Per Passione e missione Scritti inediti di don Peppino Murtas.

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Scritto da Administrator | 27 Giugno 2015

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Per Passione e missione
Scritti inediti di don Peppino Murtas
Oristano, Auditorium San Domenico, 18 giugno 2015

Attilio Mastino

Grazie all’arcivescovo di Oristano Mons. Ignazio Sanna e al vescovo d’Ogliastra Mons. Antonello Mura per avermi proposto di presentare davanti ad un pubblico di amici questo libro curato da  Lucio Casula e a Carla Murtas, ai quali dobbiamo questa paziente ricerca sugli scritti inediti di Peppino Murtas pubblicati da Soter editrice nella collana del Coordinamento del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Sarda. La presenza del mio amico Vittorio Sozzi, responsabile del servizio per il progetto culturale della CEI e soprattutto per me direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università della CEI accompagna un momento di condivisione che non può essere solo locale.

Questo volume – Per passione e missione – appare molto utile per ricostruire con freschezza tanti aspetti sconosciuti della figura di un sacerdote, di un paese Paulilatino, di un’isola, la Sardegna negli anni del secondo dopoguerra. Io stesso ho ricordi che per tanti versi si sovrappongono e si incrociano: rileggendo le sue omelie ho ritrovato tanti temi che gli erano cari, soprattutto ho scoperto cose che non sapevo,  anche se l’ho incontrato decine di volte. L’uomo mi aveva davvero colpito per la sua preparazione, per la sua capacità di ascolto, per la sua autorevolezza, per la sua pazienza, perfino per il tono della voce, per questa sua nobiltà e per questo suo distacco, per questo straordinario desiderio di entrare in sintonia con i giovani.

Credo di aver conosciuto per la prima volta don Peppino a Roma, ad un incontro nazionale della Gioventù italiana di Azione Cattolica, quando ero ancora al Liceo e il vescovo mons. Francesco Spanedda mi aveva chiamato come Propresidente diocesano a seguire i circa 600 tesserati, fino all’assorbimento della GIAC nell’Azione Cattolica nel 1970. Anche se non se ne parla nel suo curriculum, ero sempre convinto che don Peppino fosse allora un dirigente nazionale della Giac, e questo per il suo ruolo, per il prestigio di cui godeva, per l’attenzione che ci dedicava, per i temi che trattava, come a proposito dell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, scritta – dice ora Papa Francesco – quando il mondo vacillava sull’orlo di una crisi nucleare - tema che era stato l’oggetto della tesi di Teologia discussa a Cuglieri nel 1964. Ne avrebbe fatto un libro pubblicato da Fossataro nel 1970.

Egli in realtà già dal 1963 era divenuto assistente regionale della GIAC per la Sardegna, affiancando il delegato regionale il laico Pietro Meloni, mio maestro e oggi nostro vescovo emerito di Nuoro. In questo ruolo l’ho incontrato più volte negli anni immediatamente successivi alla chiusura del concilio dal 1965, soprattutto negli incontri di La Madonnina di Santulussurgiu tra il 1968 e il 1970, lui sempre protagonista, capace di animare i giovani provenienti da tutte le diocesi ma anche gli assistenti ecclesiastici che ci seguivano alcuni forse con meno entusiasmo. Ma per Bosa c’era il can. Antonio Francesco Spada, una risorsa per la Chiesa sarda. Più tardi a Cagliari lo conobbi come assistente ecclesiastico della FUCI, perché era riuscito a sviluppare quella dimensione pedagogica che sentivamo non come un’imposizione ma come un confronto alla pari.

Col passare degli anni vidi Don Peppino all’opera in un ruolo per lui meno congeniale e più esposto alle polemiche, come consulente ecclesiastico del Comitato provinciale del Centro Sportivo Italiano di Oristano, come testimoniano le foto di questo libro, con sullo sfondo le bandiere che uniscono l’azzurro e l’arancione del CSI in occasione di tanti incontri, tanti dibattiti sullo sport servizio sociale, tante premiazioni di giovani che si erano distinti nel calcio, nella pallavolo, nell’atletica, nel ciclismo, nel tennis tavolo. Io nel ruolo di presidente del Comitato CSI di Bosa, con oltre 2000 tesserati e poi di vicepresidente regionale, durante la presidenza di Pino Zucca, con l’assistenza di don Vincenzo Fois, il parroco di Sant’Agostino a Cagliari.  Allora eravamo noi a fornire gli arbitri per il calcio, non sempre apprezzati nell’Oristanese. Ma Don Peppino sarebbe rimasto più fedele di me al CSI e nella sua bibliografia vedo un articolo sul meeting nazionale del CSI “Famiglia e sport” del settembre 1993.

Un mondo lontanissimo che riemerge per me con emozione in queste pagine. Oggi, a guardare indietro nel tempo, eravamo davvero una banda di pazzi furiosi, sfiancati da un impegno matto e disperatissimo, che però ci aveva messo in relazione con tanti luoghi e tanti giovani della Sardegna: per la prima volta potevamo organizzare e seguire anche le ragazze, dopo la soppressione della FARI; si creavano occasioni di incontri inattesi che non si dimenticano, a Sant’Antonio di Macomer, a Sant’Antioco di Scano Montiferru, a Bosa Marina, a Bau Mela e Bau Mandara di Villagrande Strisaili, a Santulussurgiu e a Cuglieri.

Infine, il terzo livello di conoscenza, stimolato da Raimondo Zucca, legato al rapporto di Don Peppino con altri intellettuali oristanesi: Peppetto Pau, Giorgio Farris e tanti altri studiosi alcuni non sempre rigorosissimi, che hanno ispirato i temi oggetto delle sue attenzioni nella rivista “Quaderni Oristanesi” tra il 1982 e il 1999. La scoperta degli scavi paleocristiani di Cornus di Ovidio Addis, le iscrizioni, i monumenti archeologici, le basiliche, i documenti medioevali, la storia del Giudicato, come quando fondò nel 1997 e iniziò a presiedere l’ISTAR fino al 2000, splendidamente affiancato dal direttore Giampaolo Mele. Emergono dai suoi articoli alcune figure centrali come il can. Salvator Angelo De Castro, forse uno dei falsari delle Carte d’Arborea. E poi il poeta Pietro Delitala, il senatore Salvatore Parpaglia, Enrico Costa, Grazia Deledda,  Antonio Garau, Tonino Ledda alle origini del Premio città di Ozieri. Infine avevo letto le cose scritte sull’Oristanese, ma anche su Joyce Lussu, Chiara Samugheo, Giampaolo Mele, Giulio Angioni. Articoli, studi, ma anche raccolte di poesie, racconti, recensioni di uno studioso che si sforzava di capire e di farsi capire dagli altri.

Eppure, anche se forse lui non l’avrebbe ammesso, per me le cose più limpide e originali rimangono oggi le sue omelie, le sue prediche, i suoi discorsi religiosi, carichi di sentimenti, aperti alla carità, testimonianza in anni tanto difficili di una sensibilità che arde e che sentiamo bruciargli  addosso e che non gli consente di tacere di fronte all’ingiustizia, al dolore, alla malattia. Don Peppino si muoveva in un orizzonte di gioia, di serenità, di luce, aveva la capacità di leggere il mondo con gli occhi della speranza,  sapeva indicare strade nuove, aveva il dono della compassione.

Questo libro rende bene il senso profondo di un impegno che è stato animato dalla gioia di amare, di partecipare con gli altri, di contribuire a cambiare il mondo. Basta leggere l’omelia “Ferite da rimarginare” per la festa della Pentecoste nella marina del porto di Oristano il 7 giugno 1987, dove pure non mancano gli accenti critici nei confronti delle autorità, che non potevano - se vogliamo non possono - condannare il porto alla foce del Tirso a restare <<troppo grande e vuoto>>. Parlando ai marinai e ai pescatori, don Peppino afferma un’idea di progresso che non si fa inquinando, uccidendo, abbruttendo; rileva che <<non solo il nostro spirito ha ferite da rimarginare, ma anche la bellezza della natura è stata ferita>>, anche <<per le folli decisioni venute dall’alto>>. Occorre battersi contro <<la povertà e la stanchezza di questa parte della Sardegna, benedetta da Dio ma poco valorizzata da noi>>. E’ necessario che <<ciascuno non deleghi ad altri la parte di responsabilità che ha nell’impegno per il bene comune>>, per difendere la bellezza del creato, come in occasione della giornata missionaria del 21 ottobre 1990, a proposito della necessità di predicare il Vangelo a tutte le creature, perché <<la nostra presenza nel mondo, in qualche modo, riguarda l’umanità ma anche tutte le altre creature, la natura da usare, abbellire e rispettare senza farle violenza>>.  Sembra di sentire le parole indimenticabili che 25 anni dopo sarebbero state pronunciate dal nostro Papa Francesco nell'omelia della Messa per l'inizio del suo pontificato, nell'invito a tutti gli uomini di buona volontà di essere <<custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, dell'altro e dell'ambiente>>. Temi che ricorrono nella Enciclica “Laudato sì, sulla cura della casa comune” proprio di questi giorni.

Sul piano politico, a leggere queste pagine scritte nei tempi lunghi dell’attesa di quella che si immaginava la Grande Rinascita, ci sono tanti spunti: la legge 11 giugno 1962 n. 588 aveva approvato il Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, che inizialmente metteva in campo 400 miliardi di lire (da qui la LR 11 luglio 1962 n. 7). Fu la prima Giunta Del Rio con l’Assessore Lucio Abis a proporre il 26 luglio 1968 la delibera regionale del Piano di rinascita economica e sociale della Sardegna, ma occorre arrivare al 12 febbraio 1974 con la terza Giunta Del Rio per il dibattito sull’industrializzazione in Sardegna e sulla battaglia il rifinanziamento della Rinascita con mille miliardi  (Legge 268 del 1974).

Qui ci sono tante anticipazioni, tante prese di posizione, tante cose positive, che derivano a Peppino Murtas da questa sua vocazione di sacerdote, di insegnante, di giornalista, di studioso di storia e di sociologia: la promozione della cultura da parte di un intellettuale che insieme era fortemente radicato nella realtà sarda dopo la difficile esperienza di parroco di Paulilatino: allora la sete di giustizia sociale, di solidarietà e di pace, contro la miseria, il dolore, l’emigrazione, l’ingiustizia nella distribuzione della terra, l’idolatria del denaro, l’odio, l’avidità, l’egoismo, perfino il potere ecclesiastico. Sullo sfondo c’è l’esempio luminoso delle prove di Giobbe, ingiuste, incomprensibili ma salutari, come nell’omelia del 10 febbraio 1991. Impressiona questa sua capacità prensile non solo di cogliere i problemi ma anche di tracciare soluzioni concrete, come a proposito della cooperativa tra i pastori di Paulilatino. Nella predica su I mercanti del tempio del 6 marzo 1988 Don Peppino ribalta l’episodio per affermare che <<la fiducia nell’uomo è tra i segni nuovi>>, ovviamente ripensando a Matteo e alla polemica di Cristo con Farisei e Sadducei, incapaci di leggere i segni dei tempi evocati da Giovanni XXIII  nel discorso di indizione del Concilio Gaudet mater ecclesia. Dietro ogni frase c’è lo spessore di letture profonde, di rimandi incrociati, di richiami sottintesi.

C’è soprattutto la voglia di accogliere, ascoltare, dialogare, camminare insieme, come tra gli infelici emigrati sardi in Lombardia, che don Peppino visita a Fagnano, all’immediata periferia occidentale di Milano, una frazione di Gaggiano, o a Gallarate: ci si commuove perché saranno loro a quotarsi per offrirgli un biglietto aereo per un rientro più comodo in Sardegna, per poter avere il parroco amato un giorno in più a Milano.

In questo volume ci sono tanti aspetti significativi attuali anche nel dibattito d’oggi: la lingua sarda, la traduzione in italiano, il rapporto delle parlate locali con una lingua standard e unitaria. Più in generale il tema del linguaggio al quale eravamo così abituati, padrone e servo,  il servo-pastore, la domestica chiamata la teracca, la serva. Modi di dire ma anche forme di sfruttamento legate alla costante minaccia di un licenziamento sui due piedi, che nella visione di Don Peppino in realtà si accompagnano all’espressione di una cultura più ricca e profonda, che ciascuno di noi si porta dietro anche inconsapevolmente e che risale di generazione in generazione, perché proprio tra la povera gente si conservano abilità artigianali, conoscenze, linguaggi che non si perdono.

Emergono da queste pagine tanti problemi che spiegano il mancato sviluppo, legati all’analfabetismo, alle conseguenze della guerra, ad una agricoltura di sussistenza, ad una pastorizia ancora arcaica; il freddo, la pioggia, i furti di bestiame, lo strozzinaggio. La difficoltà dell’associazionismo tra pastori abituati da secoli all’individualismo, la crisi casearia, il ricatto dei grandi caseifici, la sovrapproduzione, il confronto duro con l’industria. Temi che vengono affrontati non in generale, ma con l’indicazione puntuale di interventi radicali, di investimenti, di forme nuove di solidarietà, capaci di rilanciare l’economia di un paese che ancora viveva nel medioevo.  E poi gli incendi che bruciano il raccolto, come a Tanca Regia, il freddo, il vento, i mali che affliggono le persone care, temi che don Peppino ci racconta registrando le testimonianze e con gli occhi di un giovane pastore, che vive anni di solitudine, di sofferenza, di disagi. E poi le miniere, la cardatura del lino, il lavoro duro di muratore. Negli stessi anni (1967) in Consiglio Regionale ci si interrogava sulle misure da adottare per eliminare la proprietà agraria assenteista e ogni altra forma di rendita parassitaria.

Eppure in Sardegna tutto ha una dimensione più intima e personale, perché quello che interessa a chi scrive è soprattutto l’individuo come persona: l’attesa della morte, la malattia, il rapporto con gli animali, le vacche, i maiali, i cavalli, le pecore,  i poveri prodotti di un’economia di sussistenza, la fame, la stanchezza per chi sa di arricchire solo i latifondisti che affittano la terra ai pastori, i contratti ingiusti, gli scioperi, perfino il carcere. La partecipazione al dolore del mondo, l’invalidità, la perdita di una persona cara, una classe medica che si occupa solo dei ricchi, così come i carabinieri si ostinano a proteggere solo coloro che contano, i nobili, i giudici, i ricchi esponenti di un’aristocrazia agraria di provincia.  Ma anche, in positivo, la devozione popolare e i tanti luoghi significativi di un paese che ritrova nella festa una dimensione di felicità, come per Santa Cristina di Paulilatino, con la statua contesa con gli abitanti di Bonarcado.

E poi le forme arcaiche del fidanzamento e del matrimonio che si rapportano con il ripetersi delle Missioni, l’arrivo di Padre Manzella, il pentimento del peccato, le tradizioni popolari, le feste, la morte con i suoi riti, le sue nenie, le sue forme tradizionali che si possono seguire nel loro evolversi nel tempo. Torna in mente il volume di Ernesto De Martino sul lamento funebre in Morte e pianto rituale, pubblicato per la prima volta proprio alla fine degli anni 50, con un occhio proprio verso la Sardegna.

A leggere questo libro, a sentire la voce degli emigrati diventati operai e delle loro donne, in Continente, in Francia o in Canada, costretti a fuggire per vivere, tornano alla mente tante pagine di Gavino Ledda, come quelle sull’emigrazione in Australia di Padre Padrone: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che Ledda descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo.   E sembra di vedere le immagini del documentario di Fiorenzo Serra del 1959 con gli emigrati sulla corriera della Sita che parte da Cossoine per Sassari attraversando Torralba e Bonnanaro con sullo sfondo Monte Arana o le immagini della nave che trasporta gli emigrati carichi di valigie di cartone legate con lo spago; o la frase sul maledetto treno del mio paese, quanta gente hai portato via. Ce le ricordiamo quelle navi, come la Lazio, piccole, instabili, dove da bambini venivamo stipati come bestiame dai marinai napoletani. È questa la transumanza degli uomini che Fiorenzo Serra raccontava, in parallelo con la transumanza delle pecore, mentre la cinepresa coglieva il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra. Tutto esattamente come la corriera che scivola nel buio in una poesia di Don Peppino: la corriera scivola nel buio  / densa di fumo / che pare una taverna. / Il cielo senza luna.

La Paulilatino di questo volume non è però il paese letterario immaginato nel romanzo di Gavino Ledda: è un paese reale, che il prete toccato dalla bellezza di Dio osserva con gli occhi dolci di chi sa amare, sa comprendere, sa compatire; guarda con orrore la sorte dell’operaio ucciso da una gru o ustionato in una fonderia come Tommaso. Capisce chi sceglie la strada della protesta o del comunismo (anche se in una poesia dedicata ai compagni appare duro con chi bestemmia), presta denaro che sa non sarà mai restituito, ascolta e capisce. Sa soprattutto partecipare alla gioia dei giovani per una promessa, per un fidanzamento, un matrimonio, la nascita dei gemelli. E le donne sono anch’esse protagoniste, protette dai loro sposi ma sempre pronte a sacrificarsi e ad amare. Il paese di Paulilatino non dimentica il suo parroco.

Così nelle poesie fin qui inedite è coerente la rivalutazione di Pier Paolo Pasolini, sorprendente ancor più perché espressa nei giorni della morte e della condanna. Alla rovescia ricordo che su Frontiera Remo Branca (già direttore del settimanale cattolico Libertà a Sassari) giustificava in qualche modo l’uccisione del regista travolto – questo era il titolo - dai fiotti purulenti della sua passione omossessuale. Ma il mondo cattolico era più ricco e complesso di quanto non possa apparire ad uno storico superficiale. Per Don Peppino quella di Pasolini (un poeta in forma di rosa) fu una vita scomoda, un comportamento reprensibile / per la società. / Una voce messa a tacere, ma anche una voce che rimarrà per sempre. E la sua fu una morte violenta, / una morte voluta dal potere. Così il dramma dell’aborto, una pratica che non si può accettare, ma anche la partecipazione al dolore della madre, l’incubo, il morale a pezzi, una pena che si sconta in silenzio per tutta la vita e che appartiene  oltre che ai genitori alla coscienza del sacerdote confessore.

Se guadiamo le date, certo chi non lo conosceva resterà sorpreso pensando alla posizione ufficiale della Chiesa, che pure don Peppino sapeva interpretare con saggezza e senza fughe in avanti.

Capace sempre di accogliere, di non fermarsi in superficie, di capire le ragioni profonde di tutti. In una terra che ancora lo ama.

Ultimo aggiornamento Sabato 27 Giugno 2015 13:37

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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