Attilio Mastino
56° Premio letterario città di Ozieri
Ozieri, 26 settembre 2015
Cari amici,
per il secondo anno ho presieduto la Giuria il Premio Ozieri fondato da Tonino Ledda nel 1956: rileggendo il volume di Salvatore Tola sui primi 50 anni di premi letterari in lingua sarda ho ritrovato i grandi temi della poesia nazionale sarda, documentati da tanti autori che mi sono cari fin dai tempi degli studi universitari a Cagliari quando nel 1971 fu votata la prima mozione del Consiglio di Facoltà di Lettere presieduto da Giovanni Lilliu sulla lingua sarda e gli anni degli Amici del libro, citerò solo Aquilino Cannas, così legato a Nicola Valle.
Emerge la continuità nel tempo del premio Ozieri guidato da personaggi come Antonio Sanna, Nicola Tanda, Domenico Masia, Cicito Masala, Rafael Catardi, Vanni Fadda, Antonio Canalis, Vittorio Ledda; ma anche la capacità di innovazione, lo svecchiamento della consuetudine poetica, il superamento dei moduli dell’Arcadia, del manierismo e della mediocrità, il passaggio dall’oralità alla scrittura, l’unificazione ortografica della lingua sarda fin dal 1974, l’allargarsi degli orizzonti con la sezione degli emigranti, la prosa narrativa in lingua sarda, il coinvolgimento della scuola e delle istituzioni pubbliche.
Un processo di modernizzazione che ha inciso eccome sulla letteratura in lingua sarda ma anche sulla vita di tutti i giorni. Fu negli anni 70 che si verificò <<un sussulto di appartenenza, una tensione e un riscatto a livello antropologico, si creò un movimento a favore dell’identità etnica e il premio Ozieri ne divenne il vero catalizzatore, ne assunse in anni di indifferenza e benessere la guida>>. Dal 1992 con la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e poi con la legge regionale 26 sulla Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna e successivamente con la legge 482 sulle Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche, la lingua sarda diventa una delle componenti del patrimonio culturale del popolo sardo nella sua specificità e originalità, nel momento in cui si è progressivamente andata affermando la nostra identità di sardi. Il sardo diventa forse oggi anche uno strumento per stabilizzare i docenti precari nell’isola e bloccarne l’emigrazione attraverso l’insegnamento della lingua materna, come prescrive la recente proposta di legge del PsdAz su Lingua, cultura e ordinamento scolastico. Oggi 26 settembre si festeggia la Giornata europea delle lingue voluta dal Consiglio d'Europa, con il patrocinio dell’Unione europea il 6 dicembre del 2001. Tra gli obiettivi generali della Giornata europea ci sono la sensibilizzazione sull’importanza dell’apprendimento delle lingue per migliorare il plurilinguismo e la comprensione interculturale, promuovere la diversità linguistica dell’Europa e incoraggiare uno studio delle lingue esteso a tutta la vita.
Abbiamo concluso nei giorni scorsi i lavori della giuria del Premio Ozieri, al cui interno operano personalità che ho sempre ammirato per la loro preparazione e per il loro impegno.
Dunque sono stati conseguiti molti obiettivi e ha finalmente prevalso la lezione di tanti premi letterari, di tante riviste scientifiche (come Quaderni Bolotanesi, oggi rappresentata da Alberto Merler), soprattutto del Premio Ozieri nel quale da lungo tempo vengono ammesse le diverse lingue in uso in Sardegna, il sassarese, il gallurese, il tabarchino, l’algherese, oltre al sardo. Le differenze sono una ricchezza alla quale non intendiamo rinunciare, perché l’identità della Sardegna di oggi è il momento finale di incontro tra lingue e culture diverse.
Vorrei oggi sottolineare come l’identità della Sardegna sia influenzata più di quanto non si sia fin qui ammesso dalle eredità romane, espressione di una storia lunga che in qualche modo condiziona anche la società di oggi. La lunga età romana (durata oltre sette secoli), in particolare l’età imperiale con la sua dimensione mediterranea che metteva in contatto la riva Sud e la riva Nord del nostro mare è stato credo il momento più significativo della storia della Sardegna. Tra le tante eredità del momento romano ricorderei la lingua sarda innanzitutto, la toponomastica, ma anche i percorsi della viabilità, il paesaggio trasformato dall’uomo, alcune forme dell’insediamento, le vocazioni stesse del territorio, le colture agricole, l’allevamento, ma anche le attività minerarie, la pesca, la raccolta del corallo, per non parlare di alcune tradizioni popolari. Se si ritorna indietro nel tempo fino all’età dei Giudicati, si può accertare una «spiccata atmosfera romanza» della Sardegna medioevale; in particolare nel Regno del Logudoro i condaghi documentano usi e tradizioni che si possono leggere in filigrana attraverso la documentazione scritta. L’isolamento secolare della Sardegna ha determinato quella «tendenza arcaicizzante» del sardo che conferisce ai primi documenti «un aspetto quasi esotico».
Dobbiamo ora ammettere l'impianto sostanzialmente «romano» della cultura sarda di età bizantina e giudicale; e ciò non soltanto nell'area a ridosso della colonia di Turris Libisonis, in un ambito geografico caratterizzato culturalmente come il più «romano» dell'isola, che ha lasciato traccia evidente anche nella denominazione di una curatoria: il termine Romania (oggi Romangia) compare già pienamente documentato nel Condaghe di San Pietro di Silki, con riferimento ad un'area circoscritta che potrebbe conservare il nucleo delle assegnazioni terriere ai coloni di Turris Libisonis.
Nel suo ultimo libro pubblicato nella serie dell’Università di Oxford (The Periphery in the center: Sardinia in the ancient and medieval Worlds), il mio compianto amico Robert Rowland dell’Università di Phildelphia, ha sintetizzato la storia della Sardegna dai nuraghi all’età medioevale: troppo semplicistico gli pare il concetto di “isolamento” per la Sardegna interna, un luogo comune che vuole le popolazioni locali ribelli ai Romani e resistenti grazie all’insularità ed all’asprezza del rilevo geografico della Barbagia, tema che dovrebbe essere verificato da un punto di vista territoriale e valutato nelle diverse epoche storiche. Questo cliché sarebbe per gran parte determinato dal fatto che la letteratura antica si è occupata della Sardegna quasi esclusivamente in occasione della conquista e delle diverse ribellioni. La ricostruzione storica non può partire da formule, ma deve tener conto della complessità delle situazioni: le influenze esterne incrociate sulla Sardegna non possono essere definite sbrigativamente come “interferenze” su una cultura di sostrato solida ed immutabile. Quella sarda fu una società tradizionale e fortemente conservatrice, certo, ma costantemente trasformata e rinnovata dall’esterno. Gli indici di romanizzazione della provincia (che sarebbe meglio considerare indici di prosperità), se attestano attardamenti e resistenze e se testimoniano una vasta povertà rurale in alcune aree, confermano però che i Romani non furono soltanto degli esploratori e dei rapaci sfruttatori delle risorse locali, ma contribuirono a trasformare l’intera società sarda. L’esperienza romana fu dunque più vasta e più profonda di quanto non sia stato fin qui supposto: in questo senso la Sardegna, periferica da un punto di vista culturale ma collocata geograficamente al centro dell’impero, fu in età romana il grande ponte attraverso il quale passarono innovazioni e rivoluzioni culturali originatesi nelle diverse rive del Mediterraneo. Da questi scambi, più intensi e vivaci di quanto non si pensi, alimentati dagli spostamenti degli isolani in altre province e dai tradizionali legami con l’Africa, la Sardegna fu arricchita immensamente, partecipando essa stessa alla costruzione di una nuova cultura unitaria, ma mantenendo anche nei secoli una sua specificità. Esplorare il confine tra romanizzazione e continuità culturale (tra Change e Continuity) è compito che lo storico deve ancora affrontare, al di là della facile tentazione di impossibili soluzioni unitarie. Le scoperte di Sant’Efisio di Orune in piena Barbagia hanno oggi dimostrato la profondità della penetrazione romana nella Sardegna interna.
In un recente romanzo storico, che mi è sembrato davvero originale (Il corpo della città), Giuseppe Elia Monni colloca come tema di fondo la fase romana della storia della Sardegna, che in modo inconsueto viene considerata come il momento vero di modernizzazione e di innovazione, l’epoca alla quale l’illuminismo settecentesco può finalmente far riferimento per superare la fiacca staticità del Seicento spagnolo e forse anche l’arcaicità della Sardegna di oggi. Forse la storia romana è in qualche modo depositaria di un’idea di progresso che si era persa nel tempo e che alla fine del 700 inizia a riemergere. Dunque la ricerca di resti romani, l’anfiteatro, le terme, l’acquedotto lungo il Cixerri, che nella fantasia serviva milioni di persone e poteva essere riattivato. Un’opera monumentale comunque ammirevole, per la quale furono spese risorse e genio e tempo e sudore, per dar da bere a tutti, uomini e donne, e bestie, famiglie ricche e famiglie povere. Il protagonista ci crede, investe, spende, rovina la sua famiglia, ma il figlio perduto saprà assorbire una lezione di vita.
Proprio a questi temi realmente discussi nel corso del Settecento piemontese ci rimanda qui ad Ozieri l’opera di Matteo Madao nato ad Ozieri nel 1723, gesuita e teologo, lessicografo sardo, studioso di storia e di antichità isolane, il quale fu il primo a studiare le origini della lingua sarda al di là delle convenzionali spiegazioni precedenti e arrivò a proporre la creazione di un sardo «illustre» attraverso il «ripulimento» della variante logudorese anche attraverso un ritorno alla sua matrice latina. Per usare le parole di Dino Manca l'autore sviluppò una riflessione sulla lingua sarda, giungendo a proposte di tipo puristico, «proponendo di rifarsi al modello autorevole della matrice latina, per salvaguardare la purezza lessicale, grammaticale e sintattica di una lingua che avrebbe voluto nazionale». Al di là delle questioni strettamente glottologiche, il Madao manifestò vere e proprie aspirazioni patriottiche nei confronti della Sardegna. Nel Saggio d’un opera intitolata il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina, Cagliari 1782, egli tracciò il percorso ideale attraverso il quale il sardo dovrebbe diventare la lingua "nazionale" dell'isola. I Savoia però, per ragioni di strategia politica e interessati all'egemonia sull’intero continente italiano, nonostante avessero fino ad allora privilegiato il francese, optarono anche in Sardegna per l'uso dell'italiano. E se avessero poi invece scelto il francese o se i Savoia avessero mantenuto la Sicilia ?
Allora la domanda tante volte elusa è questa: ci sono prove che dimostrino che nell’antichità esisteva davvero una coscienza nazionale in Sardegna, ben diversa dal nazionalismo di stampo ottocentesco che troppe volte viene sbandierato per ragioni di piccolo cabotaggio ?
Debbo confessare che ho lavorato nelle ultime settimane per l’”Archivio Storico Sardo”, ad un articolo sull’espressione latina Natione Sardus, che è ampiamente documentata dalle iscrizioni per indicare l’origo, il luogo geografico di origine ma anche il domicilium isolano, una base solida sulla quale impostare un ragionamento.
Per un paradosso della storia, proprio l’acerrimo nemico dei Sardi Cicerone attribuiva loro la condizione di natio: nell’accusa ad un governatore disonesto i Sardi non potevano testimoniare poiché ipsa natio non era in grado di distinguere la libertà dalla servitù e interpretava la libertà come mentiendi licentia. I numerosi testimoni sardi che accusavano il proconsole Scauro usavano una loro unica lingua, perseguivano un loro unico scopo nascosto, non già espressione del risentimento per un torto subito ma solo della speranza di ricompense poco limpide: nunc est una vox, una mens non expressa dolore sed simulata.
Come si fa a credere ad un gruppo di testimoni sardi, se hanno tutti lo stesso colorito olivastro, se parlano tutti una stessa lingua incomprensibile – il proto sardo dei nuragici, la lingua perduta che ha preceduto il latino - , se tutti senza eccezione appartengono alla stessa nazione ? (sin unus color, una vox, una natio est omnium testium ?).
L’espressione natio è utilizzata pochi anni dopo anche nel de re rustica di Varrone, a proposito dei Sardi Pelliti della Barbaria sarda alleati di Hampsicora durante la guerra annibalica, avvicinati ai Getuli africani: quaedam nationes harum (caprarum) pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia.
La preziosa indicazione natione Sardus è documentata epigraficamente per 26 marinai delle flotte militari di Miseno e di Ravenna specialmente in età antonina: l’espressione assume una caratterizzazione specifica per il fatto che si riferisce all’appartenenza ad una provincia o ad un’isola, ben delimitata geograficamente e articolata in una cinquantina di populi diversi, che prima di Caracalla non avevano ancora ottenuto la cittadinanza romana. Questi Sardi non abitavano soltanto sulle coste, ma anche in piena Barbaria.
Una sicura continuità per l’impiego del termine natio riferito ai Sardi, è garantita anche nel tardo impero, se Girolamo chiama Eusebio il primo vescovo del Piemonte natione Sardus e se il Liber Pontificalis allo stesso modo definisce il Papa Ilaro e il Papa Simmaco natione Sardi.
Ma la vicenda non si interrompe in età medioevale e durante i regni giudicali: la Nasio sardescha è citata ancora nel 1391 nel Proceso contra los Arborea. L’espressione era stata utilizzata già l’anno precedente da Brancaleone Doria nella lettera inviata per conto di Eleonora. Non è il caso di andare oltre, ma sappiamo che la tradizione non si perde e la formula continua a ricorrere sostanzialmente senza modifiche in molti documenti della fine del medioevo e in età moderna.
A distanza di tanti secoli, il dibattito sulla discussa “sovranità” della Sardegna ai giorni nostri, eredità di una storia che tocca i Giganti di Mont’e Prama come le cattedrali romaniche costruite dai sovrani dei quattro giudicati sardi, si arricchisce forse di un nuovo tassello: e allora sbagliava Camillo Bellieni, il padre del Sardismo moderno nel Novecento, studioso della Sardegna romana, a ritenere che il popolo sardo sia oggi solo una <<nazione abortiva>>, <<nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo>>. Pur con i suoi limiti e le sue differenze semantiche e funzionali, l’espressione natione Sardus può dirci forse qualcosa ancora oggi, può testimoniare la ricchezza e la diversità della nostra storia, senza perdersi in un dibattito sterile sul nazionalismo ottocentesco. Dobbiamo invece riscoprire l’identità profonda e quello che Nicola Tanda chiama lo statuto plurilingue della letteratura sarda del passato e sostanzialmente bilingue nel presente, in un ambito di progressivo pluriculturalismo.
Ieri su L’Unione Sarda Anna Cristina Serra scriveva che questa sera però l’ospite più di riguardo deve essere la poesia: e allora grazie ai tanti protagonisti di questa 56° edizione del premio Ozieri e grazie ai tanti autori che hanno partecipato, molto al di là dei riconoscimenti assegnati ufficialmente.
Lasciatemi ricordare oggi un personaggio brillante e di statura internazionale come Ignazio Delogu, scomparso cinque anni fa, premiato ad Ozieri nel 1977, capace di chinarsi verso la propria terra d’origine suscitando emozioni forti. Ho avuto il privilegio di fondare assieme ad Ignazio Delogu l’Associazione degli amici di San Pietro di Silki, anni dopo che lui aveva tradotto un testo fondamentale per i nostri discorsi, il Condaghe di Silki: il documento è base della letteratura in volgare sardo, con quella sua prosa che esprime con uno stile narrativo, che sembra ricalcare il percorso degli agrimensori lungo il terreno, con l’uso continuo di verbi di moto che collegano alcuni dei confini scelti autonomamente dallo scriptor «fra gli infiniti punti possibili» (benit, iumpat, baricat, clonpet, collat, falat, cludet).
Come poeta Ignazio ci ha fatto scoprire quella che Papa Francesco chiama la tenerezza, lo sguardo partecipe verso l’ambiente, la natura, la gente di Sardegna chiamata a custodire l’isola amata.
Cun s’oju de s’arveghe t’abbàido è una poesia che vuole piantare negli occhi ciechi di tutti noi una quercia, un leccio, un gelso, un fiore di giglio giallo come il limone verde e come l’erba che cresce in primavera. Con l’occhio della pecora ti guardo e con l’occhio del falco della volpe del cinghiale e della donnola con l’occhio della fontana aperto giorno e notte con l’occhio della rugiada che si chiude al mattino.
Cun s’oju de ogni pedra
de ogni fiore e de ogni animale
e de ogni attera cosa ch’istada
in s’oju de s’arveghe
t’abbàido terra mia
pro t’istimare e ti cantare
(a cua) un’anninnia.
Ultimo aggiornamento Mercoledì 30 Settembre 2015 08:11