Presentazione del volume di Giovanni Soro, Camineras

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Scritto da Administrator | 26 Ottobre 2017

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Presentazione del volume di Giovanni Soro, Camineras
Attilio Mastino
Chiaramonti, 29 ottobre 2017

Ho visto all’opera il prof. Giovanni Soro e il Coro Matteo Peru di Perfugas in tanti luoghi della Sardegna, in particolare nell’aula magna dell’Università di Sassari in occasione delle ripetute visite dei suoi amici dell’Università di Surin nella Tainlandia del Nord-Est. Così il 13 agosto 2013, quando ricevette assieme a Paolo Puddinu l’elefante d’oro dal presidente della fondazione tailandese “Surindra International Folklore Festival” Achara Phanurat, già Rettore dell’Università tailandese di Surin, il più alto premio della fondazione tailandese.

Il riconoscimento intendeva mettere in evidenza l’efficace attività relazionale dei due professori con la prestigiosa istituzione tailandese. In particolare Giovanni Soro, già preside e dirigente scolastico nelle scuole secondarie italiane, ha il merito di avere stretto i primi rapporti con l’Università di Surin, dove ha insegnato per alcuni anni Cultura italiana e latina ma anche tradizioni popolari della Sardegna, giovandosi del costante rapporto scientifico con Mario Atzori e Maria Margherita Satta.

Questo volume Camineras, tradotto in italiano con Orme e in francese dans les chemins, fortemente voluto da Maria Silvia Soro, da Vittorio Pinna, da Antonio Murziani, da Angelino Tedde, con la traduzione francese curata prima da Mariella Fiori e poi da Pietruccia Bulla, racconta una vita intera, che inizia con le poesie perdute dei primi anni 60 ritrovate da Antonio Canalis negli archivi del Premio Città di Ozieri, Notte incantada, Orgosolo e Cantigu de fozas: come non pensare, fatte le debite proporzioni, al recente volume di Annico Pau dedicato ai Canti Perduti di Sebastiano Satta? Un dono alla città di Chiaramonti e alla Sardegna tutta, con i paesaggi amati che riemergono nella solitudine delle campagne, delle pianure e delle alture, i montijos, della nostra Isola.

C’è sullo sfondo di queste poesie la fatica del vivere, sa mattana de istare die pro die in cuiles e cussorzas inue sos pastores, sos massaios, sos linnajolos e i sos carvonajos che colaian bastante de su tempus insoro. Siamo nella Sardegna dell’immediato secondo dopoguerra, sembra di rinnovare la pena delle pagine di Joyce Lussu su L’olivastro e l’innesto, con una specie di bestemmia contro  l’ingiustizia, il dolore, la fame, le malattie, ma anche con la forza data in Sardegna dai legami familiari, dai sentimenti e dalle speranze di un tempo nuovo.

La traduzione letterale di camineras, che del resto troviamo nei testi delle poesie, sarebbe sentieri; la traduzione del titolo con orme non è fedele, eppure rimanda a Sos Arrastus, all'affannata ricerca delle orme, delle tracce, delle testimonianze lasciate dagli uomini e dagli animali in una cultura pastorale ferita dall'abigeato che continua a vivere nel profondo.  In un libro recente Mario Medde racconta la primavera insanguinata del 1922, l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula a Norbello verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare.

S'Arrastu, ancora su un altro sentiero, quello che da Pranu ‘e lampadas portava a Sa Serra, e che riporta alla mente il tragico ricordo della morte, nel 1953, dell’altro nonno, quello paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore: Mario Medde scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile.

Come nelle mostre di un artista che amo Antonio Ledda, in queste poesie c’è una campagna spesso violata, la voglia di capire il passato più doloroso, la violenza, frutto dell’ingiustizia e della prevaricazione in una Sardegna arcaica, in una società agropastorale ormai al tramonto, in un territorio di frontiera battuto da un vento maledetto che avanza sui campi di asfodelo e di cisto, subra roccas antigas de granitu.  Il vento salmastro / del mare /che inaridisce i germogli / delicati / e uccide le attese nel cuore. Ma anche il vento forte che soffia da ponente, capace di portar via le pene, prosighi forte, lèache sas penas!

Seguendo questo filo rosso, è ora possibile scorrere il telaio della vita, su telarzu de sa vida, les châssis de la vie, osservare le stelle e constatare che anche la luna / a falce / ha lacrime / che muoiono / nel canto lento / del tempo.  Quella luna gloriosa col suo lieve solco d’argento che continua a baciare i voli stanchi del mondo. Così il sole coi suoi raggi nascosti dalle nuvole e le stelle che si affacciano a mari tempestosi. Stelle che sembrano accompagnare mestamente i brividi nascosti della campana dell’anima che tristemente rintocca e rinnova il tormento, mentre nell’autunno che si affaccia inesorabile i desideri, sos disizos, vanos ingannos, / mudos e tristos / sun’ diventados /e malzidu an’ogni / frua noella, e hanno consumato / ogni germoglio / novello.

Ci sono soprattutto questi versi straordinari dedicati al padre, pro te apo disizadu, che raccontano di tanche sconfinate a lungo desiderate, di campi seminati, di pecore e bianchi agnelli, e grassi buoi e solchi neri e praterie in fiore rugiadose, cieli chiari, ruscelletti e albori senza fine.  Ma il fuoco ha sterminato il gregge, prima dell’alba morivano i sogni e so restadu a piangher, / a piangher sos disios / de sa vida tribulada / chi promittit avreschidas seguras, qui inutilmement promet / des aubes sûres.

Il filo dei ricordi, s’ispau de sos ammentos, è raccolto da mani prive di speranza, un po’ come con Giovanni Nurchi osservando il trascorrere del tempo, Ajò, lassademi istare / pensamentos chi mi ‘occhides ! / e ad ite mi cherides / su passadu ravvivare ? Giovanni Soro racconta di cantos ammentos feridos / che s’acceran’ intro su coro, suscitando una poesia che finisce per essere attrivida, tra ruscelli di lacrime e di sangue, rizolos de lagrimas e de sanben (Cantigu de fozas).

Mentre tutto attorno dilaga la solitudine, gli amici si perdono, non sezis torrados o amigos, a cantare sos àlidos de su coro. Eppure ancora vi aspetto all’imbrunire, amici, fratelli, figli, persone care che tornano lungo i leggeri sentieri dello spirito, perché alla fine sa vida est isperea / chi non moridt, / es’promissa / chi non finit, / es’gherra / chi faghet omnines, est allegria / de riu mannu / chi cantat pasadu / sa felizidade / de un’iscuta, di un istante luminoso e indimenticabile.

Eppure basta il suono solitario di un organetto alla cantonata nella notte incantata (Chiaramonti 1961) per ricordare un amore ismentigadu; e gli occhi vividi dei vecchi che rammentano la giovinezza sanno di eternità; at torrare maju / e-i su sole / at a imperare pro infonder sos ammentos, resti di fanciullezza di quell’alba lontana;  Mai revendra / et le soleil / aigusera / le retour des souvenirs / les reste de l’enfance / de cette aube-là lointaine. Oggi è possibile ritrovare stupiti l’incanto e la bellezza de sa pitzinnia,  riuscire a cogliere sensazioni perdute, sa ‘oghe ch’addulchit sa tristura ‘e sos anneos, la mestizia o la melanconia degli affanni.

Il benessere, la gioia, la felicità di un tempo lontano, le speranze, i desideri, che riscopriamo osservando il paese disteso sulla collina come un vecchio addormentato, il paese di pietra bianca, triulada, chena alimentu, tribolato senza cibo, che attende nella roccia del cuore spossato e stanco stagioni di acque fresche capaci di trascinare giù fino al mare turmentos mannos. Perché dopo il lungo percorso sconsolato, che ha provocato tante piaghe alluttas chi ochin su coraggiu, ora il sole del mattino ti stringerà la mano con occhi di gioia, le mani di rugiada abbracceranno felici le ansiose vie della speranza, per quanto l’amore sia simile alle foglie d’autunno che volano e cadono sull’uomo dentro il cuore.  Eppure, lasciatemi questa notte, ca devo saludare calicuna / ch’isettat pro mi poder abbratzare.  Tanti sentimenti, tanti affetti, tante presenze, come quella sempre presente di questa figlia incantevole, charmante, bijou précieux, amour convoité, ruisseau de caresses, ciel fatigué, maison de merveille.

C’è in queste piccole e deliziose poesie la capacità di stupire, di emozionare, di incantare con una passione che non si spegne, con le carezze che si rinnovano, con la voglia forte di smettere finalmente di piangere con lo scopo di vivere pienamente per i giorni futuri - lo scriveva a Badesi vent’anni fa -  solo col sole di oggi.

Ultimo aggiornamento Giovedì 26 Ottobre 2017 21:01

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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