Luciano Goddi, Su Printzipeddu Nostru, Bortadura in Limba Sarda de “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry.

PDFStampaE-mail

Notizie - Archivio
Scritto da Administrator | 09 Aprile 2017

Valutazione attuale: / 1
ScarsoOttimo 

Luciano Goddi, Su Printzipeddu Nostru, Bortadura in Limba Sarda de “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, illustrazioni del maestro Elio Pulli.
Gallizzi Sassari 2017
Alghero, Porto Conte, 8 aprile 2017
Intervento di Attilio Mastino

Il maestro Elio Pulli, di cui abbiamo celebrato gli ottanta anni a Sassari a Palazzo Ducale due anni fa, era un bambino - aveva meno di dieci anni - quando a New York ed a Milano fu pubblicata la prima edizione del Piccolo Principe e quando, poco dopo, l’aviatore-romanziere autore di questa straordinaria opera apparentemente per bambini, po criaduras, Antoine de Saint-Exupéry, decollava da Porto Conte o da Fertilia per raggiungere la Corsica o la valle del Rodano.

Ieri Riccardo Campanelli mi ha fatto sfogliare il volume di John Fillips sul poeta-pilota, pubblicato a Losanna pochi anni fa, con le straordinarie fotografie che giungono fino al 30 maggio 1944. Poi dobbiamo arrivare a quel 31 luglio 1944 quando il generoso aviatore di guerra partito da Bastia in Corsica non riuscì a raggiungere Grenoble e si perse per sempre nell’azzurro del Golfo del Leone.

Ne discorre Luciano Goddi (che ho conosciuto grazie ad Angela Spanu) traducendo la fiaba che amiamo nella dura lingua di Orune, con intelligenza, ironia, se vogliamo con una serenità che incanta.

Il ritorno dell’aviatore in Sardegna, in questi luoghi che apparivano incantevoli già agli antichi, significa oggi riscoprire valori profondi, che innanzi tutto sono legati alla capacità di leggere la bellezza delle cose, anche le più minute, soprattutto col cuore, senza rinunciare ad essere se stessi.

Il mondo è piccolissimo davvero, assomiglia ad uno di quei sette piccoli pianeti descritti in quest’opera, se pensiamo al momento terribile in cui questo libro è stato scritto, dedicato da un aviatore di guerra a quel Léon Werth, l’ebreo sfuggito ai nazisti, amico fraterno dell’autore, costretto a nascondersi nel Giura francese mentre il baobab dell’invasore tedesco avanzava ovunque, mentre gli artigli delle tigri lo graffiavano sanguinosamente: l’amico è evocato con parole davvero commosse, è ormai una persona grande che è stata un bambino, che abita in Francia, ha fame, ha freddo e ha molto bisogno di essere consolata : isce istat in Frantza, tenet gana, frittu e meda bisonzu de essere accunortadu. Del resto <<Se combatto ancora, combatterò un po' per te. Ho bisogno di te per credere meglio nell'avvento di quel sorriso. Ho bisogno di aiutarti a vivere. Ti vedo così debole, così minacciato, che trascini i tuoi cinquant'anni sul marciapiede davanti a qualche povera salumeria, ore e ore, per sopravvivere un giorno di più tremando di freddo, nel precario riparo di un cappotto logoro. Tu così francese, ti sento due volte in pericolo di morte, perché francese e perché ebreo. Sento tutto il valore di una comunità che non autorizza più diverbi. Siamo tutti di Francia come di un albero, e io servirò la tua verità come tu avresti servito la mia>>.

La Francia che si risolleva dalla vergogna di Vichy sotto la guida di De Gaulle, la Francia cha ama la libertà e che rispetta i diversi. Ma il comportamento degli adulti che non capiscono mai niente da soli (sos mannos, a bias, non cumprènden nudda a sa sola), è incomprensibile per i bambini e anche il nostro pianeta è davvero piccolo, minoreddu, perché a due passi dall’aeroporto da cui il pilota di guerra decollava, da Fertilia con questo suo unico capannone o dalla vicina aviosuperficie per aliscafi, nell’oasi di Tramariglio, le storie si toccano e qui il maestro Elio Pulli ha sempre avuto la sua bottega, il laboratorio-museo, all’interno del Golfo delle Ninfe, a due passi dalla Falesia di Capo Caccia e dall’Isola Foradada, dalle Grotte di Nettuno, dalla Grotta Verde o di S. Erasmo, un luogo immerso in un clima emozionale che per Manlio Brigaglia esprime insieme il silenzio marino della sua casa e una solitudine che finisce per essere metafora di un’orgogliosa rivendicazione di originalità rispetto ai modelli tradizionali dell’arte sarda. Qui, accanto ai forni per la lavorazione della ceramica, oltre il campo di bocce, al di là del disordine creativo della bottega che mantiene un sapore antico, c’è una deliziosa saletta-museo dove sono esposte molte opere di pittura, ma soprattutto le spettacolari ceramiche dalle trasparenze metalliche, con i colori immaginati dall’artista prima della cottura, in una sorta di perenne sperimentazione. Le ritroviamo progettate e realizzate ancor più originali in questo nuovo museo del Parco e in queste pagine lette con l’animo di un bimbo che vuole capire il mondo: del resto il tema dei colori delle sue ceramiche e della sua pittura è centrale per l’arte di Elio Pulli in particolare in questo volume, partendo da un tempo lontano, da quella bottega del padre Giovanni che lo aveva incaricato come apprendista di realizzare in ceramica il viso, le gambe, le mani delle madonne fatte di cartapesta, di paglia e di fil di ferro. Elio bambino si occupava di restauro, studiava scultura, intaglio, decorazione, con umiltà e voglia di apprendere. Alma Casula pensa che Elio Pulli con queste sue delicate e profonde opere in ceramica riesce a sprigionare una vitalità positiva che finisce per essere davvero capace di stupire e di stupirci: così coi pianeti osservati attraverso una spirale fino al loro interno, ma anche con questi quadri come quello gigantesco e abbagliante che chiude la mostra e indica una strada per l’aeroplano del pilota che vorremmo sopravvissuto alla guerra e ancor più per il futuro di tutti noi.

Accompagnare questo volume, decorarne i diversi capitoli significa allora come tornare bambino, riscoprire con un percorso circolare una fanciullezza luminosa ma non sempre felice, ripensare alla guerra, alle paure e alla fame, esprimere il mistero della vita, inseguendo le avventure di un ragazzo dai cappelli dorati unu pizzinneddu chin sos pilos de oro, del colore del miele o del grano maturo, che è pronto a sorprenderci e di incantarci perché est arribadu da unu isteddu fora de sa terra e de sa luna.

Luciano Goddi rende questa vicenda ancora più originale e di nuovo autobiografica nella dura lingua di Orune, già con il titolo, che conserva il sapore di una identità e di una appartenenza inattesa: Su Printzipeddu Nostru significa che questa storia, tradotta in 250 lingue, compreso il catalano di Alghero, il Sardo, il Gallurese, il Tabarchino per iniziativa di Diego Corraine, è una storia “nostra”, dunque con bortadura in limba Sarda, ma soprattutto osservata con gli occhi del pastore di Orune immerso in una natura strepitosa e desertica (quanto è bello il deserto chena presenzia de cristianu) come a Orune a Sant’Efis o sul tavolato di Erthole tra i fantasmi delle nebbie di Bachisio Zizi, oppure presso il pozzo sacro di Su tempiesu, osservando la pecora ammalata (la traduzione malaidedda riferito a s’erbechedda rende bene l’affetto del traduttore), vecchia, con le corna, senza museruola ma senza sa corrìa de pedde, che minaccia i fiori dell’isola, le erbe buone, le piante. Un pastore timido, introverso, malinconico e triste, ma davvero sensibile e capace di arrossire in pubblico, chin sa cara ruja ruja, che osserva le albe sul mare, sos arborinus e il dolce tramonto verso l’Ortobene e il cielo basso pieno di stelle luminose che fanno fantasticare i poltroni, sos oreris mandrones. È per questo che il Prinzipeddu nostru, raccontato poche settimane prima dell’avventura di guerra di Tramariglio, è capace di vedere quella bellezza che rimane invisibile agli altri e dal suo osservatorio non capisce il potere del re, della città, dei ricchi, dei vanitosi bragheris, degli ubriaconi imbreacones, degli uomini d’affari faineris, dei mercanti bennuleris, degli scienziati, sos sabios, dei geografi con i loro esploratori, chertores, che si affaticano inutilmente girando loro e i loro pianeti sempre più in fretta come trottole, in un vortice che travolge il mondo. Quello di Goddi è un pastore che sa il valore vero delle cose e della natura. Del resto ci sono in questa edizione tante parole originali, tante espressioni colorite, perfino alcuni proverbi ancestrali sardi e alcune frasi aggiunte e non presenti nell’edizione francese. Questo principino diventa davvero nostro, piange sulle devastazioni che noi stessi causiamo alla nostra vita e alla vita di chi ci ama, riesce a allargare il suo sguardo verso la pastorizia della Sardegna, racconta delle pecore cattive che hanno necessità di una museruola per non mangiare quel fiore che vogliamo continuare a guardare, perché soprattutto vogliamo sentirne il profumo delicato, che dà profondità all’esperienza di una conoscenza naturalistica che non sia banale o scontata. Osserva gli uccelli selvatici, puzones agrestes, le colorvas, i serpenti, le volpi, marianes e groddes, le galline, puddas, i puzones marinus, ma anche le siepi (crijura), sos arbores mannos, i vulcani, con la voglia forte di addomesticare la natura, nel senso di capirla, di rispettarla, di vederla davvero: cosa c’è di meglio di questa porta letteraria e ambientale davvero emozionante per il Parco Naturale Regionale di Porto Conte ?

Goddi non ha ragione quando nelle indicazioni per i lettori ritiene che quest’opera sia destinata solo ai lettori orunesi, ai quali offre con affetto questo principino chiamato con il poetico vocativo belleddè o deddé o deddeddu.

Tutti ci siamo chiesti come sia potuto sbocciare un fiore così delicato in un’Europa sconvolta dalla guerra, con tutto questo desiderio di felicità legato ad un’attesa di un evento che si ripete in periodi di pace, i balli in piazza, le cerimonie, i riti. I bambini, sos pitzinneddos, sanno quello che cercano, hanno il diritto di essere pigri e allo stesso tempo fedeli, debbono essere indulgenti con i grandi tanto bizzarri se vogliono di nuovo essere felici. E i grandi che non hanno più tempo, non riescono a penetrare davvero le cose: del resto noi non conosciamo altro che le cose che si addomesticano, si tue sas cosas non las amasedas, non bi las connosches, diceva la volpe-grodde-mariane; e gli uomini ormai non hanno radici, raighinas non de tenen, il vento li spinge di qua e di là e debbono ritrovare la strada per diventare davvero riccos cappeddaddos, ricchi solo per possedere ed amare quell’unica rosa, quel piccolo fragile fiore, de vida passizzera, bolantina, di cui sono responsabili ultimi e inconsapevoli.

Perché se andiamo più in profondità questa è una storia iscritta finzas pro sos mannos, soprattutto per i grandi, per le persone serie, po sos omines de gabbale, troppo assorbiti dai pensamentos chi mi occhides del poeta Pauliccu Mossa, ahiò lassademi istare, pensamentos chi mi occhides, tanto da dimenticare s’amistade, sa fantasia, sos sentidos. È necessario riscoprire verità nascoste, rispondere a domande importanti, ritrovare la serenità, attraversare una porta, come gli Antiles del romanzo autobiografico di Mario Medde, gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una grande città. Dice Goddi che la traduzione di questo libro è stato anche un modo nuovo di comunicare e che una maghia at postu in “comunicazione” duos mundos e duas culturas differentes, facendoci capire l’assurdità nella quale siamo immersi, tanto che l’ubriacone beve per dimenticare la vergogna di essere un ubriacone. Come non pensare al De Reditu di Rutilio Namaziano ? Come non pensare al day after, dopo la distruzione di Roma (la capitale del mondo) da parte dei Goti, con il poeta che osserva questi monaci rintanati nelle grotte delle isole dell’arcipelago toscano, che avevano scelto di vivere miserabili solo per la paura di rischiare di diventare miserabili se fossero stati sconfitti da Alarico ?

Completano questo quadro le belle poesie di Giuseppino Cossu e di Mauro Gargiulo, quest’ultima dedicata alla Limba e riferita a questa prenda de oro furada, a questa lingua sarda che è anche un gioiello rimasto nascosto per secoli all’interno di tanche smisurate. Voglio richiamare i versi di Giovanni Maria Dettori:

Fis, dae tempus meda, presonera

tra nuraghes e roccas solianas,

ninnàda dae fadas fitianas,

lagrimada, che prenda, da’ s’aera.

C’è una poesia di Ignazio Delogu, Cun s’oju de s’arveghe t’abbàido una poesia che ci invita guardare al nostro mondo con occhi nuovi, con lo sguardo capace di osservare e far proprie le cose belle del mondo, con lo sguardo di chi si sente ancora parte della natura come la pecora di Orune. E allora occorre piantare negli occhi ciechi di tutti noi una quercia, un leccio, un gelso, un fiore di giglio giallo come il limone verde e come l’erba che cresce in primavera. Con l’occhio della pecora ti guardo e con l’occhio del falco della volpe del cinghiale e della donnola con l’occhio della fontana aperto giorno e notte con l’occhio della rugiada che si chiude al mattino.

Cun s’oju de ogni pedra

de ogni fiore e de ogni animale

e de ogni attera cosa ch’istada

in s’oju de s’arveghe

t’abbàido terra mia

pro t’istimare e ti cantare

(a cua) un’anninnia.

Dunque l’occhio di questo spettacolare Prinzipeddu nostru che ora iniziamo ad amare davvero è capace di vedere in profondità, oltre che di guardare solo con indifferenza e superficialità.

Anche la questione dei vulcani del pianeta di Pritzipeddu mi ha ricordato la bizzarra intervista, l’interloquio a Gavino Ledda che dieci anni fa avevo pubblicato nel volume su Siligo (Padre Morittu ricorderà), dedicato agli uomini e alle donne del Meilogu, la terra disseminata di vulcani: <<e vulcani in Sardegna ce ne sono di roccia ma anche di carne: Che nd’hada de terra e de petta e questo lo devi ricordare perché è stato sempre così: prima de terra e poi de petta, se no faremmo un torto alla terra>>.

Ora che gli abitanti della terra non sono più due miliardi come ai tempi del piccolo principe ma cinque volte tanti, il mistero che noi tutti dobbiamo scoprire è che possiamo essere nello stesso tempo fedeli e pigri, fideles e mandrones in su matessi tempus. Ma passentia bi cheret per trovare il tesoro vero, s’ascussorju che incanterà tutta la casa.

E il segreto di mariane per riuscire ad arrivare alla fontana della vita è molto semplice, non si vede bene che col cuore, ma solo se si è capaci di emozionarci e di piangere. L’essenziale è invisibile agli occhi. E su chi contat aberu si biet solu si bi pones su coro. Sos sentidos non si poden biere chin sos ocros.

Goddi tira fuori un sorprendente proverbio di Orune che Prinzipeddu fa proprio. È proprio Goddi che parla: <<Inoche, in sas alas mias b’at unu ditzu de sos omines chi narat: in su coro bi podet intrare solu sa paragula de Deus e isa leppa: tzertu! Sono duas intradas diversas, ma est pro ti fachere a comprendere chi solu su coro podet ascurtare su chi contat aberu in sa vida e sos sentidos sun sa limba de su coro>>.

E io penso che solo libri come questo riescono a far riporre sas leppas anche figurate di una società troppo conflittuale come la nostra.

Ed Elio Pulli in queste opere elegantissime e colorate ci ha davvero toccato il cuore, proprio come un bambino curioso e appassionato.

Ultimo aggiornamento Domenica 09 Aprile 2017 23:26

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

 21 visitatori online