Giuseppe Elia Monni, Il corpo della città.

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Scritto da Administrator | 03 Giugno 2015

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Attilio Mastino
Giuseppe Elia Monni, Il corpo della città
Sassari 29 maggio 2015.

Sono convinto che troppe opere prime, anche pubblicate da Editori nazionali e di primo piano, siano passate inosservate in Sardegna: da noi purtroppo non manca il conformismo che premia la stanca ripetizione di stereotipi. Magari mi immagino che alcune opere dense, originali, con straordinarie novità saranno riscoperte solo nei prossimi decenni.

Spero che non sarà questa la sorte dello splendido romanzo di Giuseppe Elia Monni, Il corpo della città, pubblicato da Mondadori, che è fino ad un certo punto un’opera prima, dal momento che nel sito facebook dell’autore - tra le tante pagine in perenne manutenzione - sono riuscito a scovare anche molte altre opere inedite, che promettono davvero novità, uno sguardo fresco e ricco di suggestioni, sulla Sardegna di sempre.

Troppo facile sarebbe pensare ad un debito di Monni nei confronti di Giorgio Todde e del suo romanzo storico sulle indagini dell’imbalsamatore, Efisio Marini, che ci porta anch’esso ad uno scienziato, assistente al Museo di Storia Naturale a Cagliari dal 1861, in contatto con l’archeologo Giovanni Spano.

Ma Gemiliano Deidda vissuto tra il 1721 e il 1810, non solo è un personaggio ben più articolato e risalente, uno scienziato interessato alle scienze matematiche, astronomiche, economiche e tecniche (un “sapiente” per Lalla Careddu), soprattutto un archeologo vero, ma è raccontato in queste pagine con l’originalità che deriva da una rilettura della biografia del protagonista col sapore un poco naif di un genio proiettato pari pari dall’illuminismo del Settecento in una Sardegna arcaica, ancora barocca e spagnoleggiante, appesantita dalla malaria, dalla  feudalità, dalla ingiusta divisione della terra, dall’abbandono delle terre e dalle paludi.  L’arrivo dei Savoia fu inizialmente accolto con una fatalistica rassegnazione ma anche forse segnò un’ulteriore chiusura e impoverimento, per quanto sotto Carlo Emanuele III l’azione del Ministro per gli Affari di Sardegna Giovanni Battista Lorenzo Bogino avrebbe segnato a partire dal 1759 una straordinaria occasione di modernizzazione e di sviluppo.

E naturalmente il titolo Il corpo della città rimanda solo superficialmente alla città del sole di Francesco Alziator, a quella Cagliari che anche Ottavio Olita ha descritto di recente ne Il futuro sospeso, passeggiando lungo gli originali percorsi urbanistici che in qualche modo scandiscono e accompagnano una storia, indicano delle cesure, rappresentano piste da percorrere anche nel tempo. Un luogo tanto diverso dalla Metropolis di Flavio Soriga o dalla città d’acqua di  Giulia Clarkson, che pure è tra le cose su Cagliari che amo di più, con quella scoperta della statua romana che emerge dal fango della villa di Tigellio.

Monni fa una cosa nuova, emozionante, convincente, soprattutto per questa sua capacità di modulare i sentimenti, di incrociare i piani di lettura, come con una macchina fotografica capace di mettere a fuoco o più spesso di appannare, nascondere, occultare, lasciare immaginare fatti, ma anche rimpianti e dolori sconvolgenti, per qualcosa che si riesce a cogliere solo quando sempre è troppo tardi per tutti.

Ad accompagnare questo inusuale romanzo storico c’è lo spessore del tempo, la profondità della storia di una città che ha corpo di donna, una donna supina ed inarcata in una posa oscena, inquietante come quando contempli una donna che non sai se dorme o finge per farsi spiare o è morta: fasciata dalle dure carni delle sue mura eburnee, la Cagliari settecentesca di Monni ha le braccia sterrate stese sui colli che la circondano, il ventre verminoso dei suoi mercati, le mammelle dei suoi granai colmi di pane sottratto ai popolani, e quella cascata di capelli fradici che sono i vicoli della Marina, fin dentro al porto, dove s’affonda il capo rovesciato, nascondendo il volto.  Una città che è una femmina senza pudore, una femmina al sole, che ostenta il suo ventre nudo e sgretolato. A parlare, alla fine del libro, a descrivere da lontano la sua città con mille sensi di colpa e mille rimpianti, si scopre con sorpresa che è proprio il figlio maledetto di Gemiliano, Paolo, il figlio perduto e colpevole, che però nutre in segreto sentimenti di ammirazione per il padre e approfitta del genio di chi l’ha preceduto, riuscendo in qualche modo ad aprire una prospettiva nuova proprio al sogno irrealizzato di Gemiliano, quello di rifornire d’acqua la città di Cagliari perennemente assetata. E ciò ripristinando l’antico acquedotto romano che arrivava dal Sulcis attraverso Siliqua fino al Fangario.  Perché Paolo ha dimostrato insieme il suo coraggio e la sua viltà, la viltà di restare muto col padre, incapace di entrare in contatto con un uomo buono e paziente, fino a quando la Morte non si sarà portata via anche il vecchio, dopo aver preso il bambino Pietro. Il bene e il male intrecciati, la curiosità, il mistero, l’esempio del padre che non va perduto nonostante tutto il dolore del mondo.

Ecco, l’altro tema di fondo è quello della fase romana della storia della Sardegna, che in modo inconsueto viene considerata come il momento vero di modernizzazione e di innovazione, l’epoca alla quale l’illuminismo settecentesco può finalmente far riferimento per superare la fiacca staticità del Seicento spagnolo e forse anche l’arcaicità della Sardegna di oggi.  Forse la storia romana è in qualche modo depositaria di un’idea di progresso che si era persa nel tempo e che alla fine del 700 inizia a riemergere. Dunque la ricerca di resti romani, i censimenti, come ad Elmas, a Uta, a Decimmannu, a Siliqua, a Domusnovas, lungo il Cixerri, un acquedotto che nella fantasia serviva 2 milioni di persone.  Un’opera monumentale comunque ammirevole, per la quale furono spese risorse e genio e tempo e sudore, per dar da bere a tutti, uomini e donne, e bestie, famiglie ricche e famiglie povere. Gemiliano ci crede, investe, spende, rovina la sua famiglia,  ma Paolo saprà assorbire una lezione di vita.

In questo quadro il viaggio a Torino per Deidda era stato il momento di svolta, e oggi spiega questa sua docenza universitaria nella Cagliari del Settecento, questa sua presenza quasi schizofrenica all’Università, il contrasto con il Rettore, le invidie, i suoi progetti non condivisi dai concittadini e dai colleghi professori ben più nobili di lui, dal figlio maggiore, l’assurda scommessa di un pazzo che desidera risolvere il problema della sete, che bonifica gli stagni, che riforma il sistema monetario del regno, sostenuto da quelli che l’autore forse con troppa indulgenza considera i riformatori piemontesi.

Ovviamente nel romanzo questo aspetto dell’estraneità di Deidda al mondo cagliaritano appare decisamente forzato, ma forse spiega  il destino torinese di alcuni dei frammenti del  Mosaico di Orfeo con la lira che doma gli animali, che svolge un tema analogo a quello dello straordinario mosaico riemerso recentemente nel Palazzo di Re Barbaro a Porto Torres. Quello di Cagliari fu in realtà solo ri-scoperto nel 1762 dal Deidda a  Stampace dietro la chiesa dell’Annunziata: la relazione originale conservata all’Archivio di Stato di Cagliari e utilizzata da Monni racconta le circostanze della prima scoperta nel terreno degli eredi di Giovanni Saba, che in realtà l’aveva trovato nel 1707 in età spagnola e non aveva considerato adeguato il ricavato della vendita dell’analogo mosaico delle fatiche di Ercole, spedito a Filippo V con poca soddisfazione economica. Sono gli anni del passaggio di sovranità tra Madrid e Torino, con l’intermezzo austriaco.

Ora capiamo perché sarebbe stato proprio Deidda a fare arrivare l’Orfeo di Stampace al regio Museo di Torino. E’ nella capitale subalpina, dove era stato qualche anno prima, che Deidda aveva appreso quelle idee di modernità legate in qualche modo alla cultura protestante, tra calvinismo e giansenismo, ad una nuova concezione della vita, alla capacità degli uomini di costruire la propria storia, grazie a questa fede sconfinata nell’uomo che caratterizza il secolo dei lumi alla vigilia della rivoluzione francese.

E poi nel romanzo ci sono tante storie, legate alle curiosità, alle passioni, agli scavi effettuati da Don Gemiliano: l’anfiteatro diventato una cava, le enormi cisterne, il lungo canale sotterraneo che corre per 50 km, le piscine, le condutture, gli archi, la necropoli di Tuvixeddu e poi Tuvumannu, la strada reale e la strada per il Sulcis, i ponti, le saline, i misteri e i tesori di un tempo lontanissimo, di cui rimangono leggende, superstizioni, racconti mitici, legati alle streghe, alle fate, fino alla Bruxa di Domusnovas, una testa mozzata che nel buio della notte appare spaventosamente a Paolo, quasi a vendicare la bambina la lui violentata in spiaggia, la ninfa adorata tanto da ucciderla.

Il mio mestiere mi consiglia di sorvolare sulle pagine, davvero forti, che descrivono la dissezione del cadavere della grossa e tozza contadinotta stesa sul marmo tra gli svenimenti degli studenti nell’aula anatomica dell’Università: una lezione che per tanti versi poteva essere non di anatomia ma anche di archeologia, perché l’archelogo è come un chirurgo e gli scavi sugli strati di un terreno che testimoniano il trascorrere delle culture, effettivamente assomigliano alle incisioni crudeli e irreversibili di un medico.

Ma non posso sorvolare sulla mano felice che l’autore dimostra nel raccontare i dialoghi notturni di Gemiliano con la sua Flora, che lo attendeva nel letto, tutte le notti, tutte le notti della sua vita Flora lo avrebbe atteso e accolto, anche quando lei in realtà non c’era già più, ma lui continuava a parlarci, raccontando il suo amore per lei e per il piccolo Pietro, ammalato tanto da morirne, una sorte che Gemiliano finisce per accettare  dopo i mesi felici trascorsi col figlio amato tra Villa d’Orri e Sarroch ospiti del Marchese di Villarermosa, perché il dolore e la gioia finiscono per essere la stessa cosa, si intrecciano inspiegabilmente, solo insieme riescono ad esprimere il senso della vita.

Monni si dimostra molto colto, ammira la cultura classica, conosce bene il mito: Flora ricorda l’Euridice, la dolce sposa di Orfeo,  morta per il morso di un serpente in un prato mentre camminava oppure mentre correva tentando di sottrarsi alle attenzioni del pastore Aristeo, il figlio di Apollo e della ninfa Cirene, il mitico colonizzatore della Sardegna. Orfeo, disperato, allora intonò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade e Persefone a far tornare in vita la sua amata. Da allora le sue canzoni riuscirono ad addolcire le bestie, a far piangere le Erinni.

Plutone e Persefone si convinsero finalmente a lasciare andare Euridice, a condizione che Orfeo camminasse davanti a lei e non si voltasse a guardarla finché non fossero usciti alla luce del sole. Durante il viaggio dall’oltretomba Orfeo si fece forza e non si voltò mai, poiché sapeva che, se lo avesse fatto, non avrebbe più rivisto la sua amata; per queste ragioni cominciò a suonare la sua lira, cercando di placare il desideriodi lei. Arrivato finalmente alla luce del sole, Orfeo si voltò per guardare la sua donna; Euridice, però, non era ancora completamente uscita dal regno dei morti e dunque, quando Orfeo posò gli occhi su di lei, finì per svanire in una nuvola. Persefone, quindi, spiegò ad Orfeo le ragioni della scomparsa di Euridice, persa per sempre. Così Orfeo, disperandosi e piangendo, rimase muto e solo, senza mangiare né bere, finché non giunse alla fine dei suoi giorni.

C’è tutto questo dietro i pannelli torinesi del mosaico di Stampace e la ripresa dell’amore per Euridice in queste pagine è straordinaria, perché anche Gemiliano non riusciva più a ritrovare Flora accanto a lui, nel letto freddo a Torino, tanto che gli sembrava di impazzire. La solitudine, la vecchiaia, il dolore per le colpe inconfessabili di Paolo, la rabbia, ma anche una superiorità di spirito che lo rendeva impermeabile alle ironie dei colleghi cagliaritani, in particolare dei nobili di Castello, del viceré, della casta che l’aveva tenuto in disparte e non l’aveva capito, mentre piena è la sintonia con i servi Simplicio e Giustina, quest’ultima riscattata da un harem arabo in Barberia con gli zecchini del Capitan Porcile.

Monni ci conduce per mano in un periodo storico poco frequentato, riesce a ricostruire i sapori e i climi di una Sardegna lontana, arcaica, quasi una prostituta avvizzita, che consuma il proprio territorio, ma con tanti fermenti che annunciano il futuro nuovo, con un’idea di modernità che spiega tante pagine di questo libro. Come il contadino che radica, si spezza la schiena, produce per quelli che verranno  sicuro di non godere i frutti del suo lavoro, forse c’è allora un modo diverso per guardare il futuro della Sardegna, senza egoismi, con più generosità e più rispetto, con la voglia di costruire per le generazioni che verranno.

Ultimo aggiornamento Mercoledì 03 Giugno 2015 12:54

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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