Fiorenzo Serra e la Sardegna degli anni 50
Sassari, Aula Umanistica, 27 novembre 2015
Cari amici,
Grazie a Maria Margherita Satta per l’invito ad intervenire a questo seminario di studi sul tema “Antropologia Visuale e ricerca sul Campo” promosso dal Laboratorio di Antropologia Visuale del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione del nostro Ateneo che nel nome ricorda la figura di Fiorenzo Serra. Grazie agli amici della Società Umamitaria-Cineteca Sarda e a tutti gli intervenuti, che hanno testimoniato l’utilizzo di nuove categorie per descrivere e comprendere alcuni momenti fortemente identitari del patrimonio etnografico della Sardegna. Grazie a tutti i presenti.
Mi è stato chiesto di ripercorrere brevemente l’esperienza di Fiorenzo Serra, regista, preside, amico, che ho conosciuto con qualche preoccupazione ad Isili nel 1982, quando ho presieduto per la prima volta gli esami di maturità al Liceo Scientifico. Avevo solo trent’anni ed ero ancora un ragazzo timido e insicuro; mi spaventò l’arrivo del burbero ispettore scolastico Fiorenzo Serra che percorreva in lungo e in largo tutta la Sardegna per verificare la regolarità degli esami: l’armonia in commissione, le modalità delle prove, la qualità dei docenti, l’impegno nella compilazione dei registri. Furono momenti frenetici: quando terminate le formalità di rito finalmente risalì sulla sua auto e se ne partì, rivolgendomi un sorriso affettuoso, trassi un respiro di sollievo.
L’avrei rivisto più tardi mille volte a Sassari e a Nuoro in tante altre occasioni, soprattutto nelle serate trascorse al Rotary dove ci presentava i suoi cortometraggi, i suoi film, soprattutto quello davvero strabiliante sull’Ardia di Sedilo girato da Mario Vulpiani alla fine degli anni 50, un frammento che documenta tradizioni religiose che sopravvivevano prodigiosamente dall’età antica nella valle del Tirso in ricordo dell’imperatore romano Costantino. Un piccolo tassello che conserva il ricordo dei cavalleggeri al servizio del dux bizantino cristiano di Forum Traiani, sul limes verso la Barbaria pagana, l’organizzazione della Sardegna giudicale, le forme arcaiche della religiosità popolare in Sardegna, colte per la prima volta con una capacità prensile di scendere in profondità attraverso il tempo. Ci aveva spiegato la difficoltà tecnica di collocare le cineprese in modo da poter seguire la corsa sfrenata dei cavalli che da Su Frontigheddu si fanno strada nella polvere fino all’arco dedicato CONSTANTINO MAXIMO AVGVSTO per salire fino al santuario e iniziare il carosello rituale, con il sapore arcaico di una Sardegna vera. L’ho incontrato spessissimo al piano terra del palazzo Cincilla, dove collaborava con Mario Atzori, Maria Margherita Satta, i loro allievi, passava le giornate montando il materiale girato in tutta la sua una vita, se è vero che tra il 1948 e il 1969 era riuscito a girare ben 55 documentari quasi tutti a colori. Un patrimonio incredibilmente ricco, che pian piano fa ora riemergere una Sardegna lontanissima, tanto diversa da quella che la Giunta Regionale voleva presentare al grande pubblico negli anni della Grande Rinascita, alla vigilia dell’approvazione della legge 11 giugno 1962 n. 588 sul Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, che inizialmente metteva in campo 400 miliardi di lire.
Due anni fa la Società Umanitaria Cineteca Sarda e il Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione hanno promosso un convegno su Fiorenzo Serra regista etnografico ed intellettuale che, a partire dagli anni ’50, ha realizzato tanti splendidi documentari sulla Sardegna. Nella stessa occasione è stato presentato, nel nuovo teatro comunale, un cineconcerto intitolato Isura da filmà, Fiorenzo Serra e la Sardegna filmata in libertà; lo spettacolo è stato realizzato con la proiezione di numerosi spezzoni, girati tra gli anni ’50 e ’60 da Serra e appositamente montati da Marco Antonio Pani; la proiezione del documentario è stata accompagnata dalle musiche di Paolo Fresu.
Nell’ambito dello stesso convegno sono stati affrontati, secondo differenti prospettive, anche gli interessi etnoantropologici che sono alla base di gran parte della produzione cinematografica di Fiorenzo Serra. In particolare, sono stati proiettati alcuni documentari chiaramente etnografici: Costa Nord (1954), Pescatori di corallo (1955), Nei paesi dell’argilla (1955), Artigiani della creta (1956), Sagra in Sardegna (1957), Maschere di paese (1962), L’autunno di Desulo (1966), Carbonia anno Trenta (1966), Un feudo d’acqua (1967), Dai paesi contadini (1967), La novena (1969). Ma voglio ricordare il documentario su San Francesco di Lula uscito a partire dal 1976, in parallelo con Il Consumo del Sacro di Clara Gallini. Come dimenticare anche i primi documentari, L’invasione delle cavallette del 46 o Arte rustica in Sardegna (1948) o Terra di Artigiani (1949), La terra dei nuraghi (1950), Costumi della Sardegna (1952) ?
Prima ancora della Rinascita, Fiorenzo Serra aveva raccolto nel lungo documentario L’ultimo pugno di terra, 97 minuti, pubblicato nel 1965, tante esperienze e tante immagini di una Sardegna arcaica girate negli anni precedenti. Collaborava con lui il filosofo del diritto Antonio Pigliaru (scomparso nel 1969), ispiratore di un’intera generazione di giovani intellettuali isolani, nel 1949 fondatore di Ichnusa, che portava con se il sapore fresco di una sardità profonda, radicata sulle sue origini orunesi e sulla sua Barbagia. Temi che nel lungometraggio di Fiorenzo Serra esplodono nelle bellissime scene della transumanza delle greggi di pecore da Fonni verso la Nurra, nella rappresentazione della vita dei pastori fatta di solitudine e di sofferenza, ma anche di scoperte quotidiane come l’emozionante nascita di un agnello che perde la placenta, accolto dal gregge quando ancora non riesce a reggersi sulle zampe, collocato con altri agnelli nella tasca di una bisaccia – sa bertula - sotto la pioggia. Il nuraghe massiccio della prima scena testimonia le origini preistoriche della pastorizia sarda che continuava a vivere in uno spazio dove il tempo si misurava in altro modo, una dimensione parallela perduta, interpretata dal pastore, testimone finale di una sapienza antica. Ma nel film c’è anche l’eco del volume di Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta.
Così c’è Pigliaru nell’intervista quasi televisiva al pastore che racconta che i sardi che non sanno rubare sono destinati a restare miserabili, ad essere disprezzati, a non essere amati in famiglia. Ci sono gli animali che vivono con gli uomini, certo le pecore transumanti per tratturi millenari, ma anche gli asini, i cavalli, i buoi, i cani, perfino le volpi temute tanto che non se ne riesce a pronunciare il nome. Nel volume Antiles Mario Medde ha descritto le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci colpiscono, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati. Esplode in quelle pagine straordinarie l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas da Norbello verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna materna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia, dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare.
La Giunta Regionale Corrias e l’Assessore ittirese alla rinascita Francesco Deriu, patrono di Peppe Pisanu, non volevano una rappresentazione così dura della Sardegna, con Carbonia ormai quasi decrepita con i suoi casermoni a vent’anni dalla magniloquente fondazione mussoliniana; gli Assessori volevano un lungometraggio capace di esaltare il progresso dell’isola e gli effetti benefici della rinascita a lungo desiderata. E invece, nel film restaurato per i Quaderni della Cineteca Sarda, in questa versione ritrovata a fatica partendo dai negativi, dai positivi, dagli spezzoni e dai cortometraggi, c’è in realtà molta emozione, molta tristezza, molta amarezza, molta verità vera di vita, molta poesia che rimanda ad un amore profondo per la propria terra sfortunata. C’è anche molta polemica contro la famiglia esclusiva, quei legami troppo stretti, che in qualche modo condizionano lo sviluppo della comunità e riducono i diritti di tutti. Debbo dire che un anno fa il restauro filologico ha restituito un documento unico ed emozionante, un vero capolavoro, capace di leggere in profondità la Sardegna, lasciando da parte i luoghi comuni e le leggende, proprio come quella del pugno di terra che il creatore avrebbe utilizzato per collocare la Sardegna in mezzo al mare, imprimendo l’impronta del suo piede destro per formare l’Ichnussa del mito. Una leggenda da abbandonare, evidentemente un racconto mitico ripreso dal celebre libro Sardegna quasi un continente di Marcello Serra, pubblicato nel 1958, un autore che sicuramente Fiorenzo non amava.
Accanto a Pigliaru ci sono soprattutto Peppe Pisanu e Manlio Brigaglia, autore quest’ultimo di gran parte del commento, c’è Peppino Fiori con i suoi baroni Carta e la sua laguna di Mare ‘e pontis, la sua Società del malessere; c’è l’antropologo tiesino Luca Pinna, Michelangelo Pira, Giuseppe Zuri alias Salvatore Mannuzzu, c’è la consulenza di Cesare Zavattini. Soprattutto c’è uno straordinario circolo di intellettuali progressisti che era interessato a suscitare nello spettatore reazioni capaci di innescare una rivolta partendo da una riflessione non convenzionale sull’isola, di denunciare i mali della Sardegna, di convincere l’opinione pubblica del diritto della Sardegna ad essere risarcita, di provocare, di stimolare, per raccogliere le forze sane, smuovere la politica, avviare reazioni non di rigetto ma di amore più grande. Per mettere in evidenza l’estraneità di uno Stato esattore e inquisitore, l’assenza totale di investimenti. Per sottolineare la distanza quasi schizofrenica tra il vecchio che permea di sé quasi tutta l’isola e il nuovo, che ancora non riesce ad affermarsi, se anche Cagliari, <<la città d’acqua>> di Giulia Clarkson è fatta di baracche cadenti a Santa Gilla, di casotti a Giorgino e di edifici distrutti dalle bombe a due passi dalla Rinascente.
Il restauro della pellicola ci ha restituito il sapore originario, dopo che l’autore l’aveva profondamente rimaneggiata per poter essere accettata dai sardisti e dai democristiani che governavano la Regione Sarda durante la III e la IV legislatura sotto la presidenza di Efisio Corrias, come l’Assessore all’Industria e commercio Pietro Melis (P.S.d'A.), ai Lavori pubblici Giovanni Del Rio, al Lavoro e pubblica istruzione Paolo Dettori, alla Rinascita Francesco Deriu.
Con la IV legislatura dal 26 luglio 1961 Paolo Dettori diventava Assessore all’Agricoltura e foreste, Pietro Melis all’Industria e commercio, Giovanni Del Rio ancora ai Lavori pubblici, Francesco Deriu alla Rinascita. Pietrino Soddu comparirà solo a conclusione di questa vicenda a partire dal 14 dicembre 1963 proprio come assessore alla rinascita in Viale Mameli, nello scorcio della IV legislatura e della penultima Giunta Corrias. Fu Pietrino Soddu a venire incontro a Fiorenzo e a chiudere con un compromesso che certamente non riteneva esaltante la vicenda di questo documentario che sarebbe stato poi premiato a Firenze dall’Agis al Festival dei popoli. Ma il capolavoro non è quello premiato, ma invece quello che la precedente Giunta Corrias non aveva gradito e che voleva impietosamente cestinare.
Tutta la vicenda è stata ricostruita in mille dettagli per le Edizioni Il Maestrale da Giuseppe Pilleri, Paola Ugo, Gianni Olla, Laura Pavone, Maria Margherita Satta, mentre la figlia Simonetta Serra ci ha raccontato Fiorenzo, scomparso nel 2005, e lo ha fatto con delicatezza e rimpianto.
Del resto L’ultimo pugno di terra ha un prima e un dopo: basta vedere le immagini pubblicate da Delfino per la mostra alla British Academy di Roma per rendersi conto di come l’isola descritta da Thomas Asbhy nel 1906 fosse diversa, ancora più preistorica e selvaggia, una terra rimasta prodigiosamente quasi fuori dal tempo, chiusa nella sua identità, irrigidita nei suoi costumi millenari che rimandano ai “Sardi Pelliti” raccontati da Tito Livio durante la guerra annibalica, che abitavano ancora in capanne o in pinnette come a Paulilatino, che macinavano il grano nelle mole di pietra, che utilizzavano la corrente dei ruscelli per muovere i molini ad acqua.
Quella mostra di un anno fa a Roma ci aveva comunicato la memoria fotografica di questa Sardegna archeologica, ma anche paesaggistica e demo-antropologica di un secolo fa, con quelle straordinarie immagini, che raccontano un passato che oggi sembra lontanissimo, ma che a sua volta era lontanissimo dalla prima vera documentazione uscita dalla Sardegna ad opera del can. Giovanni Spano alla metà dell’Ottocento. Sembrano trascorsi millenni, con un’isola che era in realtà una terra incognita, che finalmente si scopriva al mondo, vista da Ashby attraverso l’obiettivo e da Serra attraverso la cinepresa con mille curiosità, con passione, con competenza, con uno sguardo intelligente e partecipe. Una Sardegna lontana, segnata in tutte le sue regioni storiche da un paesaggio dell’età del bronzo, visto attraverso documenti inediti, che ci consentono oggi di ritrovare un mondo che pure ci appartiene nel profondo.
Proprio nella Paulilatino degli anni ‘50, ripercorrendo di recente la vicenda di Peppino Murtas, ho riscoperto la sete di giustizia sociale, contro la miseria, il dolore, l’emigrazione, l’ingiustizia nella distribuzione della terra, l’odio, l’avidità, l’egoismo. Attraversano l’opera di Fiorenzo Serra tanti problemi significativi che riguardano anche il mondo d’oggi: la lingua sarda, più in generale il tema del linguaggio al quale eravamo così abituati, padrone e servo, il servo-pastore, la domestica chiamata la teracca, la serva. Modi di dire ma anche forme di sfruttamento, che in realtà si accompagnano all’espressione di una cultura più ricca e profonda, che ciascuno di noi si porta dietro anche inconsapevolmente e che risale di generazione in generazione, perché proprio tra la povera gente si conservano abilità artigianali, conoscenze, linguaggi che non si perdono.
Emergono da questi documentari tanti problemi che spiegano il mancato sviluppo, legati all’analfabetismo, alle conseguenze della guerra, ad una agricoltura di sussistenza, ad una pastorizia ancora arcaica; il freddo, la pioggia, i furti di bestiame, lo strozzinaggio. La difficoltà dell’associazionismo tra pastori abituati da secoli all’individualismo, la crisi casearia, il confronto duro con l’industria. E poi gli incendi che bruciano il raccolto, il freddo, il vento, i mali che affliggono le persone care, con gli occhi di un giovane pastore, che vive anni di solitudine, di sofferenza, di disagi. E poi le miniere, la cardatura del lino, il lavoro duro di muratore. Negli stessi anni in Consiglio Regionale ci si interrogava sulle misure da adottare per eliminare la proprietà agraria assenteista e ogni altra forma di rendita parassitaria.
Eppure in Sardegna tutto ha una dimensione più intima e personale, perché quello che interessa è soprattutto l’individuo come persona: l’attesa della morte, la malattia, il rapporto con gli animali, le pecore soprattutto, i poveri prodotti di un’economia di sussistenza, la fame, la stanchezza per chi sa di arricchire solo i latifondisti che affittano la terra ai pastori, i contratti ingiusti, gli scioperi, perfino il carcere. La partecipazione al dolore del mondo, l’invalidità, la perdita di una persona cara, una classe medica che si occupa solo dei ricchi, così come i carabinieri si ostinano a proteggere solo coloro che contano, i nobili, i giudici, i ricchi esponenti di un’aristocrazia agraria di provincia. Ma anche, in positivo, la devozione popolare e i tanti luoghi significativi di un paese – Paulilatino – che nelle pagine di Peppino Murtas ritrova nella festa una dimensione di serenità, addirittura di felicità, come per Santa Cristina, con la statua contesa con gli abitanti di Bonarcado.
E poi le forme arcaiche del fidanzamento e del matrimonio, il pentimento dal peccato, le tradizioni popolari, le feste, la Pasqua, la morte con i suoi riti, le sue nenie, le sue forme tradizionali che si possono seguire nel loro evolversi nel tempo. Torna in mente il volume di Ernesto De Martino sul lamento funebre in Morte e pianto rituale, pubblicato per la prima volta alla fine degli anni 50, con un occhio proprio verso la Sardegna.
A sentire la voce degli emigrati diventati operai e delle loro donne, costretti a fuggire per vivere, rivediamo tante pagine di Gavino Ledda, come quelle sull’emigrazione in Australia di Padre Padrone: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che Ledda descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo. Sembra di vedere le immagini del documentario di Fiorenzo Serra del 1959 con gli emigrati sulla corriera della Sita che parte da Cossoine per Sassari attraversando Torralba e Bonnanaro con sullo sfondo Monte Arana o le immagini della nave che trasporta gli emigrati carichi di valigie di cartone legate con lo spago; o la frase sul maledetto treno del mio paese, quanta gente hai portato via. Ce le ricordiamo quelle navi, come la Lazio, piccole, instabili, dove da bambini venivamo stipati come bestiame dai marinai napoletani. È questa la transumanza degli uomini che Fiorenzo Serra raccontava, in parallelo con la transumanza delle pecore, mentre la cinepresa coglieva il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra. Tutto esattamente come la corriera che scivola nel buio in una poesia di Peppino Murtas: la corriera scivola nel buio / densa di fumo / che pare una taverna. / Il cielo senza luna.
Il lungometraggio di Serra segna un momento diverso, l’uscita dalla guerra: l’isola che abbandona i costumi tradizionali, anche se non a Desulo e in Barbagia; gli uomini sono vestiti con abiti di fustagno o in orbace, anche quelli più logori, recuperati con grandi pezze di stoffa colorata; ci sono tante storie dimenticate, le scene popolaresche come quelle di una stranissima partita a carte, i fumatori di sigaro, i pastori che sostano per mangiare nel corso del lungo e faticoso viaggio verso i pascoli della pianura. Sono le donne che preparano con un atteggiamento quasi religioso il pane per i loro sposi, i pastori partono a dicembre sotto la prima neve e toneranno alla fine
della primavera.
Come non pensare a Desulo e a Montanaru:
Deo affaca a su fogu solu solu
mentras chi forsas mulinas sos nies
penso a bois e canto una canzone,
suspirende ‘e sa rundines su olu.
E conto sas oras, numero sas dies,
de bos bider torrende in s'istradone.
Prima di potersi di nuovo affacciare sullo stradone, i pastori debbono condurre al pascolo i propri animali. E lo fanno con i fischi, i richiami gutturali rivolti al bestiame, che rimandano a una lingua perduta, che precede l’età romana. Ma c’è anche in questo documentario la lingua sarda, che riesce ad esprimere meglio emozioni e sentimenti. E poi la pesca negli stagni gestiti secondo un modello ancora feudale sotto gli occhi del Barone Carta, con i pescatori che indirizzano per la peschiera coi remi ma con difficoltà i fassonis di falasco, i paesi di mattoni di fango e paglia, i ladiris disfatti e cadenti, i lavatoi per le donne di Cabras, la nevicata, le automobili di un tempo lontano, come la giardinetta di mio padre incapace di superare i dislivelli minimi, l’analfabetismo generalizzato, i rapporti sociali arcaici come quelli tra padroni e servi, l’incredibile scena del prete che conta il denaro offerto in dono agli sposi, le difficili elezioni politiche. La crisi mineraria, i licenziamenti di migliaia di operai, gli scioperi, i comizi dei leader comunisti, le gru abbandonate che si coprono di ruggine, i medaus del Sulcis riscoperti per necessità dai più poveri, le città in agonia, la ricchezza e i colori delle tradizioni locali, i Mamuthones di Mamoiada che in qualche modo ci invitano a tradurre la tradizione, è un’espressione di Franziscu Sedda, nel senso di mettere in rapporto l’idea di tradizionalità e di modernità per tradurre nell’attualità elementi provenienti da tempi e luoghi diversi. Questa finisce per essere l’essenza della vicinanza emozionale che lo spettatore di questo film prova dinanzi al travestimento dei Mamuthones e alla loro danza ritmata dal suono dei campanacci. Quasi che ad ognuno di noi il suono e il ritmo tintinnante e grave al tempo stesso evochi frammenti di una storia lontana, lontanissima, ma reale, relitti di un passato che improvvisamente si risvegliano e si disvelano pur nel parossismo della finzione rappresentativa del teatro popolare. E questi lontani echi, questa storia antica e contemporanea al tempo stesso è raccontata in questo lungometraggio. Che dire del commento che accompagna le immagini ? Per Antioco Floris il commento è qualche volta caratterizzato da un’enfasi retorica e da un’impostazione roboante fastidiosa, certo eredità dell’Istituto Luce, ma non mi sono sorpreso se un anno fa ne ho sentito un’eco ancora nel tono di voce di Bruno Pizzul che commentava i mondiali.
Come c’è un prima, allo stesso modo c’è un dopo anche in tanta produzione cinematografica recente sulla Sardegna, come nel film Ballo a tre passi di Salvatore Mereu con le scene invernali girate su una spiaggia orientale che accompagnano la morte del vecchio pastore.
Questo di stamane è solo un esempio, prezioso e vicino alla nostra sensibilità di oggi, di come la documentazione filmata sull’antropologia possa svilupparsi, attraverso strade nuove, che passano innanzi tutto per un rilancio di Sardegna digital library voluta da Elisabetta Pilia e Maria Antonietta Mongiu e per una valorizzazione degli archivi della Regione Sarda che possono essere davvero una miniera, da riscoprire al di là della documentazione burocratica, per ritrovare foto, filmati, documenti, relazioni che hanno accompagnato i rendiconti finanziari e che spiegano quello che oggi ignoriamo, banche dati legate anche alla storia della ricerca scientifica dentro e fuori le università, per riscoprire il ruolo che la Regione autonoma ha svolto nel tempo, ben al di là dell’arida rappresentazione di delibere, leggi regionali, regolamenti. Archivi che debbono aprirsi agli studiosi.
C’è molto da fare in particolare nel settore antropologico e mi auguro che possa sviluppasi una sinergia tra Associazioni, Enti, Università, Istituto Regionale Superiore etnografico, insieme ai nostri colleghi specialisti di storia del cinema, Sardegnafilm Commission, i Cineclub di Sardegna film festival, la Cineteca Sarda, la Società Umanitaria, e così via. Oggi c’è un soggetto nuovo, un futuro protagonista, il Laboratorio di antropologia visuale Fiorenzo Serra dell’Università di Sassari voluto dagli assessori Sergio Milia e da Claudia Firino. Auguri di cuore per quello che farete.
Ultimo aggiornamento Lunedì 30 Novembre 2015 00:17