Magia e inquisizione nella Sardegna del Cinquecento secondo Tomasino Pinna
Attilio Mastino
Ozieri, 20 luglio 2017, Istituzione San Michele
Il volume di Tomasino Pinna pubblicato quasi vent’anni fa per la EDES in occasione degli scavi nel castello aragonese di Sassari è intitolato Storia di una strega. L’inquisizione in Sardegna. Il processo di Julia Carta, Sassari 2000, e ci porta nel cuore della Sardegna spagnola, dopo il Concilio di Trento: è la prima pietra di un’opera più vasta sulla storia della stregoneria vista nella prospettiva della storia elle donne oltraggiate e offese. Julia Casu Masia Porcu detta Julia Carta compare negli atti del primo processo recuperato nell’Archivio dell’inquisizione presso l’Archivo storico nazionale di Madrid, documenti poi ripresi per il volume su Siligo da me curato nel 2003.
Al momento della sua scomparsa, un anno fa, Tomasino lavorava per pubblicare il secondo processo, intentato con spietato accanimento nei confronti di una donna povera dal punto di vista economico e assolutamente priva di strumenti culturali: la sua famiglia d’origine è costituita dal padre muratore (Salvador Casu), dalla madre (Giorgia de Ruda Porcu Sini), da quattro fratelli di cui tre scapoli (due dei quali vivono presso il canonico di Ales, Pedro Desini, fratello della madre, mentre Francesco, l’unico sposato e con un figlio viveva a Codrongianus) e due sorelle (una sposata a Mores ed una ancora ragazzina ai tempi del processo, di 12 anni di età). Julia afferma durante l’interrogatorio di avere più o meno 35 anni, secondo i conti fatti dalla madre e di impegnarsi nelle attività tipiche femminili che riguardano la gestione quotidiana della casa, la tessitura; aggiunge che frequenta regolarmente la chiesa. Sposatasi, all’età di 25 anni, con un vedovo, il contadino (labrador) Costantino Nuvole, già con un figlio di primo letto, ha avuto con lui in dieci anni di matrimonio, sette figli, tutti morti in tenera età, tranne l’ultimo Juan Antonio, di appena quattro mesi.
La sua estrema povertà prosegue anche dopo il matrimonio, all’epoca del processo non possiede altro che i logori abiti che indossa quando viene arrestata e durante la carcerazione nel castello di Sassari è costretta a dormire a terra, in mancanza di un letto che del resto non possiede neppure nella propria abitazione di Siligo. Dagli atti del processo traspare però molta tenerezza per l’unico figlio, l’ultimo di pochi mesi, rimastole in vita: chiede che lo conducano a Sassari, condivide con il piccolo la carcerazione, si espone ripetutamente fino a chiedere di essere ascoltata dall’inquisitore e giunge addirittura a fare ammissioni in totale disarmonia con il poco o nulla ammesso in precedenza, forse proprio per quel bambino che sta allattando in carcere e che rischia di fare la brutta fine degli altri sei. «Julia richiesta e ottenuta udienza, chiede all’inquisitore di chiudere la sua causa e lamenta le sue sofferenze: soffre molto ed è povera, non possiede letto e dorme per terra, per giunta allattando la sua creatura».
Una donna sarda, intelligente e complessa, pur in mancanza di una pur minima formazione culturale; Tomasino Pinna, lo sottolinea laddove scrive a proposito del cambiamento nell’atteggiamento processuale di Julia dapprima di fermo diniego rispetto alle accuse e in un secondo momento di ammissione totale: «Abbiamo modo di osservare l’aprirsi, repentino e inaspettato (data la sostanziale tenuta, fino ad allora, degli argini psicologici e della lucidità della rea), di un varco, di uno squarcio lacerante nella strategia difensiva di Julia, che, abbandonata ogni prudenza, decide di “confessare” tutto (o anche più di tutto, más de lo que es, per usare le sue stesse parole), lasciandosi andare ad un rigoglioso fiorire di ammissioni, che danno come l’impressione di assistere ad uno sdoppiamento di Julia. Sembra di avere a che fare con una persona del tutto diversa da quella che conoscevamo: sempre pronta a ribattere con lucidità alle accuse, attenta a non cadere in errore ma flessibile quando ciò accada, e d’una flessibilità finalizzata ad un rinvigorimento della difesa; debole quando serve ma entro limiti precisi e pronta a controbattere, seppur coi suoi poveri mezzi, ai tentativi di farla cadere in contraddizione; capace anche di star dietro alle razionalizzazioni dell’inquisitore…».
Ci chiediamo la ragione per la quale Julia arrivi ad essere processata. Le accuse mosse contro di lei nascono da vaghe voci di paese; una vicina di casa di Julia, Barbara de Sogos, riferisce al parroco di Siligo, Baltassar Serra, di averla sentita esprimere affermazioni eretiche circa il sacramento della confessione: essa andava resa non obbligatoriamente al sacerdote ma entro un buco scavato davanti all’altare, poi ricoperto di terra o sotto il lenzuolo superiore del letto. Spiegava Tomasino Pinna: «Nel loro complesso, tali pratiche, molto diffuse, costituivano, nel quadro delle precarietà economiche ed esistenziali allora vigenti, un sistema di tutela, dal momento che contribuivano ad instaurare un regime psicologicamente protetto di esistenza. Dove non era possibile tutelarsi realisticamente, si ricorreva al rituale, all’ordine simbolico come mezzo di superamento delle crisi indotte da un negativo variamente configurato nei suoi aspetti naturali (malattie) o sociali (nemici, oppressioni del potere). Tutte queste prassi magiche erano frutto di tradizioni molto radicate, rispondevano a bisogni insiti in quell’ambiente e costituivano una piattaforma sulla quale organizzare e svolgere secondo ordine e misura il proprio vivere quotidiano».
Del resto la vox populi era che Julia fosse una fattucchiera, hechizera, esperta nella confezione di amuleti (nóminas, in sardo “punga”) per proteggere dall’invidia e dalla malevolenza delle persone nemiche. Questa sua attività in realtà si spiega con la configurazione sociale di un villaggio di forse 500 anime, Siligo, in cui la protagonista desiderava rendersi utile alla comunità che l’aveva accolta. Il parroco di Siligo in qualità di commissario del Santo Officio presso la propria parrocchia, agiva, secondo prassi, per conto degli inquisitori e poteva indagare, interrogare ed arrestare, senza tuttavia emettere sentenze che spettavano al livello inquisitoriale superiore.
Il primo processo, compresa la fase preliminare dell’interrogatorio dura oltre un anno dal settembre 1596 sino alla fine di ottobre del 1597. Per 10 giorni dal 25 settembre al 5 ottobre si svolgono, ad opera del parroco di Siligo, gli interrogatori delle sei donne, tra cui la vicina Barbara de Sogos, che accusano Julia di fattucchieria (hechizería) soprattutto in merito ad alcuni preparati consigliati per la guarigione di familiari malati; per i suffumigi; per le nóminas e per la pratica di lanciare maledizioni. Il 14 ottobre viene emesso il mandato di cattura per Julia, nascosta a Mores in casa del padre; il 18 ottobre, arrestata, viene condotta nelle carceri del Santo Officio al Castello di Sassari dall’alcalde (Matheo Maza) con indosso solo i suoi abiti poiché non possiede alcun bene di quelli che vengono indicati in maniera stereotipata dai formulari processuali dell’Inquisizione come denaro, vestiti, biancheria e il letto: tutto il necessario per il suo sostentamento dovrà essere fornito dal tribunale; il 19 ottobre si svolge la prima udienza che si conclude con un primo ammonimento, seguita il 23 ed il 26 ottobre dal secondo e dal terzo ammonimento (con le moniciones si invitava l’accusato-detenuto a liberarsi la coscienza dicendo la verità in modo da concludere la causa nel più breve tempo possibile senza passare alle fasi successive). Il 19 ottobre le viene portato in carcere il piccolissimo Juan Antonio perché stia con la mamma che mostra una salute precaria (le sembra che le scoppi il petto). Julia viene così trasferita dalla cella nella casa dell’alcalde sempre all’interno del Castello. Dopo le tre ammonizioni Giulia non confessa e il processo segue il suo corso. Il 26 ottobre, dopo la terza ammonizione il fiscale (Pedro Folargio) formula le sue accuse contro l’imputata: per aver fatto amuleti (nóminas, pungas) ed aver provocato con malefici la morte di una persona, deve essere considerata una strega (sortílega supersticiosa, supersticiosa magarcha, maléfica hechizera) ed eretica luterana per le sue affermazioni circa la confessione. Il fiscale chiede per la donna la scomunica e le più gravi pene sino alla morte. A questo punto la donna, che fino a quel momento aveva negato tutto, attribuendo le accuse a inimicizia nei suoi confronti ed al diniego di fornire medicamenti di erbe che le erano stati richiesti e che lei sapeva confezionare, inizia a fare qualche ammissione ma di poco conto. Dopo il 26 ottobre viene nominato l’avvocato difensore di Julia il dottor Antonio Angel Sanatello; il ruolo degli avvocati del Santo Officio era assai ambiguo e inefficace nella difesa: essi erano funzionari che dipendevano dagli inquisitori e che lavoravano al loro servizio, si limitavano a pressare l’accusato perché confessasse subito in modo da ricevere un alleggerimento della propria posizione, non esisteva un contro interrogatorio della difesa, le accuse si contrastavano citando i testimoni a discarico o dimostrando l’atteggiamento malevolo degli accusatori ma tutto questo per la Carta non avverrà.
Intanto il parroco di Siligo prosegue le indagini con l’interrogatorio di altri nove testimoni. Il 21 novembre il fiscale (Thomás Pittigado) accusa Julia di patto con il demonio e chiede che in caso di mancata confessione da parte dell’accusata si ricorra alla tortura; la Carta nega le accuse.
Il mese successivo tra il 9 e poi il 10 dicembre Julia, dietro sua richiesta, viene ricevuta dall’inquisitore (de la Peña), al quale chiede di esser rimandata a casa perché soffre molto e sta allattando il bambino; le viene risposto di dire allora la “verità” ma la povera donna non ha niente da aggiungere, per cercare di spiegare il proprio operato dice che esso non risulta da alcuna predizione ispirata dal demonio ma solo dall’osservazione di fatti oggettivi come il rendersi conto del peggioramento delle condizioni di salute di un proprio compaesano (Sebastiano Corda) che lo avrebbero condotto ineluttabilmente alla morte nella stessa notte alla quale risaliva la visita della donna a casa del malato.
L’11 dicembre viene “pubblicata” la lista dei nuovi 12 testimoni a carico, in realtà si tratta di una procedura che niente ha a che fare con la pubblicizzazione, poiché tutto ciò che concerne i testimoni e le testimonianze viene tenuto segreto; una delle poche novità riguarda l’accusa di eresia relativa alla confessione: per l’imputata quel modo di confessarsi senza l’intervento del sacerdote sarebbe stata una cosa scherzosa raccontata dalla nonna, Juanna Porcu, quando era bambina
Nel mese di aprile dell’anno successivo, Julia, ricevuto il permesso dall’inquisitore (de la Peña), trascorre la Settimana Santa e la Pasqua a Siligo, subito dopo alla metà del mese, la consulta del tribunale del Santo Officio (di cui fa parte anche l’arcivescovo di Sassari, Alonço de Lorca) decide all’unanimità di condannare Julia alla tortura e in particolare alla carrucola (garrucha: la vittima veniva appesa per i polsi ad una carrucola fissata al soffitto e lasciata cadere di colpo con strappi di fune, il cui numero veniva deciso di volta in volta dal torturatore e provocava lo slogamento di braccia e gambe). Julia, già con i panni de la vergüenza (los vestidos del tormento), ossia nuda con un panno sulle parti intime, spaventata se non terrorizzata decide a quel punto di confessare “più di quel che sa” e il procedimento di tortura viene interrotto; per quanto riguarda la confessione, Giulia “confessa” di aver appreso quella modalità di autoconfessione dalla nonna e non si trattava di uno scherzo e di averla consigliata ad un’altra donna.
Il mese successivo con il subentrare nel tribunale sardo di due nuovi inquisitori (Pedro de Gamarra e Pedro de Axpe), il processo a Julia riceve nuovo impulso sia per il riesame delle precedenti indagini da parte degli attuali giudici sia soprattutto per la svolta intrapresa da Julia che dichiara di aver avuto numerose visioni da parte del Señor Domán, il diavolo, il quale le si era rivelato come istigatore, maestro e tentatore: dunque da lui derivavano le indicazioni per la preparazione degli amuleti, le terapie a base di erbe, i suffumigi; il diavolo avrebbe indicato a Julia quella particolare autoconfessione, le avrebbe chiesto l’anima e ordinato l’abiura di Dio e della fede in cambio di potere e ricchezza ed infine avrebbe tentato più volte di abusare di lei sessualmente. Dopo questa confessione Julia implora il perdono chiedendo di essere reintegrata nel grembo della chiesa e si dichiara pentita tanto da volersi sottoporre alle pene che le verranno inflitte
Il 26 ottobre del 1597 avviene per Julia la pubblica riconciliazione nella Chiesa di Santa Caterina nell’attuale piazza Azuni, poco distante dal Castello dell’Inquisizione: la cerimonia prevedeva l’abiura della donna vestita con l’abito penitenziale, il sambenito, di lino (o panno) giallo con sul petto e sulle spalle disegnata la croce di Sant’Andrea. Fatta inginocchiare, Julia avrebbe dovuto leggere l’abiura ad alta voce, in presenza del testo dei Vangeli, ma poiché era analfabeta il notaio leggeva frase per frase e la donna, in sardo, ripeteva. Per i tre anni della pena inflittale, la Carta doveva risiedere a Siligo, recitare il sabato il rosario in un luogo di culto e presentarsi la domenica e tutti gli altri giorni di festa con il sambenito, davanti al celebrante: ciò costituiva una pubblica umiliazione coram populo e in ciò del resto acquistava senso la pena che doveva servire da esempio e da deterrente. In realtà la pena standard infliggeva anche pesanti pene pecuniarie al condannato e il divieto di indossare abiti preziosi e gioielli, per quanto, nel caso di Julia, tutto ciò non fosse possibile a causa dello stato di estrema indigenza della donna.
Le pratiche di medicina popolare riferite da Julia nelle prime ammissioni erano le terapie a base di erbe in cui era esperta, suffumigi che avrebbe praticato ad alcune persone di Siligo a base di cera (non era certa fosse o meno benedetta), incenso, palma e acqua benedetta, buttati sulle braci accese pronunciando solo “Jesús María”
Le pratiche riferite da alcuni dei nove testimoni interrogati dal parroco di Siligo anche dopo l’arresto di Julia erano più imbarazzanti. La Famiglia Virde raccontava di una cura con suffumigi, affumentos per guarire da un maleficio che impediva al paziente di lavorare, fatti con una serie di ingredienti deposti all’interno di un recipiente di terracotta e portati ad ebollizione: tre pezzi di tegola di chiesa, tre pezzi di pietra pomice, polvere, palma benedetta, rosmarino, ruta e cùscuta uniti ad acqua benedetta, vino e orina; monete da disporre su striscie di lino poggiate a forma di croce dentro una tegola colma di braci da cui si levavano tante fiamme quante erano le monete, la fiamma nera indicava la malattia di Elias: un giunco sul quale si facevano tanti nodi quante erano le articolazioni di Elias, posto poi tra i seni di Julia, ciò produceva e indicava la guarigione del malato
Famiglia Virde sosteneva di aver fatto ricorso all’opera della strega per conoscere la sorte del figlio in carcere: Julia avrebbe fatto “scendere la luna”, sortilegio tipico della stregoneria utilizzato per le predizioni, che sarebbe consistito nello spostare dalla sua orbita fissa la luna e farla scendere sulla terra, turbando il corso originale, predestinato dalla natura; altro metodo di predizione per l’ammalata Angela Solinas Virde: mettere braci dentro una tegola e gettare sopra un liquido in grado istantaneamente di spegnerle così come nella nottata si sarebbe realmente spenta la vita dell’ammalata.
La bambina piccola dei Virde che non stava bene venne mandata, accompagnata dalla sorellastra, da Julia perché la abervasse, le recitasse le parole; la Carta dopo averla portata per strada le avrebbe fatto vedere una figura nera con il petto nudo e i pantaloni rossi che scendeva dall’aria e che successivamente si sarebbe librata in volo per scomparire, apparentemente il diavolo.
Un composto di Ossa di morto polverizzate racchiuse in un fazzoletto era stato consegnato a Pedro Virde perché lo spargesse sulla soglia di casa del governatore di Sassari in modo che questi non potesse nuocere al figliastro incarcerato. Una pietra fu data da Julia a Pietro Virde incarcerato perché la tenesse in tasca per essere riconosciuto innocente e venire scarcerato.
Sullo sfondo rimane il tema della trasmissione dei saperi popolari, delle conoscenze tradizionali e di una vera e propria sapienza profonda che rimandano ad un passato lontano, addirittura pagano: Julia afferma nel processo di aver imparato a fare le pungas da un’altra donna Tomayna Sanna, la stessa che le avrebbe anche insegnato a fare un unguento a base di erbe, vino e strutto per curare il dolor de costado. Julia afferma di aver appreso le tecniche di predizione relative all’esito di vita o morte per l’ammalato da una zingara, gitana. Infine, nell’ultima fase, afferma di aver appreso quanto sa dal “diavolo”.
La lingua utilizzata è prevalentemente Sardo e non il castigliano L’accusa viene letta in sardo per l’accusata come pure le deposizioni rese dai testimoni che non conoscevano il castigliano, al momento della ratifica.
Secondo Tomasino Pinna gli atti del primo processo a Julia Carta trovano una caratteristica di eccezionalità anzitutto nel fatto che si tratta di un resoconto lungo e completo del procedimento, probabilmente un unicum nel periodo a cavallo tra XVI e XVII secolo in Sardegna, da inserirsi all’interno dei processi per stregoneria che hanno come protagoniste, donne di estrazione sociale umilissima, analfabete, ossia quelle che secondo l’autore qualificano: «il tipo classico della strega, che meglio rappresenta le vittime predilette di quel fenomeno che si qualifica comunemente come “caccia alle streghe” (…). Per queste caratteristiche, tali atti rappresentano un punto di riferimento di assoluto valore per chi intenda studiare la persecuzione della stregoneria nel tribunale sardo dell’Inquisizione».
La storia processuale di Julia Carta, in realtà prosegue ulteriormente per un decennio: dopo una pausa di 7 anni, si svolge il secondo processo: i documenti sono datati 1604-1606 (riportati da Tomasino Pinna trascritti e tradotti, come quelli del I processo, nella seconda parte del volume).
Nel dicembre 1604 Julia viene sentita insieme ad altri prigionieri in merito alla fuga di due presos (prigionieri: fra’ Nicolás Sanna e Antonio Deledda) dalle carceri del Santo Officio di Sassari; nell’udienza del 5 dicembre ella dice di trovarsi imprigionata da sei mesi, dunque da giugno. Quindi Julia in questo anno si trova nelle carceri del Santo Officio presso il Castello di Sassari. Il motivo dell’imprigionamento viene esplicitato in due documenti: una relazione di cause che afferma che la donna è stata imprigionata in quanto sortílega hechizera, dunque a causa di una nuova accusa di stregoneria, a seguito della quale Julia nuovamente “confessa” di aver adorato il demonio e di aver abbandonato la fede in Dio; un memoriale inviato dal fiscale (Bañolas) al Consiglio della Suprema (sede a Madrid, presieduto dall’Inquisitore generale, in stretto contatto con il re, provvedeva ad eleggere gli inquisitori nei territori sotto il dominio della Spagna) contro l’inquisitore (Oçio) accusato di aver tralasciato di rinchiudere le donne, come Julia, accusate di stregoneria, nelle carceri segrete e di averle lasciate nella casa dell’alcalde che altresì sfruttava il loro lavoro: in tale memoriale Julia è definita recidiva, relapsa que se a de relaxar, che deve essere affidata al tribunale secolare perché sia condannata al rogo. Per fortuna ciò non avvenne come si ricava da un documento non datato ma riferibile al 1606 che riferisce di contrasti, circa una possibile condanna a morte di Julia, tra i giudici del tribunale di Sassari, tanto che l’inquisitore (de Argüello) chiede un giudizio definitivo alla Suprema di Madrid sul caso della Carta. Per l’inquisitore sarebbe stato bene «imporre una pena esemplare, tanto più utile quanto più la Sardegna gli appare come terra particolarmente dedita a pratiche di tipo magico-stregonesco». Dunque nel 1606, a due anni dall’arresto Julia si trovava ancora nelle carceri segrete del Castello perché la sua causa non era ultimata. Dopo otto anni nel febbraio del 1614, il nome di Julia ricompare in un documento riguardante la visita fatta dal visitador (Rincón de Ribadeneyra) all’Inquisizione di Sassari che chiede conto delle incurie degli inquisitori relative ai sambenitos dei relaxados e dei riconciliati. Il sambenito costituiva parte essenziale della pena: esso dopo essere stato indossato dai condannati a seguito delle Istruzioni (1561) della Suprema e dello stesso Filippo II (1595) doveva essere appeso nella parrocchia del luogo di residenza dell’ex condannato, una sorta di “Lettera scarlatta”, che marchiava il “reo” e tutta la sua famiglia e discendenza, tanto che molti ad esempio nella Toledo del Cinquecento cambiarono cognome per sfuggire alla pubblica infamia. Scrive Tomasino Pinna: «Se l’intervento correttivo del visitador Rincón de Ribadeneyra fu davvero efficace, non c’è dubbio che il sambenito di Julia – con sopra impressi il suo nome, il suo lignaggio, il suo reato e la sua condanna – campeggiò per un tempo indefinito nelle pareti della chiesa di Siligo, ad perpetuam rei memoriam. Così ha fine la vicenda di Julia. Una vita vissuta per buona parte a dar ragione – e a scontarne le conseguenze- delle sue parole, delle sue idee, dei suoi comportamenti e delle sue competenze al tribunale del Santo Officio. Un caso esemplare, nella sua semplicità, di rapporto fra culture eterogenee: diverse per matrice, qualità e potere».
Questo è il giudizio di Tomasino Pinna su una vicenda controversa che finì per riaprirsi qualche anno fa quando la Prefettura di Sassari aveva impedito al Comune di Siligo di intestare una strada a Julia Carta, la strega. In fondo cosa c’era da intitolarle, così disse la prefettura, era pur sempre una strega, un pessimo esempio e non certo una martire, piuttosto una appartenente a un “giro oscuro”. Un suo allievo ha scritto su “Il Manifesto”, che «consultato in quel frangente, il prof. Pinna si limitò a ribadire il contenuto delle ricerche da lui effettuate sotto il profilo della ricostruzione storico-scientifica, un lavoro di anni basato su documenti raccolti a Madrid. Insomma, la via poteva esserle intitolata di certo, ma non era questo il punto della vicenda. Era invece, come è anche adesso, raccontare la storia di chi non ha avuto voce per poi constatare amaramente che, una volta compiuta l’impresa, c’è sempre qualche cortocircuito che riporta al punto di partenza».
Ora che Tomasino ci ha lasciato, il 25 giugno di un anno fa, in silenzio, dopo mesi di sofferenze iniziate con l'incidente in Ogliastra, a 66 anni di età, lo vogliamo ricordare con il suo sorriso, la sua severità, la sua alta figura morale. Siamo vicini al dolore della sua famiglia, ma anche di tanti amici di una vita che, come me, lo conoscevano da quasi cinquanta anni, partendo dai luminosi anni della Facoltà di Lettere di Cagliari, dove era cresciuto alla scuola di Alberto Mario Cirese e della sua Clara Gallini.
Abbiamo consultato in questi giorni lo stato matricolare di Servizio conservato nell’Università di Sassari, dove era arrivato da Cagliari il 20 aprile 1988 come ricercatore confermato, assegnato all’Istituto di Antichità, Arte e discipline etnodemologiche della Facoltà di Magistero. Dal 1992 era passato all’Istituto di studi etnoantropologici della Facoltà di Lettere e poi dal I gennaio 1999 ci aveva seguito al nostro Dipartimento di Storia. Nel 2004 aveva superato il difficile concorso di professore associato di storia delle religioni e il 23 dicembre 2006 diventava professore associato a tempo pieno. In questi giorni lo abbiamo ricordato con il suo collega del CNR Sergio Ribichini, che conserva uno splendido ricordo delle sue opere. Una malattia lo aveva obbligato a mettersi in congedo straordinario per motivi di salute per tutto il 2010. Con decorrenza I gennaio 2012 aderiva con tutti noi al nuovo Dipartimento di storia, scienze dell'uomo e della formazione, ancora come professore associato di storia delle religioni in Sardegna e di Storia delle religioni.
Al momento della scomparsa, ha lasciato tra i colleghi, gli studenti, i laureandi il ricordo di un uomo buono e generoso, coerente con se stesso, severo anche con gli amici, rigoroso nel suo lavoro di ricercatore pieno di curiosità, di passioni, di interessi, che partivano dal mondo antico con il Satyricon di Petronio (l’arbiter elegantiarum) per arrivare a Gregorio Magno e poi all'inquisizione spagnola e giungevano addirittura ai nostri giorni. Sempre con l'impegno di ritrovare in tutte le società complesse i sistemi mitico-rituali inquadrabili entro la categoria della “magia”, delle “superstizioni” e del “sacro” nelle tradizioni popolari della Sardegna.
Con quel suo linguaggio criptico scriveva per me: «La diversità dei referenti sacri non nasconde le somiglianze dei bisogni e dei meccanismi ierogenetici sottesi alla regolazione rituale di rapporti conflittuali».
Eravamo molti diversi come formazione, lui così laico e razionale (una delle sue ultime lezioni all’Università della terza età il giorno di martedì grasso del 2014 era stata sul tema “Cos’è la religione! Qualche teoria e qualche risposta”). Eppure proprio questa nostra diversità aveva consentito di scrivere insieme l'articolo sul governatore della Sardegna Massimino, amico nel IV secolo d.C. di un mago sardo capace di evocare le anime dannate e trarre presagi dagli spiriti: avevamo studiato ancora le terribili bithiae, dalla doppia pupilla, i violatori delle tombe, i sistemi di divinazione oracolare riconosciuti ai massimi livelli ufficiali nell’ecumene romana (che dimostrano come la Sardegna comunicasse con la cultura diffusa nell’impero), gli altri metodi divinatori, come il rito ordalico-giudiziario legato alle acque prodigiose, che presenta, come spesso avviene in ambito rituale, una valenza polisemica, in quanto svolge una doppia funzione: divinatoria e terapeutica insieme. Le sorgenti calde e salutari (le Aquae Lesitanae di Benetutti-Bultei, le Aquae Ypsitanae di Forum Traiani, con il santuario delle Ninfe e di Esculapio, le Aquae calidae Neapolitanorum, le acque di Oddini-Orani, quelle bollenti di Casteldoria) servivano per guarire le fratture delle ossa, per neutralizzare l’effetto del veleno del ragno detto “solifuga” e per guarire le malattie degli occhi; ma servivano anche come mezzo per scoprire i ladri, i fures: costretti al giuramento sull’accusa di furto, se essi giuravano in modo falso dichiarandosi innocenti, al contatto con quelle acque diventavano ciechi, mentre la vista diventava più acuta se avevano giurato il vero. Insomma, era tornato alle tematiche che più l’avevano appassionato da ragazzo, sotto l’influenza della Gallini, sulle religioni del mondo classico.
Dopo la pace religiosa e l’affermazione del cristianesimo, “i riti magici e divinatori persisteranno in Sardegna, in un contesto sincretistico, nei secoli successivi, e così i malefici, le evocazioni dei morti e le formule cristianizzate di maledizioni, con una impressionante stratificazione culturale. Ci troviamo di fronte a quella che è stata definita una “mobilitazione magica del pantheon cattolico”, in cui l’orizzonte religioso cristiano viene recepito e reinterpretato in base alle esigenze dei gruppi che vi ricorrono (i banditi, i ladri, i maléfici), che filtrano sulla base dei loro interessi la percezione e l’utilizzazione dei santi e dei simboli cristiani, piegati alle esigenze connesse ai loro specifici problemi e ai loro vissuti esistenziali”. Alcuni santi gli sembravano “invocati e ritualmente coinvolti (in un rapporto definito nei termini della costrizione magica) ad agire come potenza di morte contro i nemici: lontani eredi del Marsuas dell’óstrakon di Neapolis, delle divinità infere delle tabellae defixionum e delle anime noxiae dell’amico sardo di Massimino”.
E il nostro contrasto dialettico sul tema “Culture egemoni e culture subalterne” del vecchio lavoro di Cirese, come a proposito del suo articolo sui linguaggi simbolici subalterni o sul diavolo nell’orizzonte magico subalterno. In un mondo attraversato dal terrorismo islamista (che osservavo da Herat in Afganistan), capivamo entrambi che queste categorie risultavano ormai da superare, la realtà finiva per essere più complessa delle formule tropo esemplificative. E poi San Nilo di Rossano (Edizioni Parallelo, 2011), la sorprendente amicizia con Ileana Chirassi Colombo, che considerava la più grande storica delle religioni italiana; i nostri amici comuni. Con Raimondo Turtas si scambiavano recensioni più o meno affettuose, come a proposito di Gregorio Magno o sulla storia della chiesa in Sardegna (2008), lui sempre attento alle reinterpretazioni popolari e alla repressione inquistoriale, come a proposito del culto dei morti e dei santi. Tra le mie carte ho ritrovato i suoi estratti su Il diavolo di Sorigueddo con documenti scovati presso nel 1998 l’Archivo Histórico Nacional di Madrid e Un auto de fe in Sardegna del 2000.
Tre anni fa mi aveva regalato il libro che più amava, scritto da Ernesto De Martino, dedicato alla crisi causata dalla morte, che esplodeva nel pianto rituale nel mondo antico e che riproponeva il tema della riduzione antropologica del sacro (nell'edizione del 2008): ne avevamo discusso a lungo, riflettendo sul tema della presenza e dell’assenza, che finisce per essere una delle categorie sulle quali costruire un’idea diversa di Sardegna, partendo dagli “eroi” del rito incubatorio della Fisica di Aristotele e dai Giganti di Mont'e Prama, per i quali secondo Tomasino doveva presupporsi un apparato ideologico-celebrativo, che si concentrava a partire dal prestigio sociale riconosciuto dalla comunità dell’estrema età nuragica ai giovani rappresentati sulle statue, cme esponenti di un’aristocrazia vincente.
Tra i suoi lavori più recenti: Il viaggio del signor inquisitore (Bollettino di Studi Sardi), 2014; la monografia Il sacro, il diavolo e la magia popolare. Religiosità, riti e superstizioni nella storia millenaria della Sardegna pubblicata nel 2012 da EDES; nel 2007 aveva pubblicato lo straordinario capitolo Magic in The Blackwell Encyclopedia of Sociology. Aveva concluso il secondo volume sul processo ad Julia Carta, che speriamo possa essere presto pubblicato.
Oggi vorremmo asciugare le lacrime di Luciana ed di Adriano, immaginando laicamente Tomasino arrivato in un modo felice e tutto suo, con le parole che Omero nel IV libro dell’Odissea riferisce a Menelao di Giove alunno, il principe originario di Argo città nutrice di bei cavalli: Nei campi elisi, al confine del mondo, presso le isole dei beati, ti hanno mandato gli dei, là dove regna il biondo Radamanto, il saggio figlio di Zeus, e dove per i mortali è più bella la vita, che scorre senza cura o pensiero: neve non c'è, né freddo acuto, né pioggia mai, spira sempre il soffio sonoro di Zefiro, il vento Favonio che Oceano manda per il sollievo degli uomini più fortunati.
Ultimo aggiornamento Domenica 23 Luglio 2017 15:20