Presentazione del volume di Ottavio Olita, Anime rubate, Città del sole
Sassari, Biblioteca Comunale, martedì 24 novembre ore 17,30
La cronaca di questi ultimi mesi rinnova una ferita, quella del più noto esponente della criminalità e del banditismo sardo compatito o addirittura esibito come campione della “sardità”, “balente”, testimonial in concorsi letterari come in Costa Smeralda o anche oggetto di curiosità morbosa da parte di turisti, villeggianti, autorità di passaggio.
Il libro di Ottavio Olita, Anime rubate, rimette le cose a posto, racconta il banditismo e i sequestri di persona nei tragici anni 70 e 80 dalla parte delle vittime e non dei carnefici, accompagna l’educazione di un ragazzo difficile, Giorgio, nipote di uno dei protagonisti di tanti romanzi di Olita, il capitano dei carabinieri Gino Murgia: il ragazzotto saccente che giustifica tutto, immagina il bandito come un Robin Hood che toglie ai ricchi per dare ai poveri, ama i paradossi più superficiali, inizia a capire ed a crescere a contatto con il dolore, la rabbia, lo strazio di chi ha subìto un sequestro di persona. Il suo percorso di maturazione passa attraverso una comunità di recupero animata da un sacerdote che è facile identificare tra gli amici di Ottavio e attraverso i discorsi con due ex sequestrati.
Un percorso di maturazione che, immaginiamo, riguardi più in generale anche l’opinione pubblica isolana, fortemente impegnata a giustificare il sequestro e forse anche l’inerzia degli onesti, in particolare di alcuni intellettuali che oggi debbono fare i conti con i loro errori, con i loro giudizi su quelli che sono stati oltre 120 tragici sequestri di persona, alcuni attribuiti a Barbagia rossa. Con motivazioni diciamo così politiche e giustificazioniste, che appaiono ben radicate nella letteratura isolana: tutti hanno coinvolto esecutori materiali, mandanti, professionisti dall’apparenza rispettabilissima.
Sebastiano Satta, che da poco abbiamo ricordato ad un secolo dalla scomparsa, amava la Barbagia e non nascondeva di nutrire sentimenti di simpatia e rispetto per la folta schiera di banditi che, per sfuggire alla cattura, si davano alla macchia. Secondo il poeta nuorese, i banditi altro non erano che degli uomini divenuti simili ad animali randagi, che manifestavano con le loro gesta fuorilegge una barbarica ribellione a un ordine sociale ingiusto e inaccettabile. La poesia sattiana mette in luce tutta la tragedia della Sardegna, immortalata come "madre in bende nere che sta grande e fiera in un pensier di morte".
Ma Satta non ha conosciuto i sequestri di persona nelle forme moderne e incivili descritte in questo romanzo coinvolgente, opera di un autore sensibile e dotato di spirito critico. Oggi, anche se il sequestro è un reato di cui nessuno parla più, anche se si è completato un processo collettivo di rimozione più o meno consapevole, la criminalità in Sardegna ha fatto un salto di qualità, allargandosi sul versante della droga, degli investimenti immobiliari, delle speculazioni, coinvolgendo anche avvocati, giudici, politici collusi ma insospettabili. Colpendo come in questi giorni i sindaci onesti. Dunque è ancora necessario raccontare le angosce, le paure, la violenza, la capacità che ha l’uomo di diventare peggiore delle bestie quando mette via umanità e sensibilità per farsi rubare l’anima dal richiamo del denaro, anche di quello sporco di fango e di sangue. Dunque Olita si schiera senza riserve dalla parte delle vittime dei reati, dalla parte di chi desidera giustizia contro le prevaricazioni, percorrendo un itinerario di impegno civile.
Questo romanzo prosegue un filone fortunato aperto con Il faro degli inganni a Capo Comino e rimette in campo i tre investigatori che affiancano i magistrati, Gino Murgia, Nicola Auletta e Giuliano Deffenu, impegnati a condurre un’indagine parallela che rivela sorprese ed emozioni. Li avevamo lasciati sulle curve della strada per Capoterra, di fronte alla moto Ducati travolta da un furgone guidato da un killer, a piangere la morte di una donna amata, Francesca.
In questo volume le pagine più straordinarie sono quelle dedicate ad una ragazza sequestrata a La Caletta di Siniscola, Alice, strappata dalle braccia di Alberto e trasferita brutalmente e con violenza nei paraggi di Perda Liana in Ogliastra, il tacco rupestre, il segnacolo visibile da Correboi, che per Ignazio Camarda si trasforma prodigiosamente in una mammella, nel capezzolo di una gigantessa, titta e sa terra, tapicciu de gigantessa colcada palas a terra.
Qui il tempo si dilata a dismisura immobile, mentre i banditi incappucciati e armati moltiplicano l’angoscia e la disperazione per la donna incatenata, per un trattamento davvero disumano e violento nei confronti di una ragazza con i suoi pudori, le sue intimità, le sue aspirazioni a costruirsi un futuro pieno di speranza, che ora è definitivamente rubato. Mentre i pastori che osservano da lontano girano la faccia da un’altra parte e fingono di non vedere, per un paradosso della vita, proprio qui il sollievo viene dall’odore del bosco, dal profumo delle foglie umide sotto il grande corbezzolo, dal vento e dall’acqua, soprattutto dagli animali, gli uccelli, i serpentelli, i cinghiali, i mufloni; e poi i versi delle capre e delle rane, i suoni del bosco abitato da tanti animali che finiscono per essere l’unico sostegno per la sequestrata.
<<Ma c’erano anche insetti che mi terrorizzavano, come enormi ragni pelosi che spesso entravano nella tenda e che io bruciavo o scacciavo usando la fiamma di una candela che mi era stata data per leggere qualche giornale che mi veniva messo a disposizione: E tante mosche che tormentavano le mie piaghe>>. L’unica vera consolazione in tante mattine di desolante solitudine era però un riccio timido e affettuoso: quel riccio, confessa Alice, come tutti gli altri animali del bosco, mi aiutò a custodire l’idea del bello, proprio mentre i sequestratori carichi di rabbia volevano dimostrare con le loro azioni come l’orrido e la brutalità della vita prevalgano sulla bellezza. E proprio per questo volevano ostentatamente cancellarne ogni manifestazione.
Lo ritroveremo alla fine della storia questo riccio dagli aculei arrotondati e dagli occhietti neri e vivaci, per chiudere un cerchio assieme al gatto di casa e al ricordo ora più dolce del bosco delle sue prigioni.
Più in generale in queste pagine c’è il contrasto quasi schizofrenico di una Sardegna ancora barbara e selvaggia da un lato e la bellezza delle opere dei suoi artisti come Costantino Nivola, lo splendore dei suoi paesaggi, la dolcezza del suo sole, delle sue spiagge come a Chia nei pressi dell’antica Bithia, dove vediamo le protagoniste crogiolarsi al sole, oppure anche in Ogliastra, perfino nei momenti della dura prigionia, intorno ai luoghi favolosi ed amati. E anche il contrasto tra la rozzezza dei criminali e il sentimento di affetto tra le giovani donne, infine l’amore che per Gino inizia lentamente a svilupparsi di nuovo dopo la tragedia dell’incidente in moto proprio in direzione di Chia, su quella strada non più maledetta.
Dietro queste pagine si avverte un’esperienza vissuta, un trauma ancora sanguinante, una storia vera, magari come quella di Silvia Melis (oppure di Daphne e Annabel Schild), raccontata riservatamente al cronista giudiziario dai protagonisti, dalle vittime e dagli emissari, perché questo romanzo affianca realtà e fantasia, utilizza sullo sfondo quasi una colonna sonora radicata nel tempo e nello spazio, che pure si incrocia con l’invenzione di tante pagine, che aprono capitoli nuovi, cari alla sensibilità dell’autore. Ma non è un’invenzione la vicenda delle 14 statuine di Costantino Nivola, recuperate in un muretto a secco di un ovile di Fonni, poi finite al museo di Orani, tra speculazione, traffici illeciti, bieco affarismo dei mercanti d’arte e di alcuni latitanti sardi: una vicenda ricostruita a tutto tondo, in un modo che ancora una volta testimonia la sensibilità artistica dell’autore. In passato abbiamo visto Olita leggere la San Sperate di Pinuccio Sciola, quando il paese contadino del Campidano era finalmente uscito da un sonno millenario, quando i suoi abitanti tutti all’improvviso si erano appassionati di arte, avevano creduto nella rivoluzione del sorriso, avevano compiuto un percorso culturale che è stato anche un’esperienza collettiva di liberazione che possiamo riconoscere ormai entrata nella storia della Sardegna. Quando il grigio paese di fango all’improvviso era diventato candido, aveva riscoperto i colori, le figure, le emozioni, aveva condiviso la passione, le curiosità, i desideri di un ragazzo come tanti, chiamato a guidare tutta la sua gente, che non era rimasta a guardare, ma si era fatta incantare e quasi sedurre.
Anche nelle pagine de Il futuro sospeso Olita aveva raccontato con delicatezza e incanto il percorso seguito per riemergere dalle macerie della vita: scrivere o raccontare diventava un momento di riflessione prima di ricominciare a vivere, una pausa per indagare su se stessi, con tanti sentimenti contrastanti, con una capacità nuova di compatirsi per l’ingiustizia del dolore e insieme con la speranza per i tempi nuovi che si annunciano, con emozione e senso del mistero.
Con questo nuovo romanzo, attraverso tanti colpi di scena, attraverso la gioia della liberazione dell’ostaggio da parte di una pattuglia di polizia, anche dopo i fatti di Osposidda che pure hanno segnato una svolta vera, il lettore capisce come gli anni tragici dei sequestri continuino a mantenere aperte nel tessuto sociale della Sardegna ferite profonde, ancora non del tutto rimarginate, perché l’omertà, la paura di interi territori in mano ai banditi, quando l’intera Sardegna era stata posta sotto sequestro finiscono per condizionare pure la storia di oggi.
Sarà il pentimento del nonno, ormai in punto di morte, a costringere Bettina a percorrere con generosità e altruismo una strada dolorosa alla ricerca di una terribile verità: il percorso dei protagonisti parte dalla Via Crucis di una pasqua romana e dai singhiozzi di fronte alle parole nuove di Papa Bergoglio, che invitano a varcare una soglia, ad affrontare le proprie responsabilità, a muoversi verso nuovi orizzonti di senso.
Dunque per perdonare e per perdonarsi occorre sapere e capire, abbattere il muro del silenzio e della vergogna, ritrovare l’identità rubata, completare un percorso di riabilitazione: solo la conoscenza di quello che avvenne realmente negli anni dei sequestri in Sardegna può oggi farci arrivare ad una pacificazione che non può evitare il tema del risarcimento, anche emotivo, di chi ha sofferto, pianto, patito di fronte a belve assetate di sangue, di fronte a magistrati collusi (aleggia ancora una volta il sequestro di Silvia Melis, l’intitolazione di Piazza Repubblica al giudice suicida), comunque incapaci di chiudere risolvendole le inchieste più spinose, anche a causa di comportamenti anomali da parte di alcuni avvocati. Alcuni palazzi di giustizia che venivano osservati – forse ingiustamente - con qualche riserva. Una rete di complicità che neppure la procura distrettuale Antimafia sembra esser riuscita a soffocare e che forse sopravvive ancora oggi. Dunque i reati rimasti impuniti, le ombre su alcuni patrimoni, gli eredi che beneficiano di grandi ricchezze. Ma anche i fallimenti di imprese come quella dei fratelli Vinci.
C’è nei romanzi di Olita un altro aspetto, che mi piace far emergere: quello del ruolo svolto da alcune donne, che finiscono per determinare i processi positivi: così la deliziosa Gaia-Sandra o la splendida Giulia-Giovanna de Il Futuro Sospeso; la Francesca del Faro degli inganni; così Bettina, Alice, Margherita, in questo romanzo. C’è soprattutto un amore intenso e contrastato per la Sardegna, da Perda Liana e da Gairo Taquisara in Ogliastra, lungo la vallata del Flumendosa o lungo la ferrovia del trenino verde; ma anche fino alla punta di N.S. di Gonare al di là di Correboi, da Oliena a Fonni, dal Tonneri fino al nuraghe Ardasai di Seui, da Seulo a Desulo. Luoghi amati per il paesaggio naturale, ma anche per le persone, per le sofferenze, per il senso di giustizia che è la leva su cui fare forza per un futuro diverso, che credo sia iniziato proprio tra Oliena e Orgosolo ad Osposidda col sequesto di Tonino Caggiari.
Qualche mese fa Flavio Soriga ha scritto che è davvero incredibile quanto poco si sia scritto in questi anni sui sequestri di persona, tenuto conto dell’immensità dell’orrore che un certo numero di sardi ha compiuto ammantando assai spesso le proprie azioni con una vena di presunta giustizia sociale e godendo di diffusissima omertà: <<Quanto disonore è venuto a questa terra per questo crimine, compiuto spesso a danno di bambini, donne, anziani e comunque sempre di innocenti. Orrori, violenze, torture, vite rovinate, famiglie distrutte, ferocia e spietatezza>>.
Ottavio Olita già vent’anni fa ha dimostrato di respingere il conformismo e con l’inchiesta sul caso Manuella, che si è mossa tra mille condizionamenti, ripresa nei mesi scorsi su “Chi l’ha visto”, ha scelto una nuova prospettiva per leggere la realtà, perché, ha recentemente scritto, la letteratura potrebbe ora impegnarsi per un risarcimento morale collettivo, che non può prescindere da una rilettura critica dei terribili anni che ormai abbiamo superato, anche se tante anime sono state rubate nell’indifferenza, senza che si determinasse quella reazione che deve stare alla base di una società civile.
Con questo romanzo ci lasciamo alle spalle i pensieri di morte di Sebastiano Satta e la Sardegna si apre con dolcezza verso un futuro luminoso di speranza, perché davvero vorremmo che giungesse la primavera, con le parole di Pedru Mura, il poeta di Isili. Vorremmo chi colet ridende su beranu:
In su muru ‘e s’odiu
Aperibi una janna
Chi siat de artura tantu manna
Cant’est artu su sole a mesudie.
Chi siat de largura tantu larga
Cant’est largu su coro ‘e sa natura ;
pro chi colet ridende su beranu
chin tottu sos profumos ch’hat in sinu;
pro chi avantzet cantande s’arbèschia
chin tottu sos lentores de manzanu;
pro chi si nde confortet su desertu
e ti torret sos fizos fattos frores.