Presentazione del volume Memorie di Pendio Grande.

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Scritto da Administrator | 02 Dicembre 2018

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Presentazione del volume di
Antonio Ledda, Memorie di Pendio Grande, Ghilarza 2018,
Serramanna I dicembre 2018, Associazione Il Pungolo

Grazie all’amicizia con Antonio Ledda, ho letto qualche mese fa con sorpresa il dattiloscritto provvisorio del volume che oggi presentiamo qui a Serramanna in questo Settecentesco Monte Granatico, con un titolo che richiama un’opera di Vico Mossa: mi aveva colpito la capacità dell’autore di raccontare il suo paese amato, la sua infanzia, i suoi giochi, il rapporto dolce e amaro con le persone che soffrono, con alcuni personaggi emarginati sempre osservati con simpatia come i due sordomuti; ma anche con i poveri, con suoi familiari, con i suoi amici.

Il sapore di vita vera, di autenticità e di partecipazione, con gli occhi di un ragazzino pieno di curiosità, di interessi, di paure, con una grande capacità di osservazione, ma anche sensibile al dolore, alla sofferenza, alla malattia, alla morte, pure quando è voluta e cercata: così il suicidio di Tziu Agostinu tanto affettuosamente legato a questa moglie magra e secca, con la testa sempre coperta dal fazzoletto color giallo oliva; tanto legato da non poterle sopravvivere. Un ragazzino, quello di allora, che era fornito di una memoria gigantesca, se oggi è capace di raccontare la sostanza profonda di un mondo al tramonto, in una Sardegna allora rimasta prodigiosamente quasi fuori dal tempo, chiusa nella sua identità, irrigidita nei suoi costumi millenari.

Scorrendo ora queste pagine stampate a Ghilarza dalle Edizioni Nor con questa strepitosa copertina che richiama un monumento modernissimo, il monumento al grano che ci riporta a questo luogo, ci sono mille cose da raccontare, mille emozioni da cogliere, mille sensazioni che si accavallano.

Io non sarei in grado in nessun modo di ricordare con tanta forza e capacità prensile, con tanta lucidità la mia giovinezza spensierata e lontana,  anche se ho ritrovato molte cose  che mi appartengono e che sono in comune tra noi: vivere in una famiglia numerosa, la stanza segreta, il nascondiglio oscuro tra i fasci di canne raccolte ad asciugare e a invecchiare al sole; oppure le misteriose capanne costruite da ragazzi, le evoluzioni e i giochi di equilibrismo sui rami degli alberi di fico in campagna, assieme ai fratelli, come tanti acrobati improvvisati; l’altalena; le disavventure in bicicletta; il rapporto con gli animali domestici; i carri a buoi (a Serramanna ma non a Bosa ancora con le ruote piene); il gelataio Baglioni – a Bosa - con la bici a tre ruote; il cinema; il banditore di Cuglieri;  i momenti collettivi, come le vendemmie, la raccolta dei fichi, delle pere, delle fave, i profumi dei campi; perfino il libretto  nero con tutti i creditori nel negozio di mio padre. In queste pagine fioriscono i ricordi, che rasserenano, come l'immagine della casa dell’ infanzia: così a Modolo per il poeta Orlando Biddau, il granaio con la frutta appesa ad essiccare e i mazzi d'agio e di cipolle, / le ghirlande di sorbe, i grappoli / d'uva, le noci e le mandorle / le grosse collane di fichi, / le pere e le melagrane / e le melerose odorose / di tutte le primavere di mia nonna.

Innanzi tutto non si capisce l’artista di oggi,  Antonio Ledda (che ora si divide tra il Campidano e il mare di Bosa), senza leggere questo libro, che fa scoprire l’origine delle sue competenze e abilità artigianali affinate a Cagliari e Firenze, il gusto per il bello, le capacità tecniche, il legame con la natura, l’esperienza nella lavorazione dei frutti della terra, già da quando si limitava a girare la manovella per lavorare la farina per il pane fatto in casa oppure riparava il piano in mattonelle in terracotta del forno; persino la consapevolezza di possedere un carattere forte e difficile, la forza  di ammettere i propri difetti.

C’è un’enorme differenza con la fanciullezza di un altro autore, tanto diverso e apparentemente più infelice, il Gavino Ledda di Padre Padrone,  con quel paese letterario, Siligo, con le sue tradizioni popolari, con la lotta per la sopravvivenza, la tragedia del vivere quotidiano, la sofferenza di una società che sembra immobile e fuori dalla storia, afflitta dal gelo e dalla pioggia, dalle cavallette e dalle malattie.

Qui con Antonio Ledda siamo di fronte ad un quadro ben più articolato e positivo, che non conosce la solitudine della campagna controllata dai barracelli, con legami forti tra le persone, con un sole sempre splendente, perfino con tenerezza e affetto inusuali in una Sardegna antica: così il rapporto indimenticabile col padre o il rimpianto per l’assenza del fratello più piccolo della sposa, imbarcato in marina, forzatamente assente dalla cerimonia del matrimonio in famiglia. L’indulgenza per gli errori e i malanni altrui, come per i malati di mente. Come diceva Cossiga per il suo paese, Serramanna per Antonio Ledda è il “luogo” che gli ha insegnato la sardità, nella lingua, nei costumi, nei cibi, nel concetto di “paesanità” e quindi di fierezza, di sincerità e di amicizia. Una sardità che compare in tutte le pagine di questo volumetto, che con la lingua sarda in prosa o in rima restituisce abitudini, indica in dettaglio strumenti agricoli, riporta alla memoria proverbi e soprannomi, perché questa è sa limba imparada dae minore, attaccau de mama a sa suttana (Ignazio Camarda).

Né l’autore si nasconde che questa sua formazione difficile gli ha lasciato addosso anche qualche ingenuità, una candida passione per il mito di una Sardegna grande e felice nel Mediterraneo, che legherei al nome stesso della strada di Serramanna dove si trovava la casa campidanese che l’ha accolto da ragazzo, la via Gialeto nel vicinato di Babané, un tempo solo un vicoletto fangoso in campagna. E Gialeto re di Sardegna è il frutto di una falsificazione romantica ottocentesca, quella delle Carte d’Arborea, che è alla base della “invenzione di una mitica battaglia per l’indipendenza della Sardegna dal dominio bizantino”, con la ribellione e finalmente la liberazione durante il periodo giudicale. Una storia di successo, se la Polisportiva Gialeto continua ancora oggi a sostenere nel nome una tradizione così controversa.

La Via Gialeto a Serramanna che sfocia sullo stradone principale è un po’ il microcosmo di un’infanzia dura ma felice,  di un mondo che poi si allarga e arriva fino ai due fiumi un tempo ricchi di pesci, il Rio Mannu e il suo affluente il Rio Leni; un orizzonte che progressivamente si estende, verso i confini con Samassi e Sanluri a Nord e Villasor a Sud; a Est con Serrenti, Nuraminis, la Villagreca del nuraghe Sa Corona che ho visitato con Giovanni Lilliu quasi 50 anni fa; a occidente fino a Vallermosa e Villacidro; fino a comprendere progressivamente  più in generale tutto il Campidano che Ledda chiama il “nostro Campidano” e persino tutta la Sardegna.  Strade che ci conducono fino a quella San Sperate di Pinuccio Sciola a ridosso di Villasor che un ruolo deve pur avuto nel fiorire di tante scuole d’arte in una Sardegna che usciva faticosamente dalla Guerra, assieme agli artisti ceramisti di Pabillonis e di Assemini: queste pagine conservano memoria delle controverse fasi della trasformazione dell’antico paese contadino, caratterizzato da tradizioni quasi preistoriche come testimoniato dal menhir Perda Fitta a Cuccuru Ambudu, da un’economia di baratto e di sopravvivenza basata sulle antiche professioni, sul trasporto animale a dorso d’asino, sul frumento impiantato in età romana in un’isola che fu per Cicerone uno dei tria frumentaria subsidia rei publicae. Mentre a San Sperate i muri vengono dipinti di bianco e coperti di murales, a Serramanna – se si escluse la Società operaia – ad essere intonacati sono i mattoni di fango, i caratteristici ladiris che ricordano una tecnica edilizia documentata in Sardegna dallo scrittore Rutilio Palladio nel IV secolo d.C., i mattoni di argilla e di paglia prodotti in primavera e descritti nel de lateribus faciendis dell’Opus Agriculturae. In parallelo con Antonio Ledda, nelle parole di chi l’ha conosciuto ragazzino, Pinuccio Sciola compare senza neppure le scarpe ai piedi, ma già circondato da affetto, stima, speranza, affezionato alla vita del paese che si sviluppa con una straordinaria socialità nelle cantine, nei cortili e nelle cucine, integrata nella campagna, ma insieme pieno di curiosità, desideroso di lasciare una traccia di sé.  Ledda con una competenza pratica e artigianale che si osserva in ogni pagina di questo libro, come a proposito delle pratiche per la conservazione del grano contro i parassiti o gli insetti, che ricordano le pagine luminose del volume di Francesco Manconi, Il grano del re, con la descrizione delle pratiche agricole per dare ossigeno al deposito del grano nel monte granatico: pagine che rendono bene il tema delle continuità, della storia lunga dell’isola, delle eredità profonde con le quali generazioni e generazioni di Sardi hanno dovuto fare i conti. L’ispanizzazione dell’isola si imposta su una realtà culturale di lunga durata, che parte dal mondo antico e in qualche misura sopravvive in modo sotterraneo ancora ai nostri giorni.

Questo libro ci consente di varcare una soglia, per entrare in un territorio, per cogliere una cultura, un ambiente sociale, un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una città. C'è una soglia da superare e una porta che non si chiude mai tra realtà e fantasia, tra la rabbia e l'amore, tra la fede e la ragione, tra le parole e le cose. Anche le figureddas in legno dell’artista stanno lì a ricordare una fanciullezza luminosa e colorata, che si può rivivere non attraverso le cose ma solo partendo dai luoghi che suscitano emozioni, non quei luoghi di oggi tanto diversi, ma quelli della memoria, che evocano le mille immagini di allora, gli arragordus de unu piciochedhu: i giochi come a màmmacua, la raganella per Pasqua, la barchetta a vela che veleggiava entro il tino per la festa di settembre, la trottola; i giochi a squadre anche con le ragazze;  le guerricciole tra bande di ragazzotti, le fionde, le cerbottane, sa passillada della domenica,  il buio della notte illuminato dalla lampade a carburo. Dunque il ruolo di su castiadori, del custode dell’aia, s’axroba, contro i furti; la semina; il duro lavoro nei campi. Le tradizioni raccontate in dettaglio, come per il matrimonio di Marilena e Vittoriu,  talora con una competenza linguistica e descrittiva da far invidia ad un antropologo.

C’è in questo libro anche un capitolo, dedicato alle prime espressioni d’arte del ragazzo, ai primi disegni, che spiega lo svilupparsi della vocazione artistica: utilizzando i tizzoni di carbone <<disegnavo sui muri imbiancati con calce nel magazzino del vino o del pagliaio, dove ancora oggi si possono vedere>>.  E poi la scuola, i metodi didattici severissimi, la crudeltà dei maestri verso i ragazzi più fragili.  Tanti racconti, alcuni davvero sconvolgenti come la vicenda di Maria Pistirinca, che ci consentono di ricostruire un ambiente, un clima, una rete di rapporti sociali chiusi al proprio interno, che però non escludevano sos cabillus, sos strangius, gli stranieri come i mercanti desulesi arrivati a vendere - come scriveva Montanaru – truddas e tazeris:

Tott’isclamana: Accò sos castanzeris!

E issos umiles naran: Eh, castanza!

E chie comporat truddas e tazeris?

Sono tornato oggi a Serramanna per rivedere Vito Spiga e mia sorella Lucia e la tomba di Vincenzo, con il desiderio di rinnovare la memoria, con un rimpianto che gli anni non riescono a cancellare. Sono passato davanti a quella che è stata una delle Cantine sociali più grandi d’Europa e davanti all’industria conserviera agroalimentare della CASAR, sempre con disagio. Ma poi ho osservato ammirato la chiesa parrocchiale di San Leonardo di epoca catalano-aragonese, con il caratteristico campanile ottagonale ricostruito dopo il crollo di un secolo fa. Campanile che compare nel nuovo stemma disegnato da Flaviano Ortu su indicazione di Stefano Pira. Ma tornano in questo volume anche Sant’Ignazio da Laconi, Sant’Angelo proprio a due passi da Via Gialeto, San Sebastiano, in campagna l’antica chiesa giudicale di Santa Maria con la splendida festa durante le vendemmie.  Tanti luoghi favolosi nella sterminata pianura campianese, dai quali con generosità i miei parenti ci portano a Bosa prodotti davvero unici, come i carciofi, gli asparagi, le bietole selvatiche, le olive, i limoni.  Un mondo nuovo e un mondo antico che si ritrovano.

Quando scavammo con i nostri studenti le terme di Villaspeciosa sotto la direzione di Giampiero Pianu ci rendemmo conto che è in corso in questa area della Sardegna un salto di qualità, un rinnovamento culturale  profondo anche nel modo di trattare i beni culturali e il patrimonio. Basta guardare questo Monte Granatico o il vicino mercato della carne. Questo libro testimonia una attenzione e una sensibilità che non può essere di una persona ma che è certamente di un gruppo, di tanti amministratori e di un’intera comunità. È evidente che sotto gli occhi abbiamo ora tante novità e ancora di più ce ne aspettiamo per una Sardegna futura più felice di quella conosciuta da un bambino di un tempo lontano.

Attilio Mastino

Ultimo aggiornamento Domenica 02 Dicembre 2018 21:52

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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