Vindice Lecis, La Cohors II Sardorum ai confini dell’impero, romanzo storico, Condaghes 2015.

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Scritto da Administrator | 09 Dicembre 2015

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Vindice Lecis,
La Cohors
II Sardorum ai confini dell’impero, romanzo storico, Condaghes 2015
Presentazione di Attilio Mastino
Alghero, 4 dicembre 2015

Vindice Lecis negli ultimi ci ha abituato ad un nuovo genere di romanzo storico, dedicato alla Sardegna: Le pietre di Nur nel 2011; Buiakesos, le guardie del Giudice nel 2012; il Condaghe segreto nel 2013; Judikes nel 2014.

E’ evidente il fascino che esercita su di lui la Sardegna nuragica, sia pure nella sua fase finale, quella della crisi e della dissoluzione sintetizzata dai Giganti di Mont’e Prama; così come l’età giudicale: il mito di un’isola che vedeva riconosciuta una sua sovranità, forse anche una dimensione nazionale autonoma.

Eppure, questo volume dedicato ai primi cinque anni del regno dell’imperatore Adriano, testimonia la ricchezza della fase romana della storia della Sardegna, ma va oltre, si spinge verso le sterminate terre africane della Numidia e della Mauretania tra Tunisia, Algeria e Marocco. Il periodo trattato, la piena età imperiale, il secolo degli Antonini,  è proprio quello in cui si afferma l’espressione natione sardus riferita a decine e decine di marinai della flotta da guerra  che percorrevano il Mediterraneo tra la Sardegna e il Nord Africa, in un Mediterraneo non ancora diviso dalla cortina di ferro tra cristiani e musulmani.

Per un paradosso della storia, è stato  Marco Tullio Cicerone, acerrimo nemico dei Sardi, ad attribuire loro la condizione di natio; l’Arpinate utilizza di frequente il termine natio quando presenta popoli stranieri e barbari, de exteris et barbaris populis. In una lettera al fratello Quinto, Cicerone parla di Africani, Spagnoli o Galli, tutti considerati come nazioni feroci e barbare - immanibus ac barbaris nationibus, che comunque occorreva amministrare secondo i principi dell’humanitas romana.

Cicerone spiega le ragioni per le quali i Romani hanno assunto la causa della libertà; tutti gli altri popoli potevano essere disposti a sopportare la servitù; la comunità romana  invece non poteva accettarlo; questo era possibile semplicemente perché gli altri rifuggivano la fatica e la sofferenza e, per evitarle, erano disposti a subire qualsiasi cosa.  “Noi invece, precisa Cicerone, abbiamo, grazie all’esempio e all’insegnamento dei padri, una formazione tale che ci fa guidare ogni nostro pensiero e ogni nostra azione col criterio dell’onore e della virtù”.  Il luogo comune che lega la libertà dei Romani al servaggio di un popolo che si indica col termine natio è un concetto ben definito da Cicerone nell’orazione Pro Scauro, proprio con riferimento ai Sardi. Pronunciata per difendere un governatore disonesto, l’orazione mette in evidenza come tutti i testimoni sardi fossero stati corrotti dall’accusa: la loro testimonianza non poteva essere degna di considerazione, poiché dettata dall’avidità. La credibilità dei testimoni era pari a zero, in quanto sarebbe stata dimostrata una congiura di Sardi contro il proconsole Scauro.

Del resto la loro nazione è così superficiale e vacua che non c’è nessuno tra i Sardi capace di distinguere schiavitù da libertà se non per il fatto di poter mentire impunemente: postremo ipsa natio, cuius tanta vanitas est ut libertatem a servitute nulla re nisi mentiendi licentia distinguendum putent. I centoventi testimoni sardi usano una loro unica lingua, perseguono un loro unico scopo nascosto, non già espressione del risentimento per un abuso subito ma di simulazione, sotto l’impulso non delle offese ricevute da Scauro ma delle promesse e delle ricompense di altri: nunc est una vox, una mens non expressa dolore …  praemiis excitata. E qui vox potrebbe davvero assumere il significato di lingua di un popolo barbaro e riferirsi, più che alla lingua dei Cartaginesi,  al proto sardo degli eredi dei nuragici, la lingua perduta che ha preceduto il latino, un suono indistinto, un rumore, un frastuono fatto di parole incomprensibili, ma comunque accusatorie nei confronti di Scauro, dette per il tramite dell’intermediazione di un interprete.

L’unica deposizione potenzialmente ammissibile sarebbe allora quella del cittadino romano Valerio, il vero testimone per l’accusa, perché è il solo capace di parlare in latino. Proprio per questo Cicerone afferma che tutto il processo dipendeva da questo sardo da poco entrato nella romanità, uno sconosciuto senza autorità, che con la sua testimonianza aveva voluto dimostrare riconoscenza al figlio di colui che gli aveva donato la cittadinanza vent’anni prima. Cicerone si chiedeva come fosse possibile credere ad un gruppo di testimoni sardi, in quanto avevano tutti lo stesso colorito olivastro, parlavano tutti una stessa lingua incomprensibile, tutti senza eccezione appartenevano alla stessa nazione ? (sin unus color, una vox, una natio est omnium testium ?). Cicerone rimprovera ai Sardi le loro origini africane e sostiene che la progenitrice della Sardegna è stata l’Africa. L’appellativo Afer è ripetutamente usato come equivalente di Sardus. L’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae suggerisce secondo il Moscati la realtà di una “ampia penetrazione di genti africane ed il carattere coatto e punitivo della colonizzazione o, meglio, della deportazione”.

Cicerone riassume con brevi e offensive parole la storia della Sardegna dall’età fenicia a quella punica, fino ad arrivare alla romana; scrive che «tutte le testimonianze storiche dell’antichità e tutte le storie ci tramandarono che nessun altro popolo fu infido e menzognero quanto quello fenicio; da questo popolo sorsero i Punici e dalle molte ribellioni di Cartagine, dai molti trattati violati e infranti ci è dato conoscere che appunto i Punici non degenerarono dai loro antenati Fenici. Dai Punici, mescolati con la stirpe africana, sorsero i Sardi (a Poenis admixto Afrorum genere Sardi), che non furono dei coloni liberamente recatisi e stabilitisi in Sardegna, ma solo il rifiuto dei coloni di cui ci si sbarazza. Ora, se niente di sano vi era in principio in questo popolo, a maggior ragione dobbiamo ritenere che gli antichi mali si siano esacerbati con tante mescolanze di razze».

Gli incroci di razze diverse che ne erano derivati, secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai successivi travasi, la razza si era “inacidita” come il vino, prendendo tutte quelle caratteristiche che le venivano rimproverate: ovvero, discendenti dai Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell’isola, i Sardi secondo Cicerone presentavano tutti i difetti dei Punici, erano dunque bugiardi e traditori, gran parte di essi non rispettavano la parola data, odiavano l’alleanza con i Romani, tanto che in Sardegna non c’erano alla metà del I secolo a.C. città amiche del popolo romano o libere ma solo civitates stipendiariae. L’espressione natio fu utilizzata pochi anni dopo anche nel de re rustica di Varrone, a proposito dei Sardi Pelliti della Barbaria sarda alleati di Hampsicora durante la guerra annibalica e per questo avvicinati ai Getuli africani: quaedam nationes harum (caprarum) pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia. E si deve precisare che Hampsicora col figlio Hostus sono per Ferruccio Barreca <<gli unici esponenti a noi noti come individui della nazione sarda nell’antichità>>, comunque alle origini della dominazione romana.

Se perdoniamo Cicerone per la polemica giudiziaria, cogliamo però  un aspetto, quello di una lingua paleo sarda parlata tra loro prroprio dai Sardi, anche quando si trovano a Roma oppure in Numidia o in Maureatania: in questo romanzo operano sulla scena quasi esclusivamente dei militari sardi, cittadini romani che combattevano in Algeria nella Legione III Augusta o ausiliari peregrini componenti della I coorte di Nurritani, della II coorte di Sardi ma anche alcuni soldati di altri reparti come la VII Lusitanorum equitata trasferita da Austis (dove conosciamo un trombettiere) a Milev presso la capitale della Numidia Cirta. Tutti sono gli straordinari protagonisti di questo romanzo dedicato a Rapidum, l’accampamento voluto da Adriano in Mauretania Cesariense, lungo la nuova linea fortificata verso il deserto algerino e la linea degli chotts, prima che Settimio Severo estendesse il limes ancora di più verso il deserto algerino. Vediamo partire i Sardi dall’isola lontana, rimasta nostalgicamente nel cuore, per arrivare a Thamugadi, l’attuale Timgad, presso Batna in Numidia, oggi in Algeria, per entrare poi profondamente nel territorio, alla ricerca di nuove terre da contendere ai mauri nomadi.

Qui i Sardi, le loro donne e le loro famiglie compaiono come un’entità distinta, continuamente in relazione tra Turris Libisonis, la colonia di Cesare, il municipio di Carales, Nora, Sulci, Tharros, Cornus: impegnati a conquistare le vastissime terre africane, sbarcando sui tanti porti della costa algerina, ad iniziare proprio da Icosium-Algeri, collocato di fronte alla Sardegna e distante solo 100 km da Rapidum.

Allora non possiamo eludere in apertura il tema della “nazione” sarda nell’antichità e ai giorni nostri, che per la sua  trasversalità è stato indagato  da storici del passato e del presente: riferito ai Sardi, a partire dalla loro natura ibridata da componenti diverse, il termine si presta molto bene ad essere declinato in un arco cronologico lungo, dall’antichità romana fino agli odierni confliggenti nazionalismi. Anche attraverso romanzi come questo, che interpretano una realtà storica ben nota, possiamo  partire dall’identificazione di una “natio" riconosciuta dai Romani, insieme eredità del passato preistorico (sintetizzato nei Giganti di Mont’e Prama) e premessa per gli sviluppi successivi (che iniziano con le cattedrali romaniche costruite dai sovrani dei quattro giudicati sardi).

Franciscu Sedda suggerisce la possibilità che le parole di Cicerone nell’alternativa tra servitù della natio Sarda e libertas della civitas Romana (che però contraddicono la visione greca che riconosceva liberi i Sardi discendenti di Eracle, gli Iliei-Ilienses dei Montes Insani) possano consentire di leggere in filigrana l’alternativa fra dimensione culturale-identitaria da un lato (natio incapace di auto-affermazione) e dimensione giuridico-istituzionale (civitas caratterizzata dalla libertas): <<da questo punto di vista la distinzione natio/civitas assomiglierebbe all'attuale distinzione fra etnia e nazione-Stato, dove l'etnia appare come la nazionalità perdente e in quanto tale scivolata in una condizione di ri-naturalizzazione, distante dalla tensione alla libertà che caratterizza il demos fondatore di istituzioni>>.

A tale riguardo, si può congetturare che sbagliasse Camillo Bellieni, il padre del Sardismo moderno nel Novecento, studioso della Sardegna romana, quando riteneva che il popolo sardo fosse solo una <<nazione abortiva>>, <<nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo>>. Sempre negli ormai lontanissimi anni Venti, Emilio Lussu in una lettera ad Antonio Gramsci poneva come premessa alle rivendicazioni di tipo nazionale il fatto che i Sardi si erano <<accorti da parecchio di essere una nazione fallita>>; più tardi addolciva l’espressione, parlando di <<una nazione mancata>>.  Certo, nel mondo attuale le cose si complicano alquanto e il tema “nazione” si  sgretola nei sanguinosi integralismi che insanguinano il tempo che viviamo.

Pur con i suoi limiti e le sue differenze semantiche e funzionali, al di là dell’abisso cronologico e culturale che ci divide, l’espressione romana natione Sardus, che testimonia il desiderio di richiamare il luogo di nascita, di identificarsi come originari dell’isola lontana all’interno della communis patria rappresentata da Roma e dall’impero, può dirci forse qualcosa ancora oggi, può testimoniare la ricchezza e la diversità culturale della storia isolana, senza più perdersi in un dibattito sterile sul nazionalismo ottocentesco fondato su un’identità immutabile e mummificata: nell’Europa dei nostri tempi la Sardegna si affaccia con la sua complessità verso un orizzonte davvero globale.

Forse sono andato oltre quelle che apparentemente erano le intenzioni dell’autore: eppure come non pensare che le “teste di cuoio” sarde, come le chiama Costantino Cossu, non siano state costituite con lo scopo di creare dei reparti speciali resi ancora più temibili grazie alla identica origine etnica e alla forte coesione di gruppo, alla stessa religione e in particolare al culto per il dio libico Sardus Pater venerato a Metalla: un po’ come nella prima guerra mondiale e ancora oggi la Brigata Sassari, il 151 e il 152 reggimento di fanteria meccanizzata, assistiti dal 5 Reggimento Genio guastatori di Macomer e dal terzo reggimento bersaglieri di Teulada, tutti reparti che ho visto all’opera a Herat in Afganistan, professionisti veri. Ma in precedenza analoghe motivazioni debbono aver guidato i cartaginesi ad arruolare mercenari sardi, più tardi i sovrani aragonesi a costituire il Tercio de Cerdeña, i Savoia il Reggimento di Sardegna e infine la Brigata Cagliari operante tra il 1862 ed il 1991.

Spero mi vorrete perdonare per questa divagazione che si giustifica solo per il fatto che in questi giorni ho consegnato un articolo per l’Archivio Storico Sardo su Natione Sardus, Unus color, una vox, una natio.

Ma questo romanzo ambientato tra la Sardegna e la Algeria riapre vecchie ferite e fa riemergere con competenza, tante relazioni e tante questioni che il pubblico in genere non conosce. Jean Pierre Laporte, l’archeologo parigino che ha scavato il campo di Rapidum in Algeria e che ha pubblicato qui a Ozieri con Il Torchietto nel 1989 il volume sull’accampamento dei Sardi, mi ha scritto nei giorni scorsi  osservando che spesso i romanzieri riescono a fare dei collegamenti ai quali gli storici paludati  non avevano osato pensare.  Nel corso di un lunga telefonata, Laporte mi ha parlato del deserto che avanza inesorabilmente verso il mare negli ultimi decenni, delle nuove scoperte a Rapidum, del progetto di un nuovo museo.  Del rischio del terrorismo che ormai unisce le due rive del Mediterraneo, arrivando a colpire fino al Bataclan di Parigi.

Il nostro maestro Yann Le Bohec, il più grande  storico militare vivente, che si è occupato tra l’altro della legione III Augusta africana, un reparto nel quale venivano arruolati i karalitani, e ha pubblicato una storia militare della Sardegna romana nel 1990 con Delfino, mi ha inviato un messaggio di saluto, precisando però: nihil novi sub sole, per il fatto che i romanzieri continuano a vivere ingrassandosi sul lavoro degli storici.

Permettete dunque ad uno storico come me di evitare di mettere in rilievo oggi anacronismi e imprecisioni, che pure non mancano e che sono resi evidenti anche alla luce degli ultimi studi di Franco Porrà. Alcune soluzioni sono francamente poco praticabili o troppo colorite.

Da lettore appassionato voglio però dire che questo romanzo è davvero speciale, diverso, ricco di documentazione, capace di attingere al patrimonio di conoscenze fin qui messo insieme con tanta fatica, partendo dalle scritture antiche, i resti archeologici, le torri, le terme, le statue, gli archivi, gli edifici di spettacolo, i magazzini, le strade, le produzioni, che illustrano in Algeria, a Rapidum e ad Altava, come in Sardegna a Luguido, a Metalla o a Carales, l’attività dei due reparti gemelli costituiti dai Sardi, affiancati dalla coorte I di Nurritani che oggi colleghiamo non con Nora ma alla Barbagia, più precisamente al cippo terminale di Porgiolu in comune di Orani-Orotelli sul Tirso. Sono una trentina i documenti di questi reparti, che hanno operato ben oltre l’età di Adriano, l’imperatore filosofo, sulle due sponde del Mediterraneo.

Eppure è stata davvero felice la scelta di far perno sulla visita di Adriano in Africa e sul celebre discorso pronunciato davanti alla legione a Lambesi che fortunatamente ci è conservato su pietra: ripercorriamo ora le ragioni di un consolidamento delle frontiere come Britannia o in Mesopotamia o in Africa. La competenza del principe in materia militare. La profondità dell’addestramento dei professionisti. Abbiamo poche luminose immagini della possibile ispezione di Adriano a Rapidum ma anche di quella vicenda dolce e amara che Marguerite Yourcenar ha solo immaginato nelle Memorie di Adriano, quando colloca gli amori di Adriano e di Antinoo in una capanna di contadini del litorale sardo, dove il giovane bitinio avrebbe cucinato per l’imperatore del tonno appena pescato, riparandosi dalla tempesta. Lo vediamo Adriano accarezzare i riccioli del giovane amato sulla nave che lo condurrà in Sardegna, parlare e ridere nell’incanto di un amore travolgente e per noi incomprensibile, indicando l’orizzonte lontano, prima della tragica morte sul Nilo.

Ci sono in questo romanzo anche tanti amori più convenzionali e profondi, come quello tra Giulia Fortunata e l’ufficiale pretoriano Gneo, una storia a lieto fine davvero sorprendente ambientata a Turris Libisonis. Ci sono tante storie di spie, emissari imperiali, con la rivolta di Lusio Quieto in Mauretania repressa dal prefetto Quinto Marcio Turbone fedelissimo di Adriano. Ci sono i comandanti dei reparti, gli ufficiali, i classiari, i soldati fanti e cavalieri provetti, le loro insegne, le loro parole d’ordine, il loro armamento. Ci sono buoni e cattivi, come Ursaris, la sua amata Sestia, forse troppo silenziosa e paziente, i due figlioletti rapiti.  Ci sono i procuratori delle dogane, i magistrati  di Turris Libisonis, i governatori provinciali, i responsabili, delle miniere, dei praedia imperiali e delle saline. Tutti personaggi i cui nomi sono tratti dalle iscrizioni effettivamente ritrovate in Sardegna o in Africa e dalle fonti letterarie, magari per altri periodi. Ci sono i popoli della Mauretania, in particolare i Baquati, come quelli della Sardegna. Soprattutto c’è la geografia sullo sfondo, il Mons ferratus in Africa, il Montiferru della Sardegna e i vicini Montes Insani, le isole frequentate dai pirati, i briganti, la resistenza organizzata.

C’è la religione militare, Giove Valente, Marte, Mercurio, la Vittoria Augusta, Iside, Sileno, Apollo, tra natura e cultura. I sacerdoti come gli auguri che predicono il futuro.  E poi la magia, l’interpretazione dei sogni, la pratica di astrologie straniere, la medicina popolare con infusi ed erbe. C’è la flora e la fauna del deserto, le pantere, le gazzelle, le scimmie dell’Atlante che interagiscono con le piante, i leoni. A Turris c’è il musico Apollonio, suonatore della cetra nel coro, vincitore del periodo, delle quattro gare panelleniche, Delfi, Olimpia, Corinto, Nemea, finito chissà per quale ragione nella colonia sarda. Ci sono le somme spese per costruire un acquedotto o una strada, le tecniche utilizzate dall’esercito in marcia in territorio ostile per innalzare ogni giorno un accampamento e per trincerarsi di fronte al nemico. Ci sono le ville romane, come a Sant’Imbenia di Alghero, con i suoi stucchi, i suoi affreschi, i suoi mosaici, le sue peschiere, le sue terme. Alla fine ci rimane il sapore forte di verità, il gusto per collegamenti, la voglia di continuare a seguire una vicenda piena di violenza e di misteri, che sicuramente avrà un seguito.

Sfogliando queste pagine, ho ricordato un luogo lontano, che mi è davvero caro: qualche anno fa abbiamo visitato con i nostri studenti le terme di Ain Mellegue in Tunisia: una serie di edifici a volta, malamente restaurati, che sorgono presso il grande fiume, l’oued Mellegue, che sono rimasti prodigiosamente ancora in piedi con i loro calidaria che continuano a distribuire dalle bocche di leone acque termali nella sala dove si bagnano i maschi e in quella, più riservata, dove in piscina si bagnano le donne.

Una foto come questa potrebbe esser stata scattata duemila anni fa.

Ultimo aggiornamento Mercoledì 09 Dicembre 2015 21:33

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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