, in tutti i modi vessati e afflitti da svariate usure: civitatis suae pauperes omnino vexari et commodalibus affligi dispendiis. Matera fu esponente di spicco della comunità turritana, una ricca proprietaria, un’aristocratica sicuramente in grado di far fronte con i propri mezzi ad un’azione caritativa a favore di un ambiente sociale degradato, che avrà avuto anche precisi costi economici.

Tutti temi che tornano con immediata semplicità nel volume di Turtas, che qualche anno dopo si era mostrato possibilista sulla possibilità che l’iscrizione di Adeodata conservi traccia della persecuziome dioclezianea, se la vergine immacolata che porta lo stesso nome del figlio di Agostino è stata a sanctis marturibus suscepta, nel senso che è stata sepolta a Monte Agellu presso la tomba di Gavino, Proto e Gianuario; e aveva anche negato che l’antichissima espressione turritana potesse essere collegata con la tarda e attuale liturgia esequiale In paradisum deducant te angeli, in tuo adventu suscipiant te martyres et perducant te in civitatem Sancatam Jerusalem.

Infine il tema della risurrezione come a Cagliari (non ad Olmedo) per il diacono Silvio che aspetta nella tomba che, grazie alla potenza di Cristo, la sua carne possa vivere di nuovo ed attende di vedere le gioie dell’ultima luce, mentre Cristo finalmente potrà regnare in eterno (Hic situs Silbius ecle/siae sanctae minister / expectat Christi ope / rursus sua vivere carne / et gaudia lucis nobae / ipso dominante videre. / Vixit ann(is) XXXIII d(epositus) in pace nonis / XP April(is) XP).

Se portiamo avanti il ragionamento di Padre Turtas, le categorie difese dai cristiani sardi che guardano con preoccupazione ai problemi della società di una provincia povera e sottosviluppata con forti differenze sociali sono nell’ordine: i poveri, gli orfani, le vedove, i ciechi, i prigionieri, gli oppressi, gli stranieri. Quanto di queste espressioni è riferito alla situazione reale della provincia Sardegna e quanto deriva dalle notissime fonti bibliche ed evangeliche ?

I poveri: Apri la bocca e giudica con equità e rendi giustizia all’infelice e al povero (Proverbi, 31,9).

Perché soccorrevo il povero che chiedeva aiuto, l’orfano che ne era privo. La benedizione del morente scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia (Giobbe, 20, 12-13).

Dio salva il misero dalla spada e il povero dalla mano del potente (Giobbe 5:15).

Dio non porta rispetto all’apparenza dei grandi, non considera il ricco più del povero, poiché sono tutti opera delle sue mani (Giobbe 34, 17).

E Cristo nel discorso delle beatitudini: Gesù, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: “Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete (Luca 6, 20-21).

Dio ha scelto quelli che sono poveri secondo il mondo perché sono ricchi in fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano (Giacomo 2:5).

I ciechi e i prigionieri Lo spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi (Luca 4:18).

Gli orfani: Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, la mia collera si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani (Esodo 22, 21:23).

Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova (Isaia 1,17).

Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo (Giacomo 1:27).

Onora le vedove,quelle che sono veramente vedove. 1, Timoteo 5:3

Gli stranieri: il latino usa il termine peregrinus, che è stato inteso in passato con riferimento alle folle che visitavano le tombe dei martiri. In realtà il termine è generico ed indica gli stranieri di passaggio anche i non credenti, i forestieri, gli immigrati, gli esuli, le persone sradicate dalla propria terra a causa di guerre o carestie:

Ecco ciò che dice il Signore degli eserciti: Praticate la giustizia e la fedeltà; esercitate la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodate la vedova, l’orfano, il pellegrino, il misero e nessuno nel cuore trami il male contro il proprio fratello (Zaccaria 7, 9-10).

Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova,ma sconvolge le vie degli empi (Salmo 146, 9).

Poiché, se veramente emenderete la vostra condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste sentenze fra un uomo e il suo avversario; se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia altri dei, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre (Geremia 7, 5-7).

Del resto Gesù si identifica con lo straniero bisognoso: Ero forestiero e mi avete ospitato… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto ame (Matteo 25)

Infine, permettetemi di ricordare come le recentissime scoperte avvenute in molte località della Sardegna dopo la scomparsa di Padre Turtas hanno confermato molte sue intuizioni: una tra tutte la dignità e la antichità della chiesa sarda, come risulta oltre che dalla posizione del vescovo di Carales al concilio di Arles sotto Costantino, dall’insegnamento di Eusebio poi primo vescovo di Vercelli e del Piemonte pagano e di Lucifero di Carales, dal ruolo dei vescovi arrivati con Fulgenzio di Ruspe in età vandalica, dall’arrivo delle reliquie di Sant’Agostino di Ippona; ancora dalla conoscenza delle Scritture come abbiamo dimostrato e nel testo caralitano del Miserere e di altre preghiere; il tema del giorno del giudizio, della resurrezione, della luce nuova di Cristo; infine dalla dignità della donna nella chiesa sarda, come per Flavia Cyriace, per le Famulae Dei non solo Imbenia, per le monache di San Lorenzo a Carales con l’Abatissa Redempta, del monastero di San Gavino e Lussorio, di S. Erma, di San Vito, quest’ultimo istituito da una Vitula che potrebbe essere identificata con una omonima nobile maura, ricordata dal poeta Draconzio per il matrimonio con Iohannes, con l’auspicio che l’erba sardonia del marito possa unirsi amorevolmente con le roselline di Sitifis. Oggi ad esempio dal testo scritto sul pavimento della villa dei mosaici marini di Porto Torres alla foce del Riu Mannu con la frase agostiniana (IX, 10,26) Deogratias qui praestitiit vitam, che apre uno scenario di incredibile complessità allontanandoci dal Monte Agellu.Del resto gli scavi di Orune avevano già messo in discussione un luogo comune, quello della scarsa evangelizzazione delle campagne sarde, retoricamente evocata da Gregorio Magno.

Credo che oggi dobbiamo dire che con Turtas abbiamo perso un Maestro, uno studioso grande, capace di leggere la realtà della Chiesa in Sardegna con occhio critico ma anche con amore e dedizione, senza rinunciare alla ricchezza della ritualità tradizionale e dell’associazionismo cattolico in tutta l’isola. Per me personalmente è stato punto di riferimento costante, che non lesinava critiche severe ma anche era capace di stimoli e suggerimenti, con amicizia e affetto. Attilio Mastino




Introduzione, “Epigraphica”, LXXXVI, 2024, L’ERMA di Bretschneider, pp. 9-11

Introduzione

È per me un piacere e un onore presentare questo LXXXVI volume di “Epigraphica, periodico internazionale di Epigrafia” fondato da Aristide Calderini, con il sottotitolo ini­ziale di “Rivista italiana di Epigrafia”, dopo il congresso di Amsterdam (il primo Congres­so epigrafico internazionale) in quel terribile 1938, editore Ceschina di Milano. Questo volume, datato al giugno 2024 viene pubblicato per la prima volta dal prestigioso Edito­re L’ERMA di Bretschneider di Roma, una nostra vecchia e apprezzata conoscenza. A par­tire dalla prima registrazione del 15 marzo 1974 nr. 586, la proprietà era stata assunta dai Fratelli Lega in data 27 ottobre 1999, due anni dopo Mirta Tanesini era diventata rappre­sentante legale. Era stata Angela Donati a chiamarmi a dirigere con lei dal 2010 la rivista assieme a Maria Bollini; otto anni dopo sono subentrato come direttore, all’indomani del­la sua scomparsa avvenuta il 13 ottobre 2018, anche per volontà dell’Editore F.lli Lega e della Famiglia: e ciò dal numero LXXXI, con registrazione al Tribunale di Ravenna del I luglio 2019, con l’aiuto di Maria Bollini. Quando il proprietario Fratelli Lega ha ceduto la proprietà della testata con generosità e amicizia, si è arrivati a chiedere la cancellazio­ne dal Registro Stampa del Tribunale di Ravenna in data 22 marzo 2022; dal giorno suc­cessivo con provvedimento nr. 797/2022 (Registro Stampa nr. 1/2022) la rivista è stata registrata presso il Tribunale di Sassari; l’editore Carocci ha curato la pubblicazione dei numeri LXXXIV e LXXXV, 2022-23 e di alcuni numeri della collana:

49. C. Cenati, Miles in urbe. Identità e autorappresentazione nelle iscrizioni dei soldati di origine danubiana e balcanica a Roma, Carocci 2022.

50. E. Ortiz de Urbina, Agrupaciones cívicas, intracívicas y no cívicas en Hispania citerior altomperiale, Carocci Editore, Roma 2024.

51. F. Cenerini, E. Filippini, M. Mongardi, D. Rigato (cur.), L’iscrizione come strumento di integrazione culturale nella società romana, Bertinoro 28-30 ottobre 2021, Colloqui Borghesi, studi in ricordo di Angela Donati, Carocci Editore, Roma 2023.

52. S. Aounallah, F. Hurlet, P. Ruggeri (cur.), L’Africa antica dall’età repubblicana ai Giulio-Claudii (L’Africa Romana XXII), Carocci Editore, Roma 2024.

Cambia ora il proprietario, il rappresentante legale, l’Editore, la Tipografia, ma “Epi­graphica” mantiene pienamente tutte le caratteristiche di internazionalità, di scientificità, di un approccio volto allo studio delle iscrizioni latine e greche e alla problematica dell’epigrafia antica: il nostro comune proposito è quello di procedere ad un ampio rinnova­mento e ad un rilancio della Rivista e della Collana “Epigrafia e Antichità”, ritrovando un patto di collaborazione tra le Università di Bologna, di Sassari, di tante altre Scuole e di tante altre realtà del mondo che viviamo, con un profondo rinnovamento del Comitato scientifico e del Comitato di redazione, anche per rispondere al nuovo “Regolamento sui criteri di classificazione delle Riviste ai fini dell’Abilitazione Scientifica Nazionale,” pur esaltando ulteriormente la dimensione internazionale della rivista. Antonio M. Corda e Paola Ruggeri sono i nuovi vice direttori.

Voglio rinnovare il più vivo apprezzamento per l’azione svolta per cinquanta anni, dai nostri Editori Fratelli Lega (in particolare negli ultimi tempi da Vittorio Lega) e per due anni da Carocci, per assicurare la regolare uscita di Epigraphica, con questi volumi pieni di novità e di sorprese; gli ultimi numeri della rivista sono sotto gli occhi di tutti, con un prestigio scientifico e un orizzonte che desideriamo ancora allargare, facendo tutti gli sforzi possibili per mantenere standard qualitativi alti, soprattutto per proseguire un ser­vizio a favore degli specialisti più determinati ad indagare il mondo antico con un ap­proccio originale e non convenzionale, con la capacità di entrare in sintonia con realtà tanto complesse, col desiderio di applicare la critica testuale a documenti talora fram­mentari, ma che hanno il vantaggio di collegarci al passato senza intermediazioni, con tante prospettive inattese, formulando mille domande alle quali non sempre è possibile dare delle risposte certe. Il nuovo Editore L’ERMA di Bretschneider, al quale siamo dav­vero grati, preannuncia una profonda riorganizzazione della Rivista e della Collana d’in­tesa con la proprietà a iniziare da questo 86° volume della rivista e dal 53° volume della collana “Epigrafia e antichità”. Negli ultimi mesi sono stati resi accessibili gratuitamente al pubblico dei lettori in PDF sul sito https://www.epigraphica.it/volumi/ tutti i numeri della rivista “Epigraphica” fino al numero LXXXIII, 2021: un grande sforzo organizzati­vo che è stato possibile grazie alla redazione e agli Editori.

Lasciatemi però ricordare ancora una volta il debito che abbiamo contratto nei con­fronti di Giancarlo Susini e Angela Donati, la loro passione, la loro generosità, la loro di­sponibilità senza uguali, il magistero del loro insegnamento, la loro amicizia, che in qual­che modo continua con le famiglie e gli allievi. Pensiamo che entrambi avrebbero gioito con noi per l’uscita di questo 86° volume di Epigraphica che arriva ad oltre 500 pagine con gli interventi di oltre 50 autori provenienti da tanti paesi diversi. In 40 articoli, 7 schede e notizie, alcune recensioni, le consuete Nouvelles Aiegl firmate dalla Presidente Silvia Orlandi e dalla Segretaria Generale Camilla Campedelli.

Vorremmo dire grazie agli autori, ai membri del Comitato scientifico e del Comitato di redazione, ai tanti revisori anonimi; insieme esprimere l’ammirazione per le molte im­prese scientifiche di Università, Soprintendenze, Centri di ricerca, Deputazioni di storia patria, istituzioni che hanno preceduto e reso possibili questi interventi in Italia ma in tutto il Mediterraneo, fino all’Africa, alla Turchia, al Portogallo, dall’età repubblicana fino al tardo impero: la storia degli studi a partire dal ’500, scavi, indagini in depositi, archivi, musei come il Museo Lapidario Maffeiano o il Museo di Alessandria o il Museo di Efeso, collezioni private, biblioteche, attentissime verifiche filologiche ed epigrafiche, fondate su un metodo che condividiamo tutti, quello dell’autopsia dei documenti spesso disper­si, della ricerca dei testi collocati in collezioni o come le iscrizioni rupestri incatenate ad un territorio, ad un paesaggio e ad un ambiente; con l’utilizzo delle nuove tecnologie, an­che per lo studio dell’instrumentum; riaffermiamo la responsabilità dei singoli studiosi nello stabilire il testo, nel colmare le lacune, nel proporre confronti, con una maggiore o minore capacità di collegare spunti, idee, prospettive di ricerca. Sentiamo tutti la neces­sità di avere più rispetto per la complessità della storia senza rinunciare a stabilire connes­sioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizzazione del passato, per comprendere e spiegare: per usare le parole di Marco Tangheroni, fondamentale è il concetto che l’in­quietudine sul proprio mestiere debba accompagnare sempre gli storici e gli epigrafisti che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi. Con un metodo che ha ormai caratteristiche di piena scientificità e che rende sempre più l’epigrafia una disci­plina incardinata anche nell’ambito delle scienze sperimentali, per quanto radicata nelle scienze umanistiche. Oggi, raccogliendo gli stati d’animo di tutti, desidero riaffermare che siamo onorati per l’impegno degli autori, per la novità dei risultati con l’imponente materiale inedito che viene presentato in questa sede, per l’attenzione al tema della geo­grafia nella storia, per il rapporto tra epigrafia, topografia, archeologia, tra mondo greco e mondo romano. Sentiamo che le nuove generazioni di studiosi fanno entrare aria fresa ed irrompono con le loro mille curiosità e mille passioni: è un motivo di gioia e di spe­ranza per un futuro fondato sul rispetto per le tradizioni culturali e che metta al centro una collaborazione internazionale consapevole che tutti dobbiamo costruire, come direb­be Giorgio La Pira, la “Pace inevitabile”.

Roma-Bologna-Sassari, Pasqua 2024.

Attilio Mastino

Direttore di “Epigraphica”




Antonio Simon Mossa, l’architetto delle libertà, secondo Luciano Deriu

Il poeta delle Nazionalità, in L. Deriu, Antonio Simon Mossa, L’architetto delle Libertà, Carlo Delfino editore, Sassari 2024, pp. 13-22.

Questa biografia di Antonio Simon Mossa (Padova 1916 – Sassari 1971), scritta da Luciano Deriu sarà una meravigliosa sorpresa per i lettori: rappresenta un passo in avanti decisivo nella conoscenza di una delle figure centrali della Sardegna del secondo dopoguerra, indaga su tanti versanti l’azione di un democratico visionario, che è stato capace di guardare la nostra terra con uno sguardo non convenzionale, aperto, originale, creativo: ora emerge la coerenza di una vita intera spesa con obiettivi alti e positivi, con l’utilizzo dei linguaggi più diversi, perfino della musica. Finalmente ci accorgiamo quante siano le cose che gli dobbiamo, quanto la Sardegna di oggi sia stata cambiata in profondità, più di quanto pensassimo. Del resto lo avevamo iniziato a dimostrare con gli studi, le mostre e i volumi voluti dall’Isre, dalla Società Umanitaria Cineteca Sarda (con l’Archivio Simon Mossa) e dagli Architetti di Mastros negli ultimi anni, col sostegno della famiglia. Ma sempre con un angolo visuale parziale, che ora diventa globale e davvero lineare e coerente.

La scrittura serrata e la narrativa veloce contribuiscono a creare una tensione, a suscitare un interesse, a preannunciare mille piccole scoperte, innanzi tutto sugli esordi e la passione per il cinema, in parallelo con la grande storia e l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940): la collaborazione a Firenze con il più giovane Fiorenzo Serra (Porto Torres 1921-Sassari 2005) per il documentario “L’Armata grigia” o per “La barca sul fiume”, per il volume di teoria del cinema Praxis und kino prodigiosamente riemerso negli ultimi anni dagli archivi di famiglia e ora ripubblicato da Rubettino a cura di Andrea Mariani. Infine la sceneggiatura per il film vincitore dei Littoriali nazionali di Bologna del 1940, “Vento di terra”, una storia di pesca, di tradimenti e d’amore, ambienta in un porto di una città che assomiglia molto ad Alghero, con le sue fortificazioni spagnole, con le sue tradizioni marinare, col suo corallo, con il suo scoglio all’ingresso della rada; il documentario di guerra in Corsica. Infine l’aiuto alla regia del film “Bengasi”, girato a Roma da Augusto Genina nel 1942, proprio al termine dell’esperienza coloniale italiana in Libia; o del film “La donna del peccato” di Harry Hasso. Un osservatore superficiale potrebbe collocare questa ricca esperienza nel solco della morente cinematografia fascista, ma le cose sono ben più complesse come testimonia la partenza per Holliwood di Viveca Lindfors, moglie del regista tedesco Hasso e la nascita della società di produzione Sardinia Pictures che anche nel titolo avrebbe voluto segnare la svolta verso una cultura nuova, quella statunitense, che ben presto però rischiava di diventare quasi una forma inaccettabile e deteriore di colonialismo imperiale: del resto non ci sarà un seguito, perché questo capitolo cinematografico fu ben presto accantonato; fu la laurea in architettura conseguita a Firenze nel 1941 con una tesi su “Un progetto di villaggio rurale nella zona di Ottava in Sardegna” (sempre pensando a Fertilia e alla storia della pertica della colonia di Cesare Turris Libisonis) ad allontanare definitivamente Simon Mossa dalle sue passioni giovanili e ad aprirgli un mondo nuovo, al fianco – lo scopriamo con questo libro – di un personaggio carismatico come Vico Mossa, che ora ritroviamo a tutto tondo, soprattutto come indagatore della ruralità architettonica della Sardegna, il tema cardine per capire Simon Mossa come Architetto.

Ad ereditare parte di quelle scelte iniziali per il cinema fu l’amico Fiorenzo Serra, che ci ha commosso con il suo capolavoro recentemente riscoperto, il lungometraggio L’ultimo pugno di terra (vincitore ancora a Firenze del Festival dei popoli nel 1966), col tentativo di raccontare la Sardegna con la sua transumanza degli uomini, in parallelo con la transumanza delle pecore: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta. La cinepresa di Fiorenzo coglie il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra. Il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta, eco evidente del volume di Antonio Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico.

Simon Mossa sognava una Sardegna diversa, esito di eredità lontane come avevano insegnato Emilio Lussu e Camillo Bellieni, ma anche fatta di eleganza, di gusto, di linguaggi plurali, di incontri: quando si ricompone la famiglia Simon ad Alghero inizia una storia nuova che oggi ci consente di dire che egli è stato anche un politico, un poeta, uno scrittore, un ideologo e nei suoi ultimi decenni esponente dell’indipendentismo sardo, all’interno di una visione internazionale, pluralista, aperta a nuovi orizzonti mediterranei, consapevole del valore della diversità di una cultura – quella sarda – che rappresenta una risorsa per il futuro. La collaborazione con “La riscossa”, con “Il solco”, con “La gazzetta sassarese”, con “La Nuova Sardegna”, con Radio Sardegna libera al fianco di Amerigo Gomez, segna l’ingresso su un versante, quello sardista, che però poggia su una scelta ben più ampia: quella a favore di tutti i popoli, in particolare delle minoranze perseguitate del Mediterraneo, da Andorra alla Barcellona antifranchista, dai Baschi spagnoli o francesi ai Bretoni, agli Irlandesi, ai Gallesi, agli Scozzesi, ai Ladini, ai Corsi, ai Sardi, ai Catalani. Sono i popoli giovani, destinati a federarsi e a scrivere il futuro comune, che si ribellano al genocidio culturale, alla distruzione etnica; da qui i contatti con l’ETA, l’Euskadi, il Partito Nazionalista Basco.

Già per Giovanni Lilliu Simon Mossa arrivò ad essere il poeta della nazionalità, uno dei padri dell’autonomia, in un quadro multiculturale, anche se oggi colpisce la totale assenza di contati con la riva sud del Mediterraneo, dove si annidava – secondo Lilliu – quel “Terzo Mondo” che si era lasciato incantare dal <<verbalismo rivoluzionario di Gheddafi in Libia>>, un modo per nascondere <<il volto feudale-petrolifero del paese>>. Ma questa assenza di attenzione per il Magreb arabo è forse solo una bizzarria: il mio Maestro era orgoglioso delle sue origini contadine e leggeva la sua esperienza in continuità ideale con la storia della sua famiglia originaria di Barumini, con generazioni e generazioni di antenati che lo riportavano sempre più indietro, fino agli eroici costruttori del nuraghe: continuità che era innanzi tutto un persistente legame affettivo con gli spazi, con i monumenti, con il territorio, con l’ambiente fisico che contribuiva a costruire un’identità. Il tema dell’identità del resto era centrale, un’identità non fossile, ma aperta al nuovo, non digiuna del moderno, culturalmente e storicamente dinamica. Un tema oggi discusso e frainteso con pedanteria, ma che continua ad avere una sua prepotente vitalità per interpretare il mondo che viviamo.

Simon Mossa politicamente era strettamente legato a quel Pietrino Mastino che con Emilio Lussu e Camillo Bellieni fu il fondatore del Partito Sardo (eppure avrebbe contribuito alla sua espulsione dal partito nel 1967, a Cagliari, al momento della vittoria dell’eresia simoniana e in qualche modo della corrente indipendentista): egli era interessato a riscoprire le origini rivoluzionarie del PSd’Az, il suo carattere di massa, in una prospettiva di stato repubblicano italiano federalista, tendenzialmente proteso verso l’autonomia dell’Isola. Infine la denuncia – davvero incredibilmente precoce – contro l’<<imbroglio della chimica>> a Ottana e nella altre <<case del petrolio>>, nei poli chimici osannati da tutte le altre forze politiche asservite all’industria pesante, in particolare sul Tirso.

Simon Mossa fin dal 1961 era stato premiato al Premio Città di Ozieri e poi era diventato anche in questo campo un protagonista, aveva fatto parte della Giuria del Premio, anticipando la scelta – davvero significativa – che ha determinato la nuova dimensione per il Premio, quella di considerare il catalano (con il turritano, il gallurese, il tabarchino) come una delle lingue della Sardegna. Ma innanzi tutto la lingua sarda, che come aveva scritto Antonio Gramsci a Teresina nel 1927 è una risorsa in più, uno strumento per capire il mondo: << Spero che [Franco] lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispia­ceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse libe­ramente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambi­ni. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è pos­sibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche fra­si e parole delle vostre conversazioni con lui, pura­mente infantile; egli non avrà contatto con l’ambien­te generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti racco­mando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontanea­mente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro […]>>.

Dunque il sardismo di Simon Mossa, l’amicizia con Michele Columbu, con Giovanni Battista Columbu (ricordo nel 1965 a Bosa il Primo convegno sulla lingua e la cultura della Sardegna), Giovanni Battista Melis (per le elezioni a Porto Torres), Mario Melis, la nascita del Movimento Indipendentista Rivoluzionario Sardo, la visione collettivista e il socialismo progressista nei commenti di Fidel, con un richiamo sorprendente alle politiche antiamericane di Fidel Castro. La consapevolezza del ritardo storico della Sardegna, della sopravvivenza del feudalesimo nelle campagne. L’attenzione delle Questure e dei Servizi Segreti, fino all’incontro con Giangiacomo Feltrinelli sull’Ortobene, per un accordo coi Gruppi d’Azione Partigiana, senza però concessioni alla violenza. Eppure la totale chiusura sulla prospettiva della nascita del Parco Nazionale del Gennargentu, all’indomani di Pratobello, considerata <<una provocazione colonialista>>, denunciata sui murales di Orgosolo, in particolare da Francesco Del Casino.

Giovanni Lilliu ammetteva di aver ricevuto molte suggestioni dall’architetto algherese, come testimoniano gli articoli su La Nuova Sardegna pubblicati nel 1973 sotto il titolo “Su Antonio Simon Mossa, Un ricordo lontano”: due anni dopo la morte dell’architetto, Lilliu presentava un solo ricordo personale, un incontro fugace in Sassari, come “per un incantesimo”, <<nella umbertina piazza d’Italia, allora “salotto” della città “contadina”>>. I due discussero di archeologia nuragica e di colonialismo romano; Simon Mossa sembrò all’archeologo davvero distante dalle passioni fredde e disincantate <<della vecchiaia dei nostri partiti politici>>. Dunque un eroe romantico di un partito giovane; nella concezione che Simon Mossa aveva del suo Partito Sardo c’era una carica di utopia commovente e trascinatrice, una tensione intellettuale di apostolo, che ne faceva una sorta di “nuovo profeta”, verso la nuova “terra promessa” per il Popolo Sardo. Dunque la teoria di un Partito Sardo volontaristico, disinteressato, intransigente. Negli ultimi scritti su Sardegna libera del 1971 Simon Mossa precisa meglio l’intuizione lussiana del carattere universale dell’autonomismo sardista, coinvolgendo idealmente il movimento di riscatto dei Sardi in quello mondiale della liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo. In questo modo la rivoluzione sarda per l’indipendenza e l’autodeterminazione avrebbe significato non tanto l’emancipazione economica e sociale di una classe (il proletariato): l’obiettivo era quello di rendere l’intero popolo sardo – pastori e contadini soprattutto – il lievito e lo strumento, oltre che il fine della lotta contro l’oppressione statale. Del resto la tesi di Simon Mossa legava la comunità etnica sarda alle comunità etniche del c.d. terzo mondo europeo. Lilliu comprendeva la collera di Simon Mossa, la sua disperata risoluzione che non restasse altra via che quella della “rivoluzione” e dell’insurrezione armata. Opzione quest’ultima che riteneva pericolosa in un momento come quello che l’Italia stava vivendo negli anni 70, mentre forze politiche di destra <<amoreggiavano per restituire alla Nazione governi forti di blocco d’ordine>>. Da qui l’esigenza di un’azione della Regione verso una modifica della Costituzione per via democratica, con più potere e sovranità alle periferie. In realtà prima di morire Simon Mossa voleva denunciare la morte del popolo sardo, della sua cultura, della sua lingua, del suo patrimonio morale, delle sue stesse caratteristiche fisiche. In questo contrasto finale fondato sulla sincerità, Lilliu proponeva un manifesto di tutti i Sardi per un’alleanza che li portasse ad operare insieme per il rifiorimento della loro piccola nazione.

Simon Mossa coltivava il mito di una Sardegna un tempo bellissima, ricca di prodotti, abitata dalle ninfe e dagli dei del mare come a Capo Caccia e nella Grotta di Nettuno, il finis terrae dell’Occidente sardo: qui l’architetto progettò e realizzò l’Escala del Cabirol coi suoi 654 gradini, proprio in faccia alla grande Barcellona. La compagnia di Simon Mossa era quanto meno composita: la famiglia, la sposa Rina Altea, i figli Italo, Pepita, Annamaria, Juliana, Pietro; la politica, con i difficili rapporti con il Partito Sardo d’Azione del gruppo “Sardegna libera”, il giovane Giampiero Marras; lo studio con gli ingegneri Cordella e Grixoni e Pinuccio Bertolu, col ceramista Giuseppe Silecchia, con Filippo Figari, ripensando L’Alguer, “la città a brandelli” da ricucire prima che esplodesse il turismo di massa, salvando la lingua e la cultura catalana: temi approfonditi con Rafael Catardi, Rafael Sari, Antonella e Mario Salvietti del Centre d’Estudis Algueresos (analogo all’Institut d’Estudis Catalans), un luogo di incontro anche per tanti perseguitati dal Franchismo, fuoriusciti che si vedevano abitualmente a Prada sui Pirenei francesi.

Il viaggio della nave Virginia de Charruca (25 agosto 1960) carica di cittadini catalani provenienti da Valencia, da Barcellona, dalle Baleari, dai Pirenei, dai paesi valenzani, da Perpignan non è stata solo un’opportunità turistica, ma la tappa di una strategia politica che viene esplicitata nella rivista ispirata a quella degli esiliati catalani, “Reinaxença Nova”. E poi i Jocs Florals, la gara poetica di origini trecentesche vietata dal Franchismo, che fu trionfalmente celebrata il 10 settembre 1961 al Teatro Selva di Alghero. Soprattutto l’amicizia con Jordi Pujol i Soley, il sovversivo che Simon Mossa avrebbe tentato di visitare nel carcere del Torrero e poi a Girona (io stesso anni dopo l’avrei conosciuto per un’onorificenza a lui concessa dalla rete dei Rettori delle Università Catalane della quale ho fatto parte).

Da queste premesse si sarebbero sviluppate tante occasioni successive, fino all’adesione dell’Università di Sassari alla Xarxa Vives d’Universitats, alla partecipazione a Prada dell’Universitat Catalana d’Estiu (Vice Rettore Carlo Sechi), all’istituzione di una cattedra di Lingua catalana nella Facoltà di Lettere e Filosofia e alla nascita della Facoltà di Architettura Mediterranea di Alghero orientata al Progetto e voluta da Giovanni Maciocco, Giovanni Lobrano, Silvano Tagliagambe, Raimondo Zucca, Alessandro Maida, oggi Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica, decentrato nella splendida cornice delle fortificazioni medioevali della città catalana di L’Alguer: una città che aderisce alla rete delle città storiche del Mediterraneo. Mi ha sorpreso la controversa conferenza svolta da Simon Mossa a Valencia su “Arquitectos y Arquitectura en Cerdena” nel dicembre 1962: è come se il maestro algherese avesse anticipato di trent’anni i nostri urbanisti della Provincia di Nuoro rispetto al volume su Archeologie e ambiente naturale. Prospettive di cooperazione tra le autonomie locali nel Sud d’Europa, a cura di A. Mastino, Ilisso, Nuoro 1993, con gli articoli sull’urbanistica tradizionale e l’ambiente di Valencia firmati da Gianni Bacchetta e Manuel Costa per la Provincia di Nuoro.

Ci sono dunque tante linee che si incontrano in modo coerente, ma sorprendono i tempi, le anticipazioni, la maturità dello studioso e del politico: tornare a Simon Mossa significa riprendere le battaglie per le lingue minoritarie, per il catalano, una lingua tagliata nel buio della dittatura; ritrovare il desiderio di un rapporto forte col vasto mondo catalano. Come non pensare al nonno di Pasqual Maragall i Mira (laureato ad honorem a Sassari il 5 dicembre 2011), il sensibile poeta Joan Maragall (amico di Jordi Pujol per aver scritto Il canto della bandiera catalana), nell’Oda nova a Barcelona, coi versi che a me sembrano un simbolo dei suoi rapporti con la Sardegna e testimoniano un legame profondo tra le due sponde, Alghero e Barcellona veicolato forse dalle onde del mare:

Oh! detura’t d’un punt! Mira el mar, Barcelona,

com té faixa de blau fins al baix horitzó,

els poblets blanquejant tot al llarg de la costa,

que s’en van plens de sol vorejant la blavor.

Ora occorre fermarsi e guadare il mare, come una cintura d’azzurro all’orizzonte basso, i villaggi imbiancati lungo tutta la costa, in quella parte piena di sole che confina con l’azzurro. Pasqual Maragall avrebbe trasformato in realtà il sogno di suo nonno, avrebbe aperto Barcellona al mare in occasione del nuovo disegno urbanistico per la grande Olimpiade del 1992 nel suo mandato di alcalde. Così vorremmo che sempre più diventasse Alghero e la sua straordinaria passeggiata lungo il porto, una nuova Rambla, là dove la terra finisce e il mare comincia, con il sole che offre incredibili tramonti sul Mare Sardum. Alghero, la Piccola Barcellona, ha anticipato di qualche decennio quello che sarebbe stato il percorso della capitale del mondo catalano: soprattutto grazie all’architettura di Simon Mossa, l’aeroporto di Fertilia, le nuove strutture ricettive, il ristorante La Lepanto l’Ospedale Ortopedico sul mare con Giuseppe Mastrandrea, il castello dei Sant’Elia a Las Tronas e il Palau de Valencia, l’Hotel Calabona ultimo avamposto verso la litoranea per Bosa. E poi il contestato piano urbanistico del 1959, in attesa del Piano Regolatore generale, soprattutto il profetico Piano territoriale Paesistico di Alghero-Fertilia, che ci fa ricordare le coraggiose passeggiate di un altro architetto che l’ha conosciuto, il nostro amico Giovanni Oliva, considerate pericolose da chi dovrebbe difendere il patrimonio ambientale di oggi.

Ma a mio avviso è soprattutto a Nuoro, nel cuore della Barbagia, che Simon Mossa poté sviluppare il suo disegno urbanistico non più modernista ma radicato su una tradizione che l’architetto ha avuto la pazienza di riscoprire: le nostre ricerche nell’archivio del Comune di Nuoro hanno consentito di recuperare la delibera del 1951 e le altre con le quali si indicava poi definitivamente l’area sulla quale sarebbe stato edificato nel 1957 il Museo del Costume, sul colle di Sant’Onofrio, per il quale Simon Mossa esplicitamente dichiara di ispirarsi al Museu de Arts, Industrias y Tradicciones Popular di Barcellona ne “El Poble Espanyol” inaugurato nel 1929 in occasione dell’ Exposición Internacional, con l’intento esplicito di documentare la ricchezza architettonica della Spagna: oltre cento esempi di architettura locale, con un sapore di autenticità ben diverso dal fastoso Museu Nacional d’Art de Catalunya, sul colle di Montjuïc.

A Nuoro la chiesa, le case, le officine, le sale espositive, dovevano essere animate, nelle intenzioni del progettista, dalla presenza di fabbri, artigiani, contadini, tessitrici, vasai: un’utopia, che però ha dato tanti frutti, fino ad arrivare alla legge del 1972 proposta un anno prima da Giovanni Lilliu, Pietrino e Mario Melis, Angelino Rojch, Gonario Gianoglio e Nino Carrus, che istituiva l’Istituto Regionale Superiore Etnografico, durante l’assessorato di Paolo Dettori. Giovanni Lilliu presiedette l’Isre dal 1985. Scrivendone su Il Popolo Sardo di Ariuccio Carta, egli immaginava l’Isre e il nuovo “Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde” come il motore della vita sociale e culturale dell’isola, con la missione creare reti e collegamenti tra gli studiosi di scienze umane, per rifare la Sardegna nel segno delle antiche suggestioni e della sua lunga tradizione resistenziale.

Infine i tanti altri luoghi della Sardegna: Sassari (l’Automobil Club, la chiesa San Giovanni Bosco delle Celestine, il Brefotrofio), l’Hotel “Gallura Mirage” a Santa Teresa, l’Abi d’Oru a Porto Rotondo.

I temi recentemente approfonditi nella mostra su Antoni Simon Mossa architetto ”Tra modernità e tradizione” nel centenario della nascita dall’ Associazione Mastros, Segni e progetti per la città mediterranea, con il bellissimo intervento di Andrea Faedda, ci consente di riassumere questi aspetti, pur avendo ormai un’idea chiara degli obiettivi dell’Archittetto in tutta l’isola, dei suoi propositi, dell’avvio tormentato del progetto in Costa Smeralda, ai Monti di Mola, dei rapporti con l’Aga Khan e con il Consorzio Costa Smeralda, delle preoccupazioni per un’architettura importata dall’esterno, sempre alla ricerca di un equilibrio tra arte coloniale e localismo esasperato, appunto tra modernità e tradizione nella nascita di quello che doveva essere a Porto Cervo il progetto di un Borgo Marinaro misurato con le pertiche antiche usate dai fondatori di una città nuova: dunque le dimensioni, le altezze, la vegetazione, ancora la chiesa di Maria Stella Maris, dove avrebbe operato il nostro rimpianto don Raimondo Satta. Già Giovanni Lilliu aveva un poco ironizzato sulle <<favolose architetture “orientali” nella Costa Smeralda volute dal conquistatore ismaelitico>>: lo stesso Vico Mossa guardava con un poco di rincrescimento alla “architettura smeraldina”, col rischio che l’alluvione delle nuove forme rischiasse di far <<risultare stucchevole quanto originariamente è stato originale e gentile>>. Forse Simon Mossa si lasciò convincere dall’amico (autore del bellissimo volume Architettura domestica in Sardegna: contributo per una storia della casa mediterranea. Cagliari, La Zattera, 1957), se è vero che abbandonò l’impresa che l’aveva visto inizialmente protagonista e non si fece pagare il suo lungo lavoro iniziale.

Trent’anni dopo Lilliu avrebbe riconosciuto il ruolo profetico che l’architetto aveva avuto nel cammino dell’autonomia, per l’intelligenza del disegno politico orientato verso l’autogoverno, per la denuncia del fallimento del regionalismo, contro il qualunquismo e la nostalgia centralistica; temi attuali al momento della Riforma della Costituzione del 2001 in senso federale. La Regione, creata come antitesi allo Stato centralistico, si era sdraiata sulla tesi che mirava teoricamente a negare, tanto che si poteva parlare di una “Regione ministeriale”. Era orribile che lo statuto zoppo, moderato, piccolo borghese, fondasse la specialità della Sardegna quasi esclusivamente sul fattore economico, orientandosi verso l’integrazione e non verso la diversità, non riconoscendo la peculiarità etnica, culturale, storica, politica e territoriale di un popolo distinto, risorto a nazione. Lilliu a posteriori poteva constatare che <<non se ne fece nulla>> della proposta di una Assemblea costituente che approvasse un nuovo statuto, anzi la questione entrò in un lungo sonno dal quale ancora non è riemersa. Oggi anche il pessimismo di Lilliu è superato e possiamo davvero raccogliere le riflessioni svolte a Nuoro al Museo del Costume tra maggio e ottobre 2017 (ora negli Atti curati da Antonello Nasone) con gli interventi di Giuseppe Pirisi, Andrea Soddu, Paolo Serra, Antonio Giua, Riccardo Campanelli, Alessandro Doneddu, Simone Ligas, Joseph Pintus, Andrea Mariani, Eugenio Berretta, Andrea Fadda, Rosa Manca, Federica Pau, Pisana Posocco, Battista Giordano, Pepita Simon. Uno sguardo incrociato e davvero sorprendente, che ora con questo volume viene presentato splendidamente e che dovrà esser tenuto presente da chi intende capire la Sardegna di oggi, senza la fretta e la superficialità ai quali siamo ormai abitati.




In difesa dell’umano, problemi e prospettive, 12 febbraio 2025

Cagliari, Manifattura Tabacchi

La presentazione del volume In difesa dell’umano, problemi e prospettive

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Mi accingo con qualche timore a presentare questo volume In difesa dell’umano, problemi e prospettive edito da Vivarium Novum a cura di Luciano Boi, Umberto Curi, Lamberto Maffei e Luigi Miraglia: l’opera è stata pensata nel pieno della pandemia del Covid 19. Quattro anni fa siamo stati investiti da una crisi che forse testimonia come la Natura ormai finisce per ribellarsi all’uomo. A distanza di qualche anno – e naufragio emergentes scrive Luigi Miraglia – pensavamo di aver ritrovato la normalità che avevamo conosciuto in passato e che in realtà oggi sappiamo costituiva il vero problema di fondo.

Osserviamo come lo scenario si aggravi, con la deriva dell’era digitale (come si esprime Marcello Foa): assistiamo ad un passaggio significativo e ancor più drastico, forse traumatico, verso le tecnologie digitali, come con sviluppo dell’Intelligenza artificiale fondata su tante promesse fallaci. Soprattutto osserviamo con preoccupazione il successo di una politica che lentamente tenta di negare la verità e di affermare una realtà virtuale che si dà per acquisita e nella quale non sempre ci ritroviamo. Penso all’emigrazione dei Palestinesi proposta e ormai affermata (come possibile e prossima) dal Presidente Trump, in una terra nella quale si sono allevati colpevolmente i possibili terroristi del futuro. Mattarella nei giorni scorsi a Marsiglia ci ha ricordato gli aspetti più rischiosi dei cambiamenti in corso in un mondo opaco quasi distopico in cui riemergono «sfiducia nella democrazia, unilateralismo e nazionalismi», un mondo in cui «si riaffaccia, con forza […] il concetto di “sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo». E ha aggiunto ricordando il pericolo causato da figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche. Forse una nuova catastrofe antropologica, con la nascita di contropoteri incontrollabili.

Questo però è un libro a più voci, con tanti registri differenti e indirizzato positivamente verso il futuro, per Mauro Ceruti verso un nuovo umanesimo planetario capace di cogliere la complessità per partire di nuovo. Queste pagine mi hanno fatto ricordare il passo delle Questioni naturali di Seneca che ho voluto collocare nell’atrio dell’Università di Sassari per i suoi 450 anni di vita: nell’età di Nerone e di San Paolo – come ricorda Giancarlo Rinaldi – Seneca affermava:

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet;

multa saeculis tunc futuris,

cum memoria nostra exoleverit, reservantur:

pusilla res mundus est,

nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;

molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,

quando di noi anche il ricordo sarà svanito:

il mondo sarebbe una ben piccola cosa

se l’umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

Per un popolo nuovo, il ruolo della conoscenza, della cultura, della scuola saranno essenziali. Desideriamo uno sguardo positivo verso un futuro nel quale ci sia più rispetto per gli altri uomini, contro le schiavitù e il pericolo della fine della storia. Come scrive Ignacio Armella Chavez, dobbiamo muoverci in un gioco di specchi, tra l’accaduto e l’avvenire.

Terenzio nella commedia Heautontimorumenos ricordava che il saggio è un essere umano e niente di ciò che è umano è estraneo a lui, homo sum, humani nihil a me alienum puto, un’espressione forse abusata ma nella quale ci riconosciamo pienamente, che attraverso il tempo arriva fino all’Italo Calvino di Marcovaldo, e che condensa anche il tema del desiderio di bellezza e di giustizia.

Merito dei curatori di questo libro è quello di aver affermato la necessità di una visione trasversale, che è il denominatore comune di tante riflessioni raccolte da mezzo centinaio di studiosi delle più diverse provenienze, italiani e stranieri, umanisti, scienziati, matematici, interessati a fissare paletti visibili, riconosciuti, positivi, fondati su un’etica che – come si esprime Cesare Polizzi – riconosce come necessario un destino di simbiosi.

Chi mi conosce sa che sono convinto del valore della tradizione e penso che gli studi classici possono rappresentare un punto di riferimento oltre che per i paesi europei paradossalmente anche per il Maghreb e per altre aree del mondo, a iniziare dall’America latina, con lo scopo – scrive Nuccio Ordine – di darci strumenti per combattere la mercantilizzazione dell’educazione, della scuola, dell’università.

Voglio ricordare le parole di Gaio, fatte proprie da Giustiniano nel Digesto: Nel dispormi a interpretare le antiche leggi, ho ritenuto necessario che il diritto del popolo romano sia da riprendere dalle origini di Roma, non perché io voglia scrivere commenti prolissi, ma perché noto che in tutte le cose è completo ciò che risulti formato in tutte le sue parti; e certamente di ciascuna cosa è l’origine la parte più importante, id perfectum esse quod ex omnibus suis partibus constaret et certe cuiusque rei potissima pars principium est. Occorre richiamare fortissimamente i giovani di tutti i Paesi europei a non trascurare il proprio principium, un principium che non è nazionale ma che immerge in particolare il nostro paese in una prospettiva universale e globale, che tiene conto degli intrecci della storia e che ci orienta verso un’apertura sempre più ampia e solidale. Se abbiamo un futuro – e noi vogliamo avere un futuro– il futuro sta proprio nel far intendere ai giovani il loro rapporto con il passato e quindi saper leggere il loro presente in relazione al passato e il passato in relazione al presente, ricorrendo all’intertestualità e riscoprendo il continuum della nuova Europa con il mondo antico.

Dunque, cultura classica come libertà, diritto, giustizia, solidarietà, fides, ragione, poesia, arte, patrimonio degli uomini, faticoso a raggiungersi, se volete, ktema eis aei, secondo il monito di Tucidide, non oggetto di antiquariato e di nostalgica erudizione. Ma insieme questo volume nella sua parte quinta afferma l’esigenza che scienze della natura e studi umanistici costituiscano una sola cultura, perché scrive il nostro amico Giorgio Parisi a cosa esattamente serve la scienza ? Occorre allora riscoprire la complessità e le possibilità dell’umano oltre il modello della macchina. Del resto già Karl Popper nel 1956 scriveva che <<la mia disciplina non esiste, perché le discipline non esistono in generale. Non ci sono discipline, né rami del sapere; o piuttosto, di indagine. Ci sono solo problemi e l’esigenza di risolverli>>.

Nell’età della globalizzazione, dove troppo spesso emerge il demone dell’homo oeconomicus, del mercato, della tecnologia digitale, degli algoritmi, delle armi, la lezione antica e moderna della cultura classica ci insegna a riconoscerci nei valori fondati sull’humanitas, superando quelle che Lamberto Maffei chiama le patologie della modernità, attraverso un impegno concreto per la giustizia, la cura, il rispetto, il sogno.

Penso che sia necessaria la volontà di “lavorare insieme”, respingendo categoricamente la prospettiva falsamente progressista del rapporto tra culture egemoni e culture subalterne, la voglia di immaginare per la riva sud del Mediterraneo ma per noi stessi un futuro desiderabile anche senza prevederlo e, per usare un’espressione felice di Bibo Cecchini e di Ivan Blečić, di programmare una fase nuova di un mondo futuro animato da città che vorremmo antifragili, partendo dalla profondità della storia e dalla complessità delle culture diverse. Le Corbusier nel 1965 sosteneva: <<Essere moderni non è una moda, è uno stato: Bisogna capire la storia: e chi capisce la storia sa trovare la continuità tra ciò che era, che è e che sarà>>. Credo che una lezione di questo tipo nel mondo sanguinoso e violento che stiamo vivendo sia davvero preziosa, soprattutto se metteremo da parte soporattutto quell’idea di “mare nostrum” che Franco Cassano ne Il pensiero meridiano considera <<odiosa per il suo senso proprietario>>: essa <<oggi può essere pronunziata solo se si accetta uno slittamento del suo significato. Il soggetto proprietario di quell’aggettivo non è, non deve essere, un popolo imperiale che si espande risucchiando l’altro al suo interno, ma il “noi” mediterraneo. Quell’espressione non sarà ingannevole solo se sarà detta con convinzione e contemporaneamente in più lingue>>.

Attilio Mastino




Gerardo Severino, Storia di Nicolò Diana, Delfino 2024

28 maggio 2024

Gerardo Severino, Storia di Nicolò Diana, Delfino

Presentazione

Sassari, Circolo Diavoli Rossi

La città di Sassari deve moltissimo al Col. Gerardo Severino, amico personale e amico della Sardegna, direttore fino a pochi anni fa del Museo Storico della Guardia di finanza, infaticabile studioso del Novecento italiano: se la nuova caserma della Guardia di Finanza di Via Gavino Pinna a Sassari, inaugurata il I agosto 2018, è oggi intestata al partigiano Giovanni Gavino Tolis di Chiaramonti lo si deve soprattutto al bel volume dedicato dal Col. Severino e dall’Editore Delfino al finanziere morto nel Campo di concentramento di Mauthausen il 28 dicembre 1944, accusato di aver aiutato molti profughi ebrei a Chiasso (Il contrabbandiere di uomini, 2012). È una delle tante figure nobili, evocate con la speranza che possano far parte di un pantheon ideale di Sardi generosi e illustri, soprattutto mossi da sentimenti di giustizia e di solidarietà verso i più deboli. Sono molte le opere del Col. Gerardo Severino che ci raccontano una Sardegna diversa, fatta di combattenti sardisti identificati per il loro coraggio, di finanzieri ricordati nel giardino dei giusti come Salvatore Corrias fucilato a Moltrasio (Como) nel gennaio del 1945 dalle Brigate Nere della Repubblica sociale, di molti altri personaggi impegnati nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione. Fino a Salvatore Cabitta e Martino Cossu, nel 1966 vittime del terrorismo altoatesino. E poi tanti altri sardi, come quelli che sono alle origini della Brigata Sassari durante la prima guerra mondiale o nei reparti composti da valorosi combattenti di origine isolana: figure che emergono dalle pagine di questi bei volumi che ci raccontano l’autore, per un’attenzione, una vicinanza, una volontà di affermare la giustizia, una conoscenza del territorio, un desiderio di incontro e di amicizia.

Con questa Storia della lunga e tormentata vita di un valoroso combattente, il Generale sassarese Nicolò Diana (1811-1896), torniamo indietro nel tempo per conoscere uno dei protagonisti del Risorgimento nazionale: assieme all’amico fraterno il Generale Raffaele Cadorna fu un protagonista delle prime guerre d’indipendenza combattute dalla fanteria dell’esercito Sardo.

Dunque i Savoia, con le loro luci e le loro ombre all’indomani della “cacciata dei Piemontesi” e dei moti rivoluzionari in Sardegna, quindi la repressione guidata con ferocia da Carlo Felice (viceré a Cagliari fino al 1812), protagonista però poi di una politica di sviluppo, inevitabile dopo la triste esperienza dell’esilio sardo durante l’età napoleonica, in una terra povera e sfruttata, uscita quasi immobile a un secolo di distanza dalla dominazione spagnola, un’isola sempre uguale a sé stessa.

Dunque la vita del nostro protagonista, iniziando dal battesimo del bimbo – appartenente ad una nobile famiglia locale, nato dal notaio Antonio Maria Diana e da Maria Perantoni – battezzato il I febbraio 1811 nell’antica chiesa di santa Caterina, edificio oggi demolito in Piazza Azuni: già i nomi assegnati di Nicolò Gavino Maria che compaiono nei quinque libri ci rimandano ai santi protettori che più contano in città e testimoniano un radicamento nella città: Nicolò o Nicolao dal celebre Nicola di Myra, il santo dei miracoli, che conosciamo come titolare della pieve medievale fin dall’XI secolo (Sanctu Nicola de Thathari, CSPS 83, 1), oggi riconosciuto come il titolare della cattedrale arcivescovile di Sassari; Gavino, martirizzato da Diocleziano a Turris Libisonis e patrono dell’archidiocesi turritana; infine la Madonna, venerata dai francescani di Silki e di S. Maria di Betlem all’ingresso della città, luogo dove si conclude tradizionalmente la Faradda Unesco, la pittoresca sfilata dei Gremi.

L’a. ricostruisce la storia della famiglia (originaria di Simala al piede orientale del Monte Arci, verso la Marmilla), divenuta con i Savoia tra le più attive della Baronia di Monreale, tra Sardara e San Gavino, giungendo a Sassari proprio nell’Ottocento con militari e funzionari impegnati nel notariato e nel Controllo generale di finanza al servizio della Reale Udienza. Nicolò apparteneva a una famiglia di notai, il nonno Antonio Effisio, il padre Antonio Maria, alcuni zii e cugini. Questo volume racconta tutte le tappe degli studi e di una carriera luminosa, fondata sul coraggio e la dedizione: il diploma di magistero (1829), la formazione militare come volontario delle Guardie del Corpo del Re Vittorio Emanuele I a 18 anni, poi cadetto all’interno della prestigiosa Reale Accademia Militare di Torino dalla quale uscì come sottotenente (1830), poi arruolato nel secondo reggimento della Brigata di Fanteria”Aosta” comandata dal Generale Giovanni Antonio Pagliaccio, Marchese di Planargia; in forza al secondo e poi nel 16° Reggimento fanteria della Brigata Savona (1838-46), Sullo sfondo appare evidente il contrasto tra la prima fase della vita del soldato, deciso a stroncare le cospirazioni mazziniane e repubblicane (si pensi alla fucilazione a Chambery l’11 giugno 1832 del sassarese Efisio Tola, fratello del più celebre Pasquale), e la successiva partecipazione alle fasi più significative delle Guerre d’Indipendenza, per la condivisione degli ideali risorgimentali, dopo la Fusione Perfetta della Sardegna agli stati di terraferma (1847) e l’estensione dello Statuto Albertino (1848). Il Diana continuò a frequentare la città d’origine, Sassari, inizialmente destinata a uno sviluppo edilizio davvero impetuoso: la costruzione del Palazzo di Città (il Teatro Civico), sui resti dell’antico santuario di Ercole, il nuovo Ospedale, le Carceri di Via Roma, le Scuole e le Piazze: il “piano d’ornato” ed i nuovi strumenti urbanistici consentivano ora di creare quartieri ordinati e regolari, anche arrivando però a spaventosi abbattimenti (il castello nel 1871 e parte delle mura medioevali). Qui il Diana era in sintonia con le tradizioni popolari, con le feste (come la Faradda dei Candelieri), con i progetti della famiglia.

Intanto diventava Luogotenente presso l’11° Reggimento Fanteria della Brigata Casale (1847) e veniva trasferito a Sassari – forse per punizione – presso il Deposito del Battaglione dei Cacciatori Franchi: dalla Sardegna sarebbe partito nel 1848 per partecipare alla prima guerra d’Indipendenza, lasciandosi alle spalle una città che presto sarebbe stata investita dal colera. Carlo Alberto guidò le sue truppe fino alla sconfitta di Novara, alla quale il Diana partecipò inquadrato nell’11° Reggimento Fanteria come capitano e responsabile di una compagnia di 250 uomini (23 marzo 1849). Nicolò Diana aveva preso parte da protagonista il 6 maggio 1848 alla battaglia di Santa Lucia verso Verona e il 30 maggio a quella di Goito sul Mincio, vinta dal Gen. Eusebio Bava per i Piemontesi. Sono gli episodi che portarono al Diana il grado di capitano, le decorazioni di cui andava fiero, infine il matrimonio con la figlia (Anna Maria) del commilitone – conosciuto in quell’occasione – il concittadino Antonio Vincenzo Agnesa. Per il matrimonio era possibile dunque tornare a Sassari presso il Deposito dei Cacciatori Franchi (1850), mentre in città scoppiava una sommossa popolare del Carnevale 1852 provocata dal risentimento dei Sardi della Guardia Nazionale, ostili ai Bersaglieri: sono i mesi del lungo stato d’assedio decretato da Vittorio Emanuele II, della repressione affidata ai cavalleggeri di Sardegna e ai Cacciatori Franchi, temporaneamente ospitati nel Monte Frumentario; vent’anni dopo sarebbero stati trasferiti nella Caserma La Marmora, costruita sui resti dell’antico castello. Alla fine della rivolta il Diana fu spostato a Vercelli ancora presso i Cacciatori di Sardegna, poi inquadrati nei Granatieri di Sardegna. Il Capitano partecipò con i suoi uomini al Corpo di spedizione in Crimea guidato dal Generale Alfonso La Marmora, secondo le coraggiose e imprevedibili scelte di Cavour: alla testa del Reggimento Provvisorio dei Granatieri di Sardegna, il Capitano partecipò vittoriosamente alla battaglia della Čërnaja rečka, il “fiume nero”, dove i Piemontesi il 16 agosto 1855 sconfissero rapidamente gli zaristi di Alessandro II, chiusi a Sebastopoli, ora occupata dai Francesi, afflitti a loro volta dall’epidemia di colera. Promosso Maggiore, il Diana fu trasferito al 17° Reggimento Fanteria della Brigata Acqui a Vercelli e poi tornò ai Granatieri di Sardegna per partecipare alla seconda guerra d’Indipendenza, arrivando a come comandante del terzo Battaglione del I Reggimento liberare Milano dagli Austriaci e il 24 giugno 1859 combattendo vittoriosamente al Santuario della Madonna della Scoperta tra Solferino e San Martino (a Sud del Garda): per quest’episodio egli ottenne da Napoleone III il Cavalierato della Legion d’Onore e dai Savoia il grado di Luogotenente colonnello e l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine militare dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dal 1860 lo troviamo a Cuneo al comando del 51° Reggimento di fanteria “Brigata Cacciatori delle Alpi”, erede della tradizione garibaldina.
Finalmente il grado di colonnello (28 luglio 1861), all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia: in tale veste partecipò alla repressione del brigantaggio in Sicilia, tra Palermo e Trapani, poi in Toscana. Colonnello Brigadiere dal 1864, Diana comandò la Brigata di fanteria “Puglie” con sede a Piacenza, per poi assumere pochi mesi dopo il comando della Brigata dei Granatieri di Toscana a Napoli. L’anno dopo arrivava la promozione in servizio a Maggior Generale (Generale della Brigata), il comando nella terza guerra di indipendenza con la sconfitta di Custoza (alla quale il Diana e i sodati della !7° divisione “Cadorna” non parteciparono direttamente), Grazie al ruolo svolto da Garibaldi, l’Italia con l’armistizio di Gorizia ottenne nel 1866, attraverso una delicata trattativa diplomatica, il Veneto. Mentre scoppiavano varie rivolte, anche a Sassari, in Sicilia, persino nel Napoletano dove ora si trovava, il Diana a 56 anni d’età nel 1867 si ritirava in disponibilità forse con la moglie proprio a Sassari dove il cognato Vincenzo Agnesa era diventato Sindaco. Si trasferì prestissimo definitivamente a Milano, dove sappiamo ebbe modo dio frequentare l’amico Giorgio Asproni, che lo ricorda assieme alla moglie nel suo diario. Nel 1872 fu infine promosso Tenente Generale (Generale di Divisione) della Riserva, dall’anno successivo in congedo assoluto. L’a. non esclude una successiva temporanea frequentazione sassarese dopo la morte di Garibaldi, per ragioni di famiglia oppure ad esempio quando fu posta la lapide per ricordare Efisio Tola (1880): non sappiamo si sia trattato di un tardivo ripensamento.

La scomparsa del Generale Diana a 85 anni d’età avvenne a Milano il 9 giugno 1896, seguita da un funerale solenne al quale parteciparono le autorità, i reduci, i familiari: si chiudeva davvero con molti interrogativi una vita lunga, operosa, attraversata dalle mille contraddizioni della politica del tempo.

L’abilità dell’autore è evidente: il col. Gerardo Severino riesce a seguire in parallelo tante storie diverse e alla fine arriva a riannodare i fili di tante carriere militari e di tanti protagonisti: il cugino Luigi Castelli (legion d’onore in Crimea), Raffaele Cadorna (Legion d’onore in Algeria, comandante del V corpo d’armata a Porta Pia), Tommaso Castelli, Beppe de Angioy e tanti altri.

Credo che non si possa andare oltre: trovo però necessario ricordare che siamo di fronte ad un frutto prezioso di una lunga ricerca che il col. Gerardo Severino continua a portare avanti, animato da uno straordinario amore per la Sardegna: oggi ci restituisce a tutto tondo l’immagine di un militare davvero speciale, che pure era sostanzialmente sconosciuto a Sassari e in Sardegna.

Sappiamo che questa è una terra che ha accolto l’a. e che davvero manifesta in tante occasioni riconoscenza e amicizia.

Sassari, Faradda dei Candelieri Unesco 2023




La Sardegna nel mondo romano fino a Costantino, di Attilio Mastino, vol. I-III, Cagliari 2023.

Premessa

Questo lavoro vuole ribaltare o almeno tentare di ribaltare la prospettiva di interpretazione della storia della Sardegna nel mondo romano, la sua stessa narrazione, innanzi tutto ispirandosi a un grande maestro, Arnold Toynbee, e al suo capolavoro, Hannibal’s Legacy, pubblicato oltre 50 anni fa: nei giorni nei quali Annibale nasceva a Cartagine (nel 247 a.C.) la grande isola mediterranea da secoli era frequentata dai Cartaginesi. Il padre Amilcare dal santuario di Astarte nella città di Erice (Trapani), sulla punta occidentale della Sicilia, il 10 marzo 241 a.C. aveva osservato con orrore la flotta da guerra romana armata di rostri metallici tendere un agguato a tradimento contro le navi cartaginesi (armate allo stesso modo), nascondendosi dietro le isole Egadi (Levanzo). Ne seguì una disastrosa sconfitta navale che portò alla perdita della Sicilia, e, tre anni dopo, a seguito della rivolta dei mercenari, anche della Sardegna. I Romani sottrassero quest’ultima – almeno stando a Polibio – con l’inganno e con giustificazioni inaccettabili: occuparono un’isola vasta, popolosa e fertile, senza esser stati provocati, molti mesi dopo il trattato che chiudeva la prima guerra punica: questa sarebbe stata la causa principale della guerra annibalica, dopo la proditoria occupazione delle città, delle terre, delle miniere da parte dei mercenari per conto dei Romani. Esasperato e impoverito anche personalmente, Amilcare costrinse il figlio a giurare odio eterno verso Roma, forse nel santuario sul colle di Baal Ammone-Saturno (sul Djebel Bou Kornine) o nel tofet di Cartagine. Privato dell’“Isola dalle vene d’argento”, persi i suoi latifondi e le sue miniere, Amilcare decise di fondare una Nuova Cartagine a bocca di miniera in Spagna (Cartagena). Da qui Annibale sarebbe partito per vendicare il padre e i Cartaginesi: occupata Sagunto, invaso il territorio di Marsiglia, superate le Alpi, egli raggiunse l’Italia centrale e meridionale, destinata a essere travolta da una lunghissima guerra. La sua vera eredità furono le devastazioni e la povertà diffusa dei secoli successivi in Italia che avrebbero provocato la vicenda dei Gracchi e poi le guerre civili.

Lo sfortunato alleato di Annibale nel Bellum Sardum fu Hampsicora: a partire da questo momento le mille eredità culturali, linguistiche, istituzionali, giuridiche, economiche paleosarde e cartaginesi in Sardegna contribuirono a provocare la terribile ostilità dei Romani, le distruzioni, l’abbattimento di intere foreste, le uccisioni, la cattura di tanti Sardi, tra i quali in molti casi erano sopravvissute le strutture della società e della cultura locale, preistorica, nuragica, fenicia, villanoviana, etrusca: una cultura che non era analfabeta e anzi vantava una complessità e una dignità assolutamente non riconosciute, che andava ben al di là della sola esperienza punica.

Gli studiosi sono arrivati a parlare di un generale spopolamento e di una vera e propria “depressione demografica” in alcune aree dell’isola desertificate dagli eserciti decisi a stroncare il legame che continuava a unire i Sardi tra loro e con Cartagine: dunque la riorganizzazione amministrativa (giuridica e dei confini tra città e popoli), l’acculturazione coatta dei principes locali, per passare poi al conseguente sfruttamento delle risorse e alle profonde trasformazioni ambientali e culturali. Lo sguardo degli studiosi è diventato oggi più penetrante e problematico, in rapporto ai tanti scavi archeologici come quelli effettuati in particolare nelle città di Nora, di Sulci, di Olbia e Turris Libisonis, ma anche nelle aree rurali, come a Marrubiu, Mesumundu o Rebeccu, con attenzione per gli edifici pubblici, le strutture per gli spettacoli, il benessere, il tempo libero.

Trasformati in stipendiarii, i Sardi vennero profondamente umiliati e obbligati al pagamento dello stipendium per mantenere loro stessi le truppe romane di occupazione; migliaia furono i Sardi presi prigionieri, venduti come schiavi, addirittura uccisi. Se si esclude l’antica colonia romana di Feronia, alla foce del Rio Posada, che datiamo all’inizio del IV secolo a.C., solo dopo la distruzione della metropoli africana (146 a.C.) molti territori isolani furono colonizzati e occupati da soldati o famiglie arrivati dalla Campania (i Patulcenses), dalla Magna Grecia (gli Euthichiani), dalla Sicilia (i Siculenses), dalla Corsica (i Corsi), dall’Etruria (i Falisci), poi dall’Apulia (i sodales Buduntini), dalla Cirenaica (i Beronicenses) e dall’Africa (i Mauri): gli agri, i praedia, persino i metalla furono allora accatastati e assegnati a coloni giunti dall’esterno, con puntualissime registrazioni archivistiche nei tabularia, nei catasti locali e centrali. Nacquero nuovi centri abitati, come Valentia voluta dal console del 115 a.C. Metello, che dopo Augusto divenne sede di una delle prefetture della colonia di Uselis. Un’ampia parte del territorio diventava ager publicus populi Romani; successivamente conosciamo molti latifondi imperiali, appartenenti allla res privata o al patrimonium; ulteriori rendite andavano all’aerarium del Senato o al fiscus imperiale.

Con la “seconda occupazione romana della Sardegna” (Marc Mayer) avvenuta in seguito alle grandi campagne militari affidate ai consoli e ai proconsoli del II secolo a.C., la Sardegna iniziò lentamente a entrare, anche culturalmente, nella sfera romana: ancora Cicerone escludeva nel 54 a.C. (nella Pro Scauro) che ci fossero nell’isola municipi o colonie romane, città amiche del popolo romano e libere, non soggette al potere militare, e parlava di un’unica natio Sarda, che vedeva insieme riuniti popoli diversi ma ben identificabili sulla base dell’aspetto fisico, dell’abbigliamento, della carnagione, della lingua, dei progetti politici, delle tradizioni culturali dei Sardi Pelliti, dei Fenici e dei Cartaginesi; l’Arpinate volutamente ometteva la colonia fondata dai populares in Corsica (Mariana) e quella avversa voluta da Silla di Aleria “Veneria”, all’interno della stessa provincia.

Eppure proprio Cicerone conferma che era sopravvissuto un nucleo innanzi tutto culturale che era stato capace non solo di assorbire le culture esterne, ma anche di trasformare gli immigrati italici, assimilandoli ai nativi, dando alla cultura sarda in età romana un carattere unico e distinto nel Mediterraneo. Del resto l’isola collocata nel mondo romano non fece mai parte dell’Italia, ma costituì una provincia collocata al di là di un grande mare, amministrata da magistrati, promagistrati o altri tipi di governatori (pretori, consoli, proconsoli e funzionari dotati di comando militare, talora solo alti funzionari civili): mantenne così una sua “specialità” che è possibile leggere in filigrana attraverso i secoli, perché il governo romano non sempre si sovrappose alle autonomie locali precedenti, che in molti casi sopravvissero “a macchia di leopardo”, con ampie aree rurali abbandonate dal potere provinciale.

Furono i populares, in particolare Cesare e poi Augusto, ad avviare un processo di “romanizzazione” che non oscurò mai completamente la cultura locale, ma che divenne inarrestabile, soprattutto attraverso l’assegnazione di terre fertili e la deduzione di colonie e la promozione istituzionale dei municipi; si afferma ora un nuovo immaginario, perché l’isola felice (eudàimon) gode di una mitica eukarpìa ed è abitata dalle Ninfe del mare e della terra (come nel Numphàion limén e nelle sorgenti calde o sui fiumi), priva di serpenti, di lupi e di animali pericolosi, libera dalle erbe velenose, grazie alla protezione di Diana e Silvano, gli dei oscuri della selva montana sui Montes Insani; sulla costa il nome di Olbìa testimonia che già i marinai greci guardavano all’isola come ad una terra felice. I popoli che la abitavano secondo Diodoro Siculo ancora nell’età di Cesare erano liberi, perché la libertà è prerogativa dei popoli isolani. Assistiamo all’estendersi del latifondo di grandi famiglie senatorie (i Domitii ad Olbia, i Bennii e gli Herennii a Carales, molti altri clarissimi che conosciamo dall’instrumentum e dai sarcofagi) e poi del latifondo imperiale; si arriva però a una qualche stabilità nell’età degli Antonini e dei Severi, che portò a un’integrazione dei Sardi nella “romanità”, alla diffusione della cultura scritta, all’accesso alla tradizione letteraria classica come testimoniano molti eleganti carmina o i documenti artistici, al riconoscimento del ruolo della donna, sibi sufficie(n)s, con profondi cambiamenti nel gusto artistico, il che significa innanzi tutto un orizzonte davvero multiculturale e di sviluppo, pur mantenendo i Sardi una loro specifica identità e un’amministrazione autonoma per vasti distretti. L’idealizzazione della fase romana della storia della Sardegna andrebbe però evitata, se non altro per l’esaltazione che in passato, ma ancora ai nostri giorni, si è dedicata a questo periodo, ricco certamente di novità e di luci, aperto su un orizzonte mediterraneo, ma anche caratterizzato da ombre e da gravissime ingiustizie sociali, dalla presenza della schiavitù che sopravvisse in forme diverse per un millennio, dalla ingiusta distribuzione della ricchezza, dall’esaltazione dell’imperialismo, del militarismo, del potere.

Solide ragioni editoriali ci obbligano a fermarci a Costantino: è una scelta da un punto di vista storico non giustificata, perché la lunga fase romana della storia della Sardegna non si interrompe con Costantino e abbraccia quasi otto secoli, estendendosi pienamente in quella che chiamiamo “l’età bizantina”, esito della fondazione Costantiniana della Seconda Roma: un periodo lunghissimo, ricco di avvenimenti, pieno dicontraddizioni e di fermenti culturali promananti dal centro verso la periferia, ma anche dalla periferia verso la capitale. Si tratta di un processo che ha fortemente condizionato le fasi successive della storia sarda, a partire dall’età giudicale, se i Giudici furono davvero «gli ultimi discendenti istituzionali dell’antico governatore romano della provincia imperiale». Del resto il rapporto con Costantinopoli non si interruppe mai e, secoli dopo la caduta dell’impero d’oriente (1453), gli ultimi Romani sarebbero finiti paradossalmente proprio in Sardegna.

Anche l’identità plurale della Sardegna di oggi è in fondo influenzata dalle eredità più antiche, in particolare dalle eredità romane, espressione di una storia lunga che in qualche modo condiziona anche la società contemporanea. La lingua sarda innanzitutto, derivata direttamente dal latino volgare, con questo particolare carattere conservativo nel centro montano: lingua che è oggi una risorsa irrinunciabile e un simbolo della profondità della storia e della capacità di elaborazione anche poetica e musicale delle comunità locali. Oggi diamo per acquisto un radicamento territoriale di una lingua sarda che mantiene una freschezza e una capacità espressiva innanzi tutto in rapporto con un luogo, con una geografia, con un ambiente naturale e umano; abbiamo raggiunto il senso profondo di una ricchezza che deve essere difesa e coltivata nel rispetto di una storia lunga dove la lingua sarda è anche pensiero, riflessione, strumento per intendere la realtà, per entrare in comunicazione profonda con gli altri. E poi la toponomastica, ma anche la geografia, i percorsi della viabilità in rapporto ai corsi d’acqua, il paesaggio agrario trasformato dall’uomo, il forte legame delle popolazioni locali con il territorio e con lo spazio rurale, i confini naturali e quelli delle prime diocesi tardo-antiche, le attuali circoscrizioni provinciali, comunali, le bonifiche delle aree palustri, alcune forme dell’insediamento, le vocazioni stesse del territorio, le colture agricole, l’allevamento con le sue specifiche competenze e le sue tradizioni millenarie, ma anche le attività minerarie, la pesca, la raccolta del corallo, per non parlare di alcune consuetudini giuridiche e di alcune tradizioni popolari che si collocano in una linea di continuità con il passato, la magia, la medicina popolare, la religione, la misura del tempo, che qui scorre più lentamente. Frutto insieme della civiltà dei Sardi nelle sue articolazioni cantonali e dell’incontro con Roma in un ambiente e in un paesaggio dato, che aveva caratteristiche esotiche e una diversità davvero spettacolare. Oggi abbiamo una sensibilità nuova verso l’ambiente naturale, che doveva essere caratterizzato da un equilibrio tra la linea di costa e gli spazi urbanizzati e dalla presenza di vaste zone boschive come il Nemus Sorabense (a Fonni) dove si praticava il culto di Silvano e Diana, si riconoscevano le qualità delle erbe e si sviluppava un’economia del bosco; oppure presso il tempio del Sardus Pater, vero genius loci della vallata di Antas. E cogliamo con immediatezza l’eleganza, la qualità dell’artigianato artistico, la connessione con altri centri di produzione e di commercio. Infine, il paesaggio di ieri e di oggi, che il codice dei beni culturali ha definito come <<il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni>>. Non senza uno sguardo critico verso le nuove forme che accompagnano ai nostri tempi il cambiamento climatico, come i frettolosi investimenti in aree fotovoltaiche e in aereogeneratori di energia, spesso scavalcando tutti gli strumenti di tutela del patrimonio, in passato minacciato dalle servitù militari, dall’urbanizzazione incontrollata anche nella fascia costiera, da processi di tutela dei beni culturali farraginosi e inefficaci: un patrimonio fragile che richiede buone pratiche, attenzione e cautela.

Il nostro sforzo in questa sede sarà quello di seguire anche dal punto di vista materiale le continuità ereditate dal periodo preistorico e protostorico, in particolare dall’età che ha accompagnato e seguito la costruzione dei nuraghi: eredità che attraversano l’età romana (pensiamo all’onomastica che talora riemerge nel medioevo, ma il discorso tocca anche la cultura architettonica sarda che mantiene una sua vitalità legata alla tradizione punica e alla ricezione di modelli italici) e che in qualche modo sono state più volte ri-orientate nel tempo in una terra mari cincta. Diversamente in Corsica, almeno secondo Seneca,risentito per la condanna all’esilio decretata da Caligola, per il quale troppe volte è cambiata la popolazione di questo scoglio arido e tutto sterpi (totiens huius aridi et spinosi saxi mutatus est populus!); non senza attrattive però, visto che era attraversata da ruscelli ricchi di pesci (Corsica piscosis pervia fluminibus).

Siamo convinti che le forme dell’insediamento e dell’economia di età medievale si siano radicate in Sardegna su un sostrato molto più antico, la cui matrice più strutturata appare certamente legata alla tradizione romana del territorio, che aveva portato a maturità stimoli differenti; i riferimenti alle consuetudini e alle antiche leggi del diritto romano in età medioevale appaiono evidenti nell’ambito del sistema agrario e dell’uso delle terre, in particolare delle terre pubbliche: i giudici rendevano giustizia ai genovesi secundum leges romanas et bonos usoscon esplicito riferimento dunque al diritto romano; lo svolgimento del conventus-sinodos in date significative in età giudicale sembra proseguire una pratica giudiziaria di età romana e bizantina attorno al governatore provinciale che si esprimeva pubblicamente in varie sedi del territorio, dopo aver sentito il suo consilium.

L’esperienza romanistica era ancora pienamente vitale nell’isola in età giudicale: del resto già Arrigo Solmi riteneva che si siano mantenute intatte molte forme del diritto romano, una «bella tradizione latina» ereditata da una costituzione sociale meno complessa, rimasta per alcuni secoli quasi isolata, ma fedele alle sue tradizioni e alla sua origine; su questo tema straordinari risultati sono stati raggiunti dai romanisti. Come la lingua sarda è figlia della lingua latina, così anche il diritto giudicale appariva al Solmi una filiazione diretta del diritto romano classico. Colpisce il fatto che il termine republica dessa p(rese)nte citate, per quanto ricorra occasionalmente, mantenga negli Statuti Sassaresi un prezioso riferimento diretto alla cassa cittadina, proprio come nella colonia di Turris Libisonis in età imperiale: la ritroviamo, ad esempio nell’iscrizione del tempio della Fortuna e del rifacimento del tribunale all’interno della basilica giudiziaria (risalente forse ad età repubblicana) per le spese effettuate in occasione delle celebrazioni millenarie di Roma.

Le eredità del diritto romano nella Carta De Logu di Eleonora d’Arborea sono state recentemente studiate da Francesco Sini e dalla sua scuola che hanno indicato alcuni precisi riferimenti testuali nel codice arborense che lasciano intravedere l’evidente derivazione romanistica e ancor più richiamano forme e contenuti del diritto romano, come a proposito della non punibilità dell’omicidio commesso a scopo di legittima difesa. Anche in materia processuale, in relazione ai tempi ed alle modalità dell’appello, la Carta de Logu aderisce strettamente alla legislazione tardo-antica de appellationibus di una novella giustinianea del 536. Altri rinvii impliciti al diritto romano, considerato come vigente a tutti gli effetti, potrebbero essere individuati nelle norme a proposito della successione ereditaria e più precisamente nei 14 modi attraverso i quali può essere ammessa la pratica di diseredare un erede legittimo: elementi che, pur non presenti nella Carta de Logu, sono comunque elencati esattamente negli Statuti sassaresi.

Ciò non significa affatto che la Sardegna sia rimasta sempre uguale a se stessa: periferica da un punto di vista culturale ma collocata geograficamente al centro dell’impero, l’isola fu in età romana il grande ponte attraverso il quale passarono innovazioni e rivoluzioni culturali originatesi sulle diverse rive del Mediterraneo, così come in Corsica, dove Seneca lamenta – esagerando non poco – l’arrivo successivo di Greci, di Marsigliesi, di Celti, di Liguri, di Ispani, tanto da azzerare la popolazione locale. Da questi scambi, più intensi e vivaci di quanto non si pensi, alimentati dagli spostamenti degli isolani in altre province e dai tradizionali legami con l’Africa, anche la Sardegna fu arricchita immensamente, partecipando essa stessa alla costruzione di una nuova cultura unitaria, ma mantenendo anche nei secoli una sua visibile specificità.

Tenteremo allora di esplorare il confine tra “romanizzazione” e continuità culturale (tra Change e Continuity) secondo il modello di Robert Rowland, notevolmente rettificato da Peter van Dommelen che valorizza sul versante opposto alla “romanizzazione” la persistenza punica in alcune realtà della Sardegna repubblicana. Del resto dobbiamo tener conto del recente dibattito sul tema della “romanizzazione” che spesso è apparso eccessivo e fuorviante, arrivando al limite di negare persino l’evidenza: è forse il momento di poter considerare dati acquisiti la complessità degli scambi culturali, dando per scontata <<l’assenza di culture “pure”, la continuità e l’originalità delle culture locali anche dopo la conquista romana, le diverse specificità del mondo provinciale, delle realtà nazionali, etniche, periferiche>>. È arrivato il tempo di superare la facile tentazione di adottare categorie interpretative astratte e di definire impossibili soluzioni unitarie, con modelli ideologici artificiosi che non sempre rendono conto della complessità delle questioni in campo.

Sappiamo bene che i temi della “resistenza alla romanizzazione”, delle “sopravvivenze puniche” e delle “persistenze indigene” erano stati parzialmente corretti da Marcel Benabou (proprio il teorico della “resistenza alla romanizzazione”) già nella presentazione al VII volume de L’Africa romana, perché si tratta di «un sujet qui n’était peut-etre pas sans risques», con il dovere di andare progressivamente verso «l’élargissement et l’approfondissement», sul piano geografico, cronologico, tematico e metodologico; vengono oggi discussi anche gli strumenti interpretativi legati al grado di “romanizzazione” o al rapporto tra “continuità” e “trasformazioni”, tutte categorie che comunque consentono di enucleare specificità nel tempo e nello spazio.

Siamo disposti ad affrontare i rischi legati alla lente deformante dell’interpretazione dell’antico con l’utilizzo di modelli recenti, anche se dovremmo sempre diffidare di alcuni modelli ideologici e di alcune categorie astratte in passato molto di moda e sarebbe necessario usare la massima prudenza per interpretare il mondo romano con gli occhi di oggi: del resto non possiamo fare altrimenti, anche se appare evidente la necessità di evitare semplificazioni che non tengano conto della diversità delle situazioni locali; e la diversità culturale è fonte di valore, senza la quale si privano «le persone e le comunità locali di preziose fonti di significato, identità, conoscenza, benefici economici», che hanno a che fare coi diritti umani e la coesione sociale.

Marco Tangheroni chiedeva più rispetto per la complessità della storia senza rinunciare a stabilire connessioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizzazione del passato, per comprendere e spiegare: fondamentale è il concetto che l’inquietudine sul proprio mestiere debba accompagnare sempre gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi.

Dunque cosa conosciamo, come conosciamo, quali sono i limiti della nostra conoscenza, quali ne sono le fonti, elementi tutti che danno al mestiere dello storico un carattere artigianale e addirittura artistico e che rendono fondamentale la fase di apprendistato nella quale i maestri debbono seguire i loro allievi. Occorre ancorarsi fortemente a un periodo storico, a una realtà geografica; per capire occorre cercare strade nuove e i tempi appaiono maturi per considerare ora l’archeologia come strumento fondamentale per comprendere l’antico, con la sua autonomia dalle fonti letterarie, dalle iscrizioni che ci hanno conservato le scritture antiche, spesso incatenate sulla roccia come nel terminus rupestre dei Balari tra Monti e Bechidda, oppure dalla numismatica: gli ultimi studi, le nuove metodologie adottate, le ultime grandi imprese scientifiche nelle città romane (soprattutto Nora, Carales, Sulci, Neapolis, Tharros, Cornus, Turris Libisonis, Olbia) e in tante aree interne di pianura e di montagna consentono oggi di ribaltare molti luoghi comuni sul patrimonio e di penetrare e comprendere molti passaggi, di seguire nel tempo vicende storiche che abbracciano almeno otto secoli, anche se in questa sede ci fermiamo alla pace religiosa, quando davvero nulla cambia. Marco Tangheroni suggeriva allora un metodo, quello dei suoi minatori medioevali di Iglesias: quando un filone perdeva un po’ d’interesse, apriva un nuovo scavo. In questi ultimi decenni gli storici si sono incontrati con gli archeologi su un terreno comune, quello dello scavo stratigrafico di aree territoriali, di monumenti, ma anche di fonti, di iscrizioni, di monete, dei prodotti della cultura materiale, partendo dal valore dei beni culturali e della difesa dei beni comuni, con uno sguardo sempre più interdisciplinare che deve confrontarsi con la sostenibilità degli interventi in rapporto alrispetto per l’ambiente. Anche in questo volume si presentano le nuove interpretazioni e le intuizioni di una generazione nuova di archeologi che sono anche storici, epigrafisti, numismatici, giuristi, che vediamo all’opera a Cagliari e a Sassari con grandissima speranza, perfino con qualche sorpresa.

E poi la genetica con lo studio del genoma, che raggiunge anno dopo anno risultati sorprendenti dalla Gallura ai Campidani (soprattutto per l’età preistorica), testimonianza evidente dell’arrivo di nuove componenti etniche, ma anche di una sostanziale omogeneità di fondo della popolazione sarda di oggi (particolarmente evidente in Barbagia e Ogliastra), pesata sulla base del cromosoma Y e del DNA mitocondriale; il che forse dimostra inoltre una qualche irrilevanza delle forme istituzionali, statuali, giuridiche di fronte alla vita di tutti i giorni di Sardi (vecchi e nuovi) resilienti e radicati in periferie lontane, legati alla terra, attenti a mantenere quasi immutabile e sempre uguale una cultura e un modo di essere tradizionale, radicato nella storia locale. Ovviamente con continuità ma anche con mille momenti di rottura dal neolitico all’età dei Vandali, che cogliamo attraverso i nuovi apporti genetici, segnale di mescolanza e di incontro.

Infine le nuove prospettive che, con uno sguardo rigoroso che vuole davvero decolonizzare gli studi classici ma anche evitare ogni forma di vittimismo e ogni enfasi nostalgica, si affermano in molte Università e Istituti di ricerca, partendo dai modelli nord-africani più resilienti e più legati alla fase post-coloniale, con specifica attenzione per nuovi approcci socio-culturali e patrimoniali sull’essere “autoctoni” o “diventare autoctoni” riferiti alla capacità della geografia di assorbire anche i Romani: termini che, nella loro ambizione essenzializzante, potrebbero forse far inorridire gli antropologi.

Se possiamo usare una formula di sintesi, noi riteniamo che la complessità sia un valore perché esistono variabili geografiche e cronologiche nel momento in cui culture diverse entrano in contatto: ciò a maggior ragione in un’isola, caratterizzata da una ambivalenza di base, ‘punto di passaggio’ lungo le rotte mediterranee, ma anche ‘luogo remoto’ e ‘isolato’: esse, in quanto tali, possono trasformarsi in luogo utopico. Occorre allora evitare di perdere la concretezza e di piegare il dato scientifico a schemi ideologici, riconoscendo la complessità e facendone una leva per leggere la realtà, al di là di facili periodizzazioni di comodo, partendo dalle scritture antiche spesso incatenate al paesaggio, dai monumenti, dalle testimonianze materiali, anche superando il pregiudizio di una antistorica continuità in una realtà liquida: la grande dimensione dell’impero esteso progressivamente su tutto il Mediterraneo, l’articolazione territoriale, i processi biologici, l’evoluzione delle culture e della vita religiosa con questi dei perennemente in viaggio, la presenza di aree marginali hanno avuto influenza sui linguaggi artistici, sulle scuole artigianali, sulle varianti linguistiche, addirittura sulla percezione del tempo che non dappertutto si misura allo stesso modo, nel rapporto tra otium e negotium nelle diverse geografie anche interne alla provincia, influenzate meno profondamente dai modelli italici, iberici, celtici, africani; insieme capaci di accoglienza e di protagonismo. Il mondo che viviamo è l’esito di questa complessità, nel senso che la storia ha un valore solo se riesce a costruire strumenti che ci consentano di operare efficacemente nel presente, partendo dal rispetto per tutti, dalla dignità di ciascuno, guardando sempre verso orizzonti più larghi.

Debbo davvero ringraziare i miei colleghi e amici che sono stati molto generosi con me: Piergiorgio Floris che ha riletto il testo fornendomi puntuali indicazioni; Paola Ruggeri che ha seguito il lavoro per il capitolo sui culti; Raimondo Zucca sempre tanto disponibile e creativo, che mi aiutato sulle città; Giovanni Azzena, Massimo Casagrande, Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Michele Guirguis, Vanna Meloni, Pier Giorgio Spanu, Luana Toniolo, Francesco Muscolino. Per le fotografie sono debitore a Nicola Castangia e alla Regione Autonoma della Sardegna. Come di consueto molte cose sono diventate più chiare dopo le discussioni col tecnico di sempre Salvatore Ganga. E poi Antonio M. Corda Direttore di Unicapress e Editore della Collana, Paolo Maninchedda, Direttore  della Collana, l’intera redazione che mi ha incoraggiato anche nei momenti più difficili, facendomi sentire tra amici. Infine la Fondazione di Sardegna e la Cooperativa Sociale San Camillo de Lellis di Sassari. Ma dietro questo libro c’è però l’appassionato lavoro sul campo di tanti colleghi impegnati coraggiosamente in grandi imprese sempre più internazionali, con uno sguardo largo e un orizzonte finalmente aperto: a loro siamo debitori di tante scoperte, di tante intuizioni, di tanti confronti all’interno dell’ecuméne romana.




Renata Serra, 27 ottobre 2023

Il volume di studi in memoria di Renata Serra, Cagliari, 27 ottobre 2023. Sala del Consiglio Comunale

L’intervento di Attilio Mastino

Il più lontano ricordo che ho di Renata Serra risale alla fine degli anni 60, a Sa Duchessa, nello studio della sua amica Giovana Sotgiu, la mia maestra, che ieri ha compiuto 98 anni di età e che vi saluta tutti con affetto. Con entrambe – la Serra e la Sotgiu, accompagnati da Franco Porrà – nell’estate 74 sono stato a Dubrovnik Ragusa nell’ex Jugoslavia di Tito, per il convegno internazionale Eirene, in un hotel megagalattico che non mi potevo permettere e infatti pranzavamo in camera con i prodotti arrivati da Sinnai: ricordo le interminabili e per me defatiganti visite ai negozi di antiquariato nel corso principale, mille vetrine di artigianato artistico in argento una dopo l’altra, e il colpo di mano di Renata che mi aveva anticipato l’ultimo giorno e aveva acquistato un gioiello straordinario, un ragno d’argento con la sua ragnatela preziosa che intendevo regalare a mia zia Vincenza: Lo stavo già pagando. Me lo portò via sotto gli occhi senza scrupoli e mi accusò a posteriori, quando il ragno iniziò a perdere le zampe, che la colpa era la mia invidia.

Perché Renata con me è stata soprattutto questa, con un rapporto ironico e pieno di sorrisi, che è diventato pian piano di amicizia vera, con lei e con Alberto Deplano, come sul colle di Corchinas a Cornus assieme a Franco Porrà, a Giovanna Sotgiu, alla professoressa di sanscrito Anna Radicchi, quest’ultima esausta a pranzo tanto da scongiurarmi di evitare altre escursioni “in montagna”. Renata non si stancava mai, come in Tunisia e in Algeria dove aveva studiato le basiliche paleocristiane; soprattutto in Sardegna, dove aveva i suoi amici veri, i suoi allievi, i suoi artisti prediletti.

Ce li faceva conoscere nella Scuola di studi Sardi diretta da Giovanni Lilliu, studiando con Marcella Bonello la cattedrale di Santa Giusta, oppure con Mimma Olita e Antonella Mione i due dipinti settecenteschi del Duomo di Cagliari con una relazione pubblicata su Studi Sardi del 1979 o le tante piste seguite con l’allievo prediletto Aldo Sari ad Alghero e in tutta l’isola; con Paolo Benito Serra a Fordongianus; con Gianni Tore, con Anna Maria Saiu, con Alma Casula. Ci parlava dei suoi maestri, Raffaello Delogu, Renato Salinas, Corrado Maltese, Alberto Boscolo. Raccoglieva un’enormità di schede con le foto di Oscar Savio.

Nel suo primo insegnamento a Carbonia e Iglesias aveva conosciuto Don Leone Porru, con il quale avrebbe poi studiato il santuario sulcitano e i suoi frammenti scultorei, le sue pitture, la tradizione relativa ad Antioco arrivato dalla Mauritania in sulcitana insula Sardiniae contermina su una parva navicula.

E poi a Cagliari don Vincenzo Fois che conoscevo da ragazzo nel CSI, rettore di S. Agostino, scomparso nel 2020: una figura di sacerdote capace di coinvolgerci tutti, fino a Pavia, l’antica Ticinum, per le reliquie trasportate dai monaci inviati a Cagliari da Liutprando, che le aveva acquistate e fatte prelevare dal primitivo santuario alle nostre spalle dove il corpo di Agostino restò per oltre due secoli, più tardi collocato nella splendida arca marmorea voluta dai Visconti: lì in San Pietro in ciel d’oro ho visto recentemente una scultura di Pinuccio Sciola donata da Don Vincenzo, che rappresenta il vescovo di Ippona nel suo letto di morte.

A Sassari mi aveva sorpreso l’amicizia profondissima con il canonico del Duomo Pietro Desole autore del bel volume sulla Cattedrale di San Nicola, i retabli, il dipinto della crocefissione, il paliotto, la rappresentazione dei martiri turritani nel bassorilievo marmoreo del presbiterio seicentesco sopraelevato: scene che ricordano da vicino gli scavi a Torres promossi dall’arcivescovo Manca de Cedrelles e si sono ispirati alle statue della cripta del San Gavino che rappresentano i sancti innumerabiles.

A Bosa per la cattedrale di San Pietro, tema della mia relazione per la Scuola di specializzazione che rilesse accuratamente che la Serra volle pubblicata dopo averla riletta accuratamente; il tema è oggetto del bellissimo articolo di Bruno Billeci. E poi ancora a Bosa per il tesoro del duomo con questo reliquario cinquecentesco di bottega cagliaritana; oppure nel castello dei Malaspina, correggendo la lettura degli affreschi di età giudicale, con Mariano IV; a Sagama per l’attribuzione a Nino Pisano dell’Arcangelo Gabriele.

A Cabras con Raimondo Zucca, per la chiesa bizantina di San Giovanni di Sinis oppure nel duomo di Oristano.

Il dolore più grande dieci anni fa per la scomparsa dell’allievo Roberto Coroneo, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, che aveva ricordato con emozione sulla rivista “Domitia” nel 2014, ripercorrendo una strada di formazione e di continuo confronto, ricordando i mille successi, l’apprezzamento generale e il rimpianto di tutti i colleghi.

A Sinnai con Cecilia Contu e gli eredi di Anselmo Contu che a mio avviso sono alla base di questo sconfinato amore per la Sardegna, quando si trattava di costruire dalle fondamenta, dopo Raffaello Delogu, una disciplina che si era limitata quasi esclusivamente all’architettura: si aprivano praterie su tanti campi della storia dell’arte in Sardegna, la pittura, la scultura, l’oreficeria. Sullo sfondo mi pare ci fosse una visione aperta, progressista, sardista, che si manifesta ad esempio nell’inedito carteggio di Emilio Lussu per l’Archivio Storico Sardo del 2018.

E poi gli artisti, da Costantino Nivola a Pinuccio Sciola a San Sperate, che aveva conosciuto per il tramite di Salvatore Naitza e di Alberto Rodriguez, quando il paese contadino del Campidano è uscito da un sonno millenario, quando i suoi abitanti tutti all’improvviso si sono appassionati di arte, hanno creduto nella rivoluzione del sorriso, hanno compiuto un percorso culturale che è stato anche un’esperienza collettiva che oggi possiamo riconoscere ormai entrata nella storia della Sardegna. Ne ha parlato nel volume intitolato Il legno, l’argilla, la pietra. Sculture di Sciola tra il 1960 e il 1990. Fino ad arrivare negli ultimi anni a Mariano Chelo, l’artista che gli avevo fatto conoscere e che ha lo studio in Via Garibaldi, proprio accanto alla bella casa di famiglia in pieno centro, casa che mai ha voluto lasciare. Qui sono esposte le opere un po’ naif di Alberto, con il draghetto colorato beneaugurante che spesso mi è stato donato con grande affetto; mi dicono che ora Alberto si dedica alla gioielleria e alla rappresentazione di barche a vela che navigano su un mare davvero unico.

Le belle pagine di Mauro Dadea in questo volume fortemente voluto dalla Deputazione di storia patria e dall’amica Luisa D’Arienzo colmano oggi una lacuna, ci presentano le tante opere di Renata, riaprono piste e prospettive di ricerca su una storia dell’arte in Sardegna molto allargata dai mosaici tardo antichi del IV secolo fino al medioevo e al Rinascimento: oltre 12 secoli, studiati per nuclei tematici, il contributo originale dell’arte barbarica della Sardegna, prodotto di vere e proprie scuole artigianali poco note; l’età romanica, l’architettura sardo-catalana o gotico-catalana. Oppure i tesori delle chiese partendo da una geografia ricca e rispettosa di tutte le esperienze: dalla chiesa di Bonaria o di San Michele o di San Domenico a Cagliari fino a Telti, Nuxis, Ardauli, Zuri; oppure l’arte giudicale, le innovazioni catalane e spagnole. Infine i maestri, come il Maestro di Ozieri attraverso la lettura del bel volume di Maria Vittoria Spissu allieva di Caterina Virdis. In un momento di sincerità, Renata ammise con me di aver letto un po’ troppo criticamente il volume. Vedo che a Mauro Dadea la questione non è sfuggita.

Poi Pietro Cavaro, il manierismo di Francesco Pinna, fino a Gaetano Cima.

La storia della disciplina, il ruolo di Giovanni Spano; la riflessione sullo stato attuale della ricerca nella storia dell’arte in Sardegna nel tumultuoso incontro in cittadella del 1982, con questa sottolineatura – in Sardegna – che in realtà allagava lo sguardo ad ambito europeo, alle grandi scuole, alle grandi correnti culturali, facendo dell’isola un osservatorio, quasi un crocevia di impulsi differenti.

Nell’articolo che ho scritto pensando a lei, ho tentato di riproporre il tema del rapporto tra i mosaici africani e quelli della Sardegna tanto cari a Renata Serra e a Simonetta Angiolillo, che in questo volume rilegge la villa romana di Capo Frasca: Carales giganteggia come la grande capitale delle province transmarine del regno vandalo, in un quadro cristiano che non rinuncia alla cultura classica pagana e al mito, che popolava ancora la fantasia nei naviganti nel Mare Sardum: sono gli dei pagani che accompagnano il corteo nunziale di Vitula e di Giovanni a Carales, ut ratis incolumis Sardorum litora tangat. L’erba sardonia sarebbe stata addolcita dalle roselline di Sitifis.

Sul rapporto tra pagani e cristiani, come non pensare all’omelia proprio di Sant’Agostino recentemente riscoperta, pronunciata nella basilica della nostra Thignica, Ain Tounga in Tunisia, rivolgendosi i fedeli: Vos ante paucos annos pagani eratis, modo christiani estis, parentes vestri daemoniis serviebant.

Renata Serra ci lascia la sua visione dell’arte, il senso del bello, il gusto per la scoperta: alcune opere monumentali come Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del 500 pubblicata da Ilisso nel 1990 con le schede di Roberto Coroneo, i volumi curati per Poliedro, Jaka Book, Electa, soprattutto questa sua fedeltà alle riviste più amate, Archivio Storico Sardo e Studi Sardi; quest’ultima ancora ci manca.

Questo libro ci restituisce una visione del mondo, un metodo di studio, un orizzonte geografico, in qualche modo anche la sua voce.