La scomparsa di Paolo Pillonca (Osilo 8 ottobre 1942 – Cagliari 26 maggio 2018)
Verso Paolo Pillonca da sempre ho provato un’ammirazione senza confini: la sua profondissima cultura classica che emergeva ogni volta che c’incontravamo, tra Omero, Cicerone, Orazio, il Padre Dante, con citazioni che mi sembravano puntualissime e davvero felici e che pensavo fossero dedicate espressamente a me, anche se non era così.
Questa conoscenza professionale di dettaglio della poesia in lingua sarda, in particolare questa sistematica schedatura della folta schiera degli improvvisatori, che si estendeva nel tempo dai grandi del passato, copriva spazi geografici impensabili, raccontava una passione, una curiosità, una sensibilità che ci commuoveva e ci incantava. I suoi interventi erano davvero godibili e apprezzati da un pubblico eterogeneo e vivace.
Tante volte l’avevo interrogato su aspetti marginali, sui poeti dei miei territori, Giovanni Nurchi a Bosa, Pittanu Morette a Tresnuraghes, Gavino Delunas a Padria oppure Remundu Piras a Villanova, trovandolo sempre preparato e capace di penetrare il senso profondo, l’eleganza, la qualità della produzione poetica isolana, la sua ispirazione profonda, le sue radici.
Nel premio Ozieri l’avevo visto all’opera durante le riunioni della giuria e quando conduceva assieme a Nicola Tanda e ad Antoni Canalis una cerimonia davvero complessa: coglievo tutte le occasioni per assorbire da lui idee, suggerimenti, indicazioni, giudizi, come quando censurava con severità la frequente zoppìa nella metrica adottata da molti poeti che partecipavano al premio Antoni Sanna o quando esaltava i risultati straordinari ma meno noti della poesia per il canto, come nel Premio Gurulis Vetus a Padria o nel Premio Antoni Cubeddu o in tanti altri premi letterari ai quali partecipava come presidente o come giurato, in tutta l’isola, con questa serenità che lo distingueva da tanti esagitati e incompetenti cultori, difensori di un orticello sempre più piccolo: con la voglia di estendere la rete dei rapporti, di allargare la documentazione negli archivi, di approfondire la conoscenza della vita dei poeti, di coinvolgere tutti, di recuperare il carattere plurilingue della Sardegna, di non abbandonare le varianti storiche, di confrontarsi sul tema degli standard con un profondo rispetto per le posizioni di tutti ma senza rinunciare ad una ricchezza e ad un rapporto diretto con la lingua materna dei Sardi.
E poi l’antico legame con Vittorino Fiori e con mio padre attraverso le pagine de L’Unione Sarda o con il mio maestro Giovanni Lilliu, orgoglioso delle sue origini contadine che leggeva una continuità ideale con la storia della sua famiglia originaria di Barumini: continuità che era innanzi tutto un persistente legame affettivo con gli spazi, con i monumenti, con il territorio, con l'ambiente fisico che contribuiva a costruire un'identità. Pillonca aveva mantenuto rapporti con il paese di nascita, Osilo, con l’Orgosolo della sua infanzia, con la Lanusei dei Salesiani, con Tempio, con Cagliari, infine con Seui. Proprio a Cagliari si era brillanteemente laureato con Antonio Sanna in Linguistica Sarda.
A Sassari poi negli anni Novanta, Nicola Tanda, io stesso e il preside Giuseppe Meloni, l’avevamo chiamato a tenere vari corsi e seminari sulla poesia verbale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, molto seguiti dagli studenti, con la partecipazione alternata di cinque improvvisatori: Mario Màsala, Francesco Mura, Antonio Pazzola, Giovanni Seu e Peppe Sozu. Eravamo allora partiti dalle sue tante pubblicazioni, fino a quello che considero il suo capolavoro, Chent’annos, cantadores a lughe ‘e luna, pubblicato dalla sua casa editrice Domus de janas a Selarigius nel 2003: sempre alla ricerca della strada originale dalla quale nasce il miracolo della creazione improvvisata del verso logudorese, "una caminera ‘e virtude pro su tempus benidore ‘e unu pòpulu chi leat alénu dae s’istoria sua pro poder atopare a cara franca cun ateros pòpulos de su mundu".
In apertura dell’ultima riunione del premio Città di Ozieri qualche giorno fa, il 5 luglio, l’abbiamo ricordato commossi con infinito rimpianto, partendo da alcune poesie che gli erano più care. Al termine di un incontro che è stato lungo, tormentato e per noi anche difficile, le lacrime di Maria Cristina Serra mi hanno riportato dolorosamente al senso della perdita irreparabile, partendo da un ricordo che mi ha fatto sobbalzare: il pranzo a Bosa con Tonino Oppes, qualche anno fa, alla vigilia del premio di Padria, un momento incantato della mia vita, che non dimenticherò. Allora abbiamo capito cosa la Sardegna intera ha perduto, siamo per un momento riusciti a cogliere la fortuna di chi l’ha conosciuto e a valutare il senso di un’eredità che spero vorremo tutti raccogliere con rispetto e gratitudine.
Attilio Mastino
Ultimo aggiornamento Sabato 04 Agosto 2018 23:16