La scomparsa di Pinuccio Sciola (San Sperate, 15 marzo 1942 – Cagliari, 13 maggio 2016)

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Scritto da Administrator | 21 Maggio 2016

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La scomparsa di Pinuccio Sciola (San Sperate, 15 marzo 1942 – Cagliari, 13 maggio 2016)

Con grande dolore comunico la scomparsa dell’amico Pinuccio Sciola, ricordandolo con le parole di qualche anno fa, a proposito del libro di Ottavio Olita su San Sperate e poi del romanzo Il futuro sospeso, che racconta la guarigione del protagonista. Per un singolare gioco beffardo del destino, mentre Ottavio esce dall’angoscia della malattia, l’amico di sempre Pinuccio Sciola scopre in parallelo di avere un tumore, racconta sulla stampa la diagnosi e la sentenza dei medici, l’operazione che ha rimosso lo stomaco, la stanchezza estenuante che ora lo tormenta. Ma anche lui riprende a vivere e a sognare, a raccontarsi come a Banari, a Bosa, a Sassari, in tanti altri luoghi, a piedi scalzi, con la voglia di utilizzare al meglio il tempo che ormai gli rimaneva, di coltivare le amicizie vere, di indicare una strada per coloro che sarebbero venuti dopo di lui.

La lunga primavera di San Sperate è iniziata cinquanta anni fa, nel 1968, all’indomani del viaggio di Pinuccio Sciola in Spagna e poi nella Parigi sconvolta dal vento della contestazione del maggio studentesco e poi in Messico, alla ricerca di una dimensione mitica immaginata e desiderata a lungo: col volume su San Sperate curato da Ottavio Olita siamo condotti per mano attraverso le interviste dei tanti protagonisti di allora a riscoprire le ragioni per le quali il paese contadino del Campidano è uscito da un sonno millenario, quando i suoi abitanti tutti all’improvviso si sono appassionati di arte, hanno creduto nella rivoluzione del sorriso, hanno compiuto un percorso culturale che è stato anche un’esperienza collettiva che possiamo riconoscere ormai entrata nella storia della Sardegna. Le immagini in bianco e nero raccontano più delle parole con una profondità di campo che impressiona, fanno rivivere i tempi lontani del grigio paese di fango dall’aspetto spettrale che all’improvviso è diventato candido, ha riscoperto i colori, le figure, le emozioni, ha condiviso la passione, le curiosità, i desideri di un ragazzo come tanti, chiamato a guidare tutta la sua gente, che non è rimasta a guardare ma si è fatta incantare e quasi sedurre, ha vissuto e sofferto quasi una malattia come se fosse vittima di un’epidemia benefica.

Leggendo queste pagine mi è venuta in mente la vicenda straordinaria raccontata da Luciano di Samosata nel suo arguto volume Come si deve scrivere la storia che non dimostra i suoi quasi duemila anni: <<dicono che durante il regno di Lisimaco dopo la morte di Alessandro Magno, una malattia colpì gli Abderiti, gli abitanti di Abdera, una città della Tracia: dopo esser andati a teatro ed aver sentito l’attore tragico Archelao che recitava l’Andromeda di Euripide, dapprincipio tutti in massa presero la febbre, subito forte fin dal suo apparire e persistente; poi intorno al settimo giorno alcuni versarono abbondante sangue dal naso, altri si coprirono di sudore, abbondante anch’esso, che li liberarono dalla febbre. Ridussero però le loro menti in uno stato pietoso. Tutti infatti deliravano per la tragedia, facevano risuonare giambi e levavano alte grida. Soprattutto cantavano le monodie dell’Andromeda di Euripide e davano un’interpretazione canora del discorso di Perseo. E la città era piena di tutti questi tragedi del settimo giorno, pallidi e smagriti, che a gran voce urlavano dei versi. E questo per molto tempo, fino a quando l’inverno sopraggiunto con gran freddo li fece cessare dal loro impazzimento>>.
Il morbo abderitico, questa sorta di epidemia artistica, si era diffuso ai tempi di Luciano quando tutti si misero a scrivere la storia e non vi sembri offensivo se ho pensato di collegarlo con l’improvvisa passione e l’entusiasmo che ha colpito in un colpo gli abitanti di San Sperate, come ipnotizzati tutti assieme e coinvolti nella passione per la pittura e per l’arte.

Questo volume conserva memoria delle controverse fasi della trasformazione dell’antico paese contadino, tormentato in continuazione dalle alluvioni dei due fiumi, il Rio Mannu-Flumini ed il Bonarba, caratterizzato da tradizioni quasi preistoriche, da un’economia di baratto e di sopravvivenza basata sulle antiche professioni, sul trasporto animale a dorso d’asino, sul frumento impiantato in età romana in un’isola che fu per Cicerone uno dei tria frumentaria subsidia rei publicae.

Un paese che poi ha recepito il canto di sirena del mito, un messaggio di armonia, pace e cultura, portato dagli artisti provenienti da tutto il mondo come Eugenio Barba col suo Odin Teatret, i tedeschi Elke Reuter, Rainer Pfnurr, l’olandese Meiner Jansen, lo svizzero Otto Melcher, tra i sardi Foiso Fois, Giorgio Princivalle, Primo Pantoli, Gaetano Brundu, Giovanni Thermes, questi ultimi caratterizzati da un forte astrattismo e simbolismo: allora i muri vengono dipinti di bianco, vengono intonacati i mattoni di fango, i caratteristici ladiris che ricordano una tecnica edilizia documentata in Sardegna dallo scrittore Palladio nel VI secolo d.C., i mattoni di argilla e di paglia prodotti in primavera ed descritti nel de lateribus faciendis. Arrivano i murales astratti, simbolisti, neorealisti, espressionisti, cubisti, che parlano di un mondo più grande attraverso immagini schematiche spesso spiegate con didascalie, una forma nuova di epigrafia popolare destinata a durare per poco tempo. Ma l’obiettivo non è quello di rendere bello un paese brutto, è soprattutto quello di trovare un pretesto per un grande momento di partecipazione comunitaria e di dibattito intorno all’arte popolare. Contemporaneamente l’Ente Flumendosa bonificava il territorio comunale ed avviava le canalizzazioni che ancora oggi consentono l’irrigazione di una campagna destinata a fiorire in modo straordinario, con i suoi frutteti e le sue campagne lussureggianti.

Questa non è però un’opera celebrativa perché in realtà Ottavio Olita è riuscito a restituire il senso delle polemiche di allora, i contrasti tra artisti, la durezza di uno scontro che ha appassionato e diviso il paese, tanto che c’è qualcuno che rimpiange i tempi nei quali l’amministrazione comunale di destra era ostile ai murales e all’arte.

Giganteggia in queste pagine la figura carismatica di Pinuccio Sciola, accanto ai suoi maestri e mecenati, Foiso Fois, Guido Vascellari, a Salisburgo Emilio Vedova e poi Giacomo Manzù: nelle parole di chi l’ha conosciuto ragazzino, Pinuccio compare senza neppure le scarpe ai piedi, ma già circondato da affetto, stima, speranza, affezionato alla vita del paese che si sviluppa con una straordinaria socialità nelle cantine e nelle cucine, integrata nella campagna, ma insieme pieno di curiosità, desideroso di lasciare una traccia di sé su quella pietra che raramente si incontra nelle campagne campidanesi: dunque innanzi tutto la raccolta delle macine sparse in campagna, chiamate a decorare le piazze, poi il lavoro con gli amici, le tante idee bizzarre.

E poi i viaggi, a Firenze, nella Madrid franchista alla Moncloa, a Barcelona, poi a Parigi, a Salisburgo, nel lontano Messico alla scuola di Davide Alfaro Siqueiros, attraverso suggestioni visive e stimoli che vanno dall’arte pre-colombiana al realismo socialista. Per Renata Serra, che è la studiosa che per prima ha riflettuto su questi temi con una straordinaria profondità, Sciola non assorbe indistintamente dati qualunque delle culture messicane ma opera una scelta consapevole, che cade non sulla figuratività maya, distinta da un accentuato horror vacui, da un decorativismo ossessivo, da un barocco ante litteram, bensì sulla mitica età dell’oro dell’immaginario precolombiano, sulla stagione classica per l’elaborazione di un sistema euritmico di griglie geometrizzanti entro cui si struttura l’immagine.

Nominato ispettore archeologo della Soprintendenza, Pinuccio fu in rapporto con i più qualificati studiosi sardi, come Giovanni Lilliu, Alberto Boscolo, e Salvatore Naitza, di cui ci rimangono in queste pagine due preziosissime testimonianze di rara profondità: io personalmente ricordo l’amicizia di Pinuccio con Renata Serra e con Giovanna Sotgiu, che mi ha fruttato in occasione del mio matrimonio il dono di una scultura in legno di olivo di una madre e di un bimbo e insieme un dipinto a tempera sullo stesso soggetto, quasi un murale con le mani e i piedi deformati come in un manifesto. E poi più di recente una pietra musicale, che conservo gelosamente tra Bosa e Sassari.

Tra gli estimatori di allora c’è ancora Gianfranco Pintore, direttore del periodico bilingue Sa Sardigna, espressione della cooperativa, come ci sono i tanti artisti coinvolti a San Sperate, come Aligi Sassu, innamorato del paese dipinto, come lo chiamava, ma criticato per i suoi cavalli dai ragazzi del paese, pronti a mobilitarsi per testimoniare come si deve veramente dipingere. Del resto passarono per San Sperate persone come Arnoldo Foà o Dario Fo.

Pinuccio fu il motore della trasformazione del suo paese, che ben presto diventa il paese museo, con il parco megalitico, i murales, il cineforum, il teatro, la musica come il jazz di Alberto Rodriguez, in un vulcanico e magmatico succedersi di proposte contraddittorie e confuse, alcune portate avanti e poi accantonate, facendo leva sulle piccole occasioni di incontro, una processione, la sagra delle pesche, le scoperte archeologiche. Dunque la nascita della cooperative, il paese che si apre, le case che iniziano ad ospitare gli artisti, i cortili, l’impegno per difendere la fisionomia di un centro storico povero ma pieno di significati e di memorie, le resistenze degli amministratori ottusi ed incompetenti.

C’è del resto veramente lo scontro con le autorità locali e nel 1975 con la giunta municipale di destra, con il duro intervento delle forze di polizia e dei carabinieri, le perquisizioni e le intimidazioni, il processo davanti al pretore di Decimomannu, che segnò anche il riconoscimento del valore morale e culturale delle iniziative e l’impegno per difendere tutte le forme di espressione artistica, continuamente tormentata da scritte offensive, dai piccoli interessi di bottega, da invidie locali. Infine il lento pendio che porta Pinuccio ad abbandonare la politica attiva sia pure moderata e sardista ed a distinguersi sempre più nettamente dalle amicizie compromettenti, dall’arrivo di amici delle brigate rosse, dagli assistenti di Toni Negri che in quegli anni circolavano in Sardegna, dalle strumentalizzazioni politiche, nelle quali era rimasto invischiato - scrivono Antonio Sciola e Nanni Pes - per la sua eccessiva ingenuità, per il suo candore, per la sua fiducia negli altri. Lui stesso scrive oggi di aver rischiato di finire in galera come uno scemo, senza rendersi conto dei pericoli che correva.

Ma più mi hanno sorpreso la durezza dei giudizi di Primo Pantoli su Pinuccio, accusato di essere politicamente debole, un istintivo che si è abbandonato ad una grande ingenuità.
Per alcuni Pinuccio avrebbe sempre rifiutato il mondo della cultura, rinunciando al compito degli intellettuali che sarebbe quello di selezionare e di conservare. Voglio ricordare i riconoscimenti accademici di Pinuccio, che sembrano sottovalutati se si pensa alla rete di amicizie che ha coltivato e se io stesso dieci anni fa come preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari avevo avuto modo di proporlo per un contratto di insegnamento al fianco di Aldo Sari e Gino Kalby, un’occasione per far entrare aria nuova nel mondo dell’Università che su L’Unione Sarda era stata apprezzata da Antonangelo Liori.

Quello degli uomini e delle donne di San Sperate non è stato allora quaranta anni fa un impazzimento di cui vergognarsi, una malattia contagiosa e molesta: è stata soprattutto l’occasione per trovare la sintonia tra il microscopico paese del Campidano ed il mondo di fuori, soprattutto tra l’arte di oggi ed una storia lunga che non si è voluta in nessun modo rinnegare, ma di cui andare orgogliosi, con una consapevolezza nuova.

Ultimo aggiornamento Sabato 21 Maggio 2016 22:08

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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