Roma, Institutum Romanum Finlandiae, 16 giugno 2021.

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Scritto da Administrator | 20 Giugno 2021

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Attilio Mastino
Roma, Institutum Romanum Finlandiae, 16 giugno 2021


Presentazione del volume Il Mediterraneo e la Storia, III, Documentando città portuali - documenting port cities, Atti del convegno internazionale, Capri 9-11 maggio 2019, a cura di Laura Chioffi, Mika Kajava, Simo Örmä, Roma maggio 2021, Acta Instituti Romani Finlandiae, 48, Institutum Romanum Finlandiae, pp. 325

Questo volume 48° degli Acta Instituti Romani Finlandiae curato da Laura Chioffi, Mika Kajava e Simo Örmä, nell’ambito delle ricerche sul Mediterraneo e la storia (terzo dopo i convegni di Napoli del 2008 e di Ischia del 2015), studia in profondità molte città portuali e rappresenta mille punti di vista diversi e complementari su territori collocati tra terra e mare, con attenzione agli aspetti archeologici, epigrafici, scientifici in un orizzonte di incontro tra culture, con un aggiornamento bibliografico davvero unico, a distanza di due anni dal convegno internazionale di Capri (9-11 maggio 2019).

Letto il volume, arrivato alle ultime pagine, ho provato un senso di gratitudine per l’impegno, l’intelligenza, la passione dei quasi trenta autori, che sono stati capaci di sintetizzare tematiche difficili e di raccogliere dati che saranno utilissimi per chi vorrà tornare in futuro su questi argomenti; ciascun intervento presenta un aggiornamento bibliografico davvero rilevante e l’opera si colloca con una sua dimensione autonoma e originale all’interno delle decine di ricerche delle Università e di molti Istituti di ricerca.

In copertina compare il bel mosaico di età augustea dalla Villa Grande di Nettuno, con la rappresentazione dell’immagine tipica di un arsenale (navalia). Il tema iconografico, le arcature di navate costruite dentro le mura cittadine (di cui si si individuano sullo sfondo i  merloni)  con elementi tipici delle navi militari, ostra, aplustra di poppa con ornamenti, è molto comune nei mosaici ed in alcune pitture parietali (e.g. Perugia).  Le ampie lacune del mosaico raccontavano la quantità di informazioni andate irrimediabilmente perdute ed ora testimoniano l’impegno dei ricercatori per ricostruire in questo volume i singoli frammenti di un quadro complesso e articolato. Come non ripensare alle bitte per l’approdo nel bacino del porto di Leptis Magna, che tanto ci avevano colpito dieci anni fa ? Il quadro complessivo è omogeneo, anche se le competenze degli studiosi sono molto diversificate, mettendo comunque a frutto tanti altri incontri dedicati in passato a tematiche analoghe, come per il XIV convegno de L’Africa Romana "Lo spazio marittimo nel Mediterraneo occidentale in età romana: geografia storica ed economia" (Sassari 2000): in quell’occasione avevamo affrontato temi quali lo spostamento della linea di costa, le installazioni portuali, le industrie derivate dalla pesca, le cave litorali, le rotte, gli itinerari, le isole, i fiumi, i geografi.

Più in generale questo volume, idealmente dedicato a Simon Keay, invita a guardare un po’ al futuro delle città del Mediterraneo, sulla riva Nord e sulla riva sud: per i prossimi decenni  vorremmo progettare città antifragili e resilienti come quelle definite da Nassim Nicholas Taleb e dalla sua scuola, che non possono essere immaginate senza partire dalla profondità della storia e dalla complessità delle culture diverse. Le Corbusier nel 1965 sosteneva: <<Essere moderni non è una moda, è uno stato: Bisogna capire la storia: e chi capisce la storia sa trovare la continuità tra ciò che era, che è e che sarà>>. Questo volume rinnega quell’idea di “mare nostrum” che Franco Cassano ne Il pensiero meridiano considera <<odiosa per il suo senso proprietario>>: essa <<oggi può essere pronunziata solo se si accetta uno slittamento del suo significato. Il soggetto proprietario di quell'aggettivo non è, non deve essere, un popolo imperiale che si espande risucchiando l'altro al suo interno, ma il “noi” mediterraneo. Quell'espressione non sarà ingannevole solo se sarà detta con convinzione e contemporaneamente in più lingue>>. Il fatto che la scena si estenda dalla preistoria in qualche caso fino ai giorni nostri ci dice molto sulla nuova impostazione della ricerca archeologica come scienza.

Nell’Introduzione Mika Kajava dell’Università di Helsinki (I porti del Mediterraneo. Introduzione, pp. 9-18) sintetizza splendidamente tutti gli interventi sui porti del Mediterraneo, anche quelli non pubblicati, con una lucidità che davvero gli invidiamo.

Nel suo intervento Michel Gras socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei (Approccio al litorale. Litorale e potere, pp. 19-26) tenta una sintesi generale sul rapporto tra litorale e potere, ricordando anche gli studiosi che in passato si sono occupati attivamente del tema, partendo da personaggi che amiamo come Umberto Zanotti Bianco per Sibari, l’americano John D’Arms per il golfo di Napoli, il generale Giulio Schmiedt nel Tirreno o Mario Torelli per Gravisca il porto di Tarquinia e il suo recinto sacro; ma non solo: lo sguardo si spinge a Mozia, ad Olbia, a Utica e Cartagine, a Cherchell e Tipasa, a Lixus e a Hueva, e poi a Lindos nell’isola di Rodi, a Creta, a Cipro, all’isola sacra di Delos, ad Alessandria, Pozzuoli, Roma. La geografia lascia immaginare che in futuro assisteremo ad una litoralizzazione (neologismo della geografia moderna) dell’urbanizzazione, gli spazi vuoti diverranno pieni: nel senso che <<le grandi città di domani saranno sul litorale>> e il turismo nautico si affiancherà alle tradizionali linee di utilizzo dei litorali. Dunque il tema è quello di definire le nuove funzioni per questo lungo nastro litoraneo percorso da tanti nodi, ripensando al variare del rapporto con il potere collocato inizialmente all’interno, almeno fino a quando la Fenicia riuscì a cambiare in Occidente le regole del gioco e si andò affermando il modello di Tiro e Sidone, così a Gades, a Cartagine, a Nora, ma anche a Marsiglia e a Roma. Più ancora dei Greci furono i Fenici a determinare il nuovo orientamento urbanistico e a ridefinire i rapporti di potere, con il crescere degli scambi e la sua conseguenza diretta, lo sviluppo della scrittura che diventa in questo quadro effetto e non causa di un nuovo modo di vivere. Il modello fenicio sembra esser stato recepito da quello che diverrà il modello greco euboico di Eretria e soprattutto di Calcide, con la fondazione di Pitecussa, di Cuma e di Megara Hybleaea. Il rapporto antico della polis col suo emporion, un concetto che Michel Gras spiega come un luogo di sbarco aperto prevalentemente verso il mare, isolato però sulla terraferma, in greco epineion , ancoraggio (penso ad un luogo deputato  per il commercio internazionale legale), è un rapporto lungo e contrastato, che evolve e finisce per portare al concetto romano, e quindi medievale e moderno, di porto, che non si distingue più dalla città e che esiste in funzione della città. Roma ha in Ostia non un emporium ma una rada (non un avamporto) controllato dai procuratori ad annomam, al suo servizio; così avviene a Pozzuoli con la Procuratio sexagenara Puteolis ad annonam rivestita ad es. da Q. Marco Macrino, originario di Uchi Maius, con funzioni che potrebbero essere limitate al noleggio delle navi onerarie in porti vicini. E poi il porto fluviale sul Tevere, l’olio della Betica al Testaccio, le profonde trasformazioni del commercio mediterraneo, in un rapporto più fecondo tra città, il suo porto e la sua chora, il suo territorio: una prospettiva – quella del rapporto tra litorale e potere con il consolidarsi di un legame politico, economico e culturale - che significa molto anche nel mondo di oggi.

Christophe Morhange dell’Université d’Aix-e-Provence, Maria Giovanna Canzanella-Quintaluce del Centre Jean Bérard di Napoli, David Kaniewski dell’Université de Toulouse, Nick Marriner dell’Université de Franche-Comté, Marinella Pasquinucci dell’Università di Pisa, Elda Russo Ermolli dell’Università di Napoli Federico II, Matteo Vacchi dell’Università di Pisa, in un articolo a più mani dedicato alla memoria della geoarcheologa Paola Romano (Perché studiare l’ambiente dei porti antichi?, pp. 27-39) sintetizzano lo sviluppo dell’”archeologia totale” dei bacini portuali, che si pone nella prospettiva di un approccio olistico e ambientale attraverso l’applicazione di una pionieristica metodologia archeologica pluridisciplinare, che ha incluso progressivamente la geomorfologia, la (bio)sedimentologia, la biologia, la geochimica, le datazioni al radiocarbonio, le analisi dei paleo-inquinanti nei sedimenti con isotopi stabili del piombo. Il focus si concentra sul tema delle oscillazioni relative del livello del mare che può essere accertata attraverso studi di bio-stratigrafia. I casi più di successo sono stati quelli di J.-P. Goiran et alii nel 2009 nel bacino di Claudio a Portus Romae nel delta del Tevere, partendo dalla zonazione verticale degli organismi marini sessili (genere Chama e Ostrea).  Attraverso un esame di dettaglio dei singoli marcatori, è stato possibile accertare l’innalzamento del livello del mare da partire dal III secolo d.C. di circa un metro, il che consente di stabilire una paleoprofondità del bacino di Traiano di 7 m. Più variata è la evoluzione del livello del mare nel bacino portuale di Napoli, in relazione alla vulcano-tettonica; fino al V secolo, dopo un periodo di stabilità, il livello del mare è fissato a 1,6 metri sotto il livello attuale, preceduto e seguito da periodi di subsidenza con risalita del livello del mare. Celebre è la testimonianza del mercato romano di Pozzuoli (erroneamente tempio di Serapide), che testimonia con evidenza i fenomeni di bradisismo intensi, con 3 innalzamenti di 7 metri del livello del mare, avvenuti nel V secolo, all’inizio del medioevo e prima dell’eruzione del 1538. Analoghe analisi sono sintetizzate per Portus Iulius presso Puteoli. Attraverso analisi geofisiche è stato possibile localizzare le strutture portuali di Cuma e di Portus Pisanus a Livorno nel delta dell’Arno, incrociando i dati sugli apporti sedimentari, in particolare dei depositi alluvionali, con le dinamiche meteo-marine continentali. Una costante dei porti a mare sembra esser stata l’ipersedimentazione all’interno dei bacini portuali ben protetti, che ha richiesto nei secoli ripetuti interventi di dragaggio, fino al progressivo impaludamento. I progressi delle geoscienze consentono ora di misurare l’impatto dell’antropizzazione e dell’inquinamento da piombo dei sedimenti, in considerazione allo sversamento di reflui delle città antiche e alla presenza di attività commerciali. Lo sguardo può spingersi fino a Marsiglia, Sidone, Alessandria, Forum Iulii, Fréjus e ancora a Portus, dove si è calcolato il raddoppio degli isotopi del piombo in età augustea. Infine l’archeopalinologia e l’analisi pollinica hanno fornito preziose informazioni a Pisa, Portus, Neapolis, nel rapporto tra foreste naturali, macchia mediterranea, vegetazione produttiva, in zone pianeggianti o oggi acquitrinose. La conclusione è lapidaria e di estremo interesse per i nostri tempi: <<le attività umane riducono la resilienza della natura costiera>>, <<la vulnerabilità socio-economica è determinata più dall’attitudine culturale di una società ad avere a che fare con gli impatti dei cambiamenti naturali dei sistemi litorali che dalle sue capacità tecniche di contrastarle>>: ciò senza quelle che Kajava definisce le sfumature neocatatrofiste.

Pekka Niemelä dell’Università di Turku e Simo Örmä dell’Institutum Romanum Finlandiae (Shipworms (Teredinidae) and ancient Mediterranean harbours, pp. 41-49) riflettono sui così detti vermi navali della famiglia delle Teredinidae, molluschi xilofagi che hanno un impatto nettamente differente a seconda delle latitudini, della temperatura, della salinità del mare, dal Mediterraeo al Baltico: gli autori dimostrano in maggiore o minore quantità lo sviluppo degli Shipworms xilofagi destinati ad avere un impatto gravissimo sul legname delle navi e sulle palificazioni dei moli, associando la loro azione a quella di insetti, funghi, alghe. Viene studiata la biologia dei vermi di mare, in particolare del Teredo navalis Linnaeus (in greco, Teofrasto lo chiama τερηδών). Un problema sottovalutato dagli studiosi, che incide sulla ricostruzione delle rotte e la localizzazione dei navalia (che però avevano le fondamenta in pietra), ma anche in relazione alla durata di vita delle navi o piuttosto al ritmo delle manutenzioni, alla localizzazione dei cantieri di rimessaggio invernale, ai primitivi sistemi di protezione dello scafo sommerso con piombo e poi con vernici velenose; la calafatura compare solo nel V secolo d.C. in Egitto. Torniamo a Portus Romae, a Leptis Magna, ad Alessandria, a Ravenna, a Naroda in Dalmazia per vedere come il problema poteva essere contenuto e comunque valutato già nella fase di progettazione dei porti; il rapporto dei vermi di mare con i cantieri navali era già noto a Teofrasto e a Plinio; Vitruvio consigliava la costruzione dei navalia verso nord, per evitare la putrefazione del legname in rapporto all’azione di tarli, tineae, teredines, reliquaque bestiarum nocentium genera. Era di solito necessario costruire gli scali di alaggio per tirare a secco le navi e proteggerle, come nel caso più celebre, quello dell’isolotto dell’ammiragliato nel porto militare di Cartagine.

Simon Keay dell’University of Southampton (Reflections upon the Challenges in Documenting Portus Romae, the Maritime Port of Imperial Rome, pp. 51-70), scomparso purtroppo il 7 aprile 2021 a soli 66 anni di età, torna a parlarci con una straordinaria competenza dei temi e delle sfide scientifiche che gli erano cari, incrociando archeologia, geomorfologia, epigrafia, storia di Portus Romae, nell’ambito dei progetti del Parco Archeologico di Ostia antica, che vede coinvolti anche colleghi dell’Università di Cambridge. Emerge la complessità del delta del Tevere, con i canali naturali e i canali artificiali a Nord dei quali si sviluppa il Campus Salinarum Romanarum; e poi l’Isola Sacra con le sue necropoli, la fossa Traiana, il porto di Claudio (esteso per 200 ettari), la Darsena (poco più di un ettaro), e il bacino ottagonale di Traiano scavato quasi settant’anni dopo (32 ettari); i navalia, il palazzo imperiale, una vera e propria villa marittima col suo anfiteatro, o suoi lussuosi mosaici; la strategia portata avanti dagli archeologi tra il 2007 e il 2015 nei grandi magazzini di Settimio Severo; il tutto presentato con una straordinaria storia degli studi che inizia dal Settecento, illustrando le nuove sfide che ora Simon lascia in eredità ai suoi allievi attraverso gli accordi istituzionali tra la sua Università e il Parco Archeologico, per documentare e mappare il porto, con un metodo e una visione pluridisciplinare che saranno un vero e proprio modello per altri porti e per altri territori meno complessi; l’utilizzo di nuove tecnologie digitali, il georadar GPR e la tomografia ERT; lo sviluppo di giganteschi database informatici interattivi (IADB), la modellizzazione del porto oggi integralmente interrato. Ancora un riesame di molte iscrizioni, come quella datata al 46 d.C. con la VI potestà tribunicia di Claudio, con la sintetica descrizione dei lavori alla foce: fossis ductis a Tiberi operis portu[s] caussa emissisque in mare urbem inundationis periculo liberavit, un testo che conferma la diretta relazione attraverso il Tevere tra Ostia e la Capitale (CIL XIV 85). E poi i tre porti aperti ad accogliere i naviculari provenienti dall’Egitto, dall’Africa, dalla Sardegna, dalla Narbonense, dall’Adriatico, con un commercio che viene ricostruito in dettaglio attraverso le ceramiche, i vetri, i marmi; la vitalità del porto ancora negli ultimi anni di Costantino, con la statua collocata dai Portuenses per esaltare l’opera di L. Crepereio Madaliano consul(aris) molium, fari at(que?) purgaturae, certo con riferimento al dragaggio periodicamente necessario (CIL XIV 4449); ma la piena operatività del porto è documentata per tutto il VI secolo.

Arja Karivieri dell’University of Stockholm e Presidente dell’Institutum Romanum Finlandiae (Scientific Methods in the Research on the Harbour City of Ostia: Recent Developments, pp. 71-78) ci riporta ancora ad Ostia, per presentare i risultati della metodologia scientifica non invasiva per lo studio di alcune aree, in collaborazione col Centro Studi Pittura Pompeiana Ostiense alla Casa delle Ierodule, nelle Case a Giardino, nell’Insula dei dipinti, all’Isola Sacra: prospezione geofisica, scansione laser, fotogrammetria, modelli 3D, analisi dei pigmenti sui dipinti murali, l’osteoarcheologia, con un approfondimento sui resti faunistici e di conseguenza sul rapporto tra la pesca e l’alimentazione. Emerge un quadro di sintesi molto diverso delle abitudini alimentari degli abitanti di Ostia, se confrontato con i risultati delle analisi degli isotopi stabili, campionate dagli individui della necropoli dell'Isola Sacra: secondo T. Prowse nel 2005 e 2007, i risultati suggerivano una dieta ricca di prodotti della pesca; la proporzione di pesce e frutti di mare sarebbe stata maggiore nella dieta del popolo di Portus rispetto alla dieta della popolazione rurale. Tali risultati sono ora discussi con il metodo della zooarcheologia e coi calcoli effettuati nel 2014 da M. MacKinnon che, pur non considerando molluschi e crostacei, ritiene che la dieta degli abitanti di Ostia e Portus fosse più varia di quanto non si sia fin qui pensato, più ricca di carne e dipendente da un esteso pastoralismo. Ma l’autore e noi stessi non siamo totalmente convinti di questi risultati.

Ad ambito strettamente epigrafico e artistico ci porta Lena Larsson Lovén dell’University of Gothenburg in Svezia (Male and Female Work in Images and Inscriptions from Ostia and Portus, pp. 79-92), con un articolo dedicato alle rappresentazioni iconografiche e alle iscrizioni di Ostia e Portus relative al lavoro maschile e femminile nell’ambito dell’economia portuale: artigiani, venditori, medici e mediche, operai impegnati nel porto, con la loro cultura, la loro religione, le loro abitudini funerarie. E poi i collegia, come quello dei pistores o dei fabri tignarii, il rilievo di Titus Aelius Evangelus impegnato in un telaio per la manifattura tessile, i lanarii pectenarii e i lanarii carminatores, i venditori di frutta e verdura, i proprietari delle tante tabernae delle diverse insulae ostiensi. Più significative ad Ostia le molte professioni legate al mare, gli imprenditori come i domini navium Afrarum <item Sardorum> collegati in un collegio, i navicularii, ma anche gli operai del cantiere navale, i fabri navales riuniti in collegium con 13 patroni, 14 quinquennales, una mater collegii, gli honorati e la plebs (CIL XIV 256); i saccari, i phalangarii portatori di anfore, i sommozatori, urinatores, i mensores frumentarii che riempivano i modii rappresentati nel mosaico dei navicularii et negotiantes Karalitani, i codicarii che portavano il grano sul Tevere fino a Roma: una realtà brulicante di vita, con lavori legati al commercio, al trasporto marittimo e fluviale, agli affari, spesso a grande distanza dalle famiglie di origine. In un quadro dominato dal genere maschile, compaiono sia pure in netta minoranza molte donne impegnate nel commercio marittimo o addirittura armatrici e protettrici di collegia, come quella ricchissima benefattrice Iunia D.f. Libertas proprietaria di orti, edifici e tabernae (AE 1940, 94).

Laura Chioffi della Seconda Università degli Studi di Napoli (Antium romana e i suoi porti, tra epigrafia ed iconografia, pp. 93-110) continua un suo straordinario filone di ricerca, emerso nei convegni precedenti su Il Mediterraneo e la Storia e proprio in questi giorni nel bel volume Portus operis sumptuosissimi e dintorni, uscito per le edizioni Quasar, con gli Atti della giornata di studio su Antium romana, Anzio, 25 ottobre 2019, che ha seguito di poche settimane il Convegno di Capri. La notizia più antica, dei primi anni della repubblica, è in Livio 2,63 con riferimento ad un oscuro oppidum degli Antiates chiamato Caenon o Cerion, con la convincente proposta di emendamento del testo liviano con cothon, già in Servio che pensa ad un manufatto portuale interno, da riferirsi ad un emporion latino-volsco forse collocato sulla riva sinistra del fiume Astura;  eppure Cothon non compare mai al di fuori del mondo punico, probabilmente  si tratta di un’omofonia approssimativa per il punico  Knyn. Ma che senso ha allora ha il passo di Strabone che definiva Anzio alìmenos se non si poteva approdare nel Golfo di Anzio e neppure accedere attraverso l’estuario del fiume e si doveva arrivare allo scalo di Astura ancora più a Sud ? È chiaro che le cose stanno diversamente, se abbiamo la testimonianza di un gubernator e di tre altari con i supporti per l’aggancio di cavi di ormeggio, datate all’età della sconfitta di Sesto Pompeo. La Chioffi propende giustamente per ridimensionare il giudizio di Strabone: non ci sarebbe stato un porto protetto, con moli, magazzini, attrezzature necessarie per l’attracco e l’imbarco di passeggeri e merci; e ciò fino a Nerone nato proprio ad Anzio, dove secondo Svetonio l’imperatore volle anche un nuovo portum operis sumptuosissimi (Nero 9,4) Un’iscrizione dalle paludi della vicina località Clostra Romana (Borgo Grappa nel Parco del Circeo), datata dalla Chioffi alla fine dell’età repubblicana ma leggermente più tarda per Kajava (AE 2011, 225), ricorda un liberto Phaenippus, apparentemente un duoviro della colonia di Anzio, che a sue spese realizzò un [opus pilarum ? conc]ludentium et substruc[tiones] di un’opera portuale, con alcuni confronti con le arcate sostenute da pilae che si conoscono presso le residenze imperiali ed a Pozzuoli: un po’ come è rappresentato nel citato mosaico di Nettuno che compare sulla copertina, collocato sicuramente a ridosso delle mura di cui si intravvedono i merloni. In realtà la ricostruzione della lacuna epigrafica è dubbia e le pilae per quanto ne sappiamo non sono normalmente strutture “concludentes” bensì maggiormente protezioni laterali del canale d’ingresso; opus pilarum è un’espressione che occorre  solo a Pozzuoli per distinguere  il toponimo “Pilae” e la strutture (opus) restaurate da Adriano; del resto né pilae né moli (a cassettoni) hanno substructiones.

Ma l’articolo testimonia lo sviluppo del porto di Anzio con i moli in muratura e con le significative testimonianze archeologiche ed epigrafiche, come quella del legionario C(aius) Vedennius C.f. Quirina Moderatus Antio, richiamato in servizio da Nerone per 23 anni come arc(h)itectus armament(arii) imp(eratoris), cioè incaricato per il genio militare di armare con catapulte le navi della flotta da guerra e le navi mercantili (CIL VI 2725 = 37189); allo stesso scopo nei cantieri navali operavano i fabri Antiatini riuniti in collegio. La storia prosegue con il porto articolato in due bacini, uno dei quali al servizio del palazzo imperiale con Adriano e ben oltre il regno dei Severi, se durante il Bellum Gothicum Procopio racconta che alcune navi bizantine riuscirono a scaricare i rifornimenti destinati alla capitale assediata (I, 26).

Marco Buonocore della Pontificia Accademia Romana di Archeologia (Porti e commercio sul litorale medio-adriatico della regio IV Augustea in età romana pp. 111-124) ci presenta un quadro della portualità medio-adriatica partendo dal 302 a.C. e dalla spedizione di Cleonimo raccontata da Livio (che parla di importuosa litora traducendo da una fonte greca con ἀλίμενος) e da Strabone 8, 5, 10 C 317, che definisce ἀλίμενος la costa adriatica a differenza di quella illirica infestata dai pirati: ma ἀλίμενος non significa “privo di porti”, bensì “privo di aree riparate” (naturali, meno spesso artificiali) di notevoli dimensioni. Plinio il vecchio, descrivendo la regio IV augustea attribuisce al flumen Trinium il titolo di portuosum. Risalendo verso Nord, a Termoli l’iscrizione di Pacuvius posta dall’alum[na] Tryfer’a’ è una bella prova dei contatti con l’altra sponda adriatica, visto che a Salona una Pac(uvia) Tryfera dedica l’epitafio all’alumnus Pacuvius Lucidus (CIL III 2325). Altri porti attivi sono quelli di Histonium dei Frentani dediti alla pirateria nel precedente sito di Punta Penna, a breve distanza dalla foce del fiume Trinium portuosum; altre insenature naturali sono citate dalle fonti tarde a Trave, Casarza, Meta e Concadoro (da quest’ultima località proviene il frammento che farebbe pensare a lavori idraulici nell’area, analoghi a quelli citati nell’iscrizione teatina (CIL IX 3018). L’epigrafe di M. Vitorius C. Osidius Geta su una tegola ritrovata presso il Trave e la lastra di Casarza CIL IX 2861 che fa pensare ad un [curator annonae Histo]niens(ium) et In[teramnat(ium)] portano l’a. a concordare con Davide Aquilano per il quale si può parlare di un vero e proprio sistema portuale di tipo diffuso, con molti punti di approdo nel territorio di Histonium, anche presso dei foci dei fiumi. Se passiamo a Buca (forse Campomarino) immediatamente a nord della foce del Tifernus e Anxanum (Lanciano) rimangono testimonianze anche interne della vitalità commerciale di alcuni centri: proprio a Lanciano Diocleziano secondo una dubbia iscrizione avrebbe costruito il ponte romano (CIL IX 305*). Il municipium di Hortona poco più a Nord ci ha conservato strutture portuali alla foce del Torrente Peticcio, in loc. Lo Scalo, dove sappiamo in età bizantina della presenza del principale approdo della flotta in Abruzzo, lungo la rotta tra Ravenna e Costantinopoli. Seguiva il vicus Aterni (o gli Ostia Aterni), approdo dei Vestini, Peligni, Marrucini nel punto terminale della via Claudia Valeria presso l’attuale Pescara-Portanuova ((la strada è citata sul miliario di Claudio nell’ottava potestà tribunicia: viam Claudiam Valer[iam] a Cerfennia Ostia Ate[rni] (CIL IX 5973). Vicus Aterni (in greco πóλισμα, acropoli, in  Strabone 5,4,2, 241-42) che possiamo immaginare capoluogo di un pagus del municipio di Teate Marrucinorum, pochi chilomentri a monte della foce dell’Aternus. Qui debbono essersi svolti imponenti lavori nell’età di Claudio. Molto significativa per i collegamenti della adriatica tra Termoli e Pescara con la costa dalmata è l’iscrizione di Lanciano che nel III secolo è stata posta dalla salonitana Ulpia Candida per ricordare il marito un nauclerus qui erat in colleg(io) Serapis Salon(itanus), con l’espressione in versi che l’a. traduce poeticamente: <<a te, sempre sbattuto sui mari, sulle onde, sui flutti, per freta per maria traiectus saepe per und(as) non sarebbe stato destino, morendo, rimanere ad Aternum; ma, se non hai voluto vivere con me come coniuge, ti avessi almeno accompagnata sull’eterno Stige o sulla nave dei morti” (CIL IX 3337). Aternus, il fiume o il nome del defunto, compare anche in CIL IX 3338 col collegio di Iside e la rappresentazione di una nave oneraria, il che ci rimanda forse alla cerimonia del navigium Isidis. Si aggiunga che ad Ostia presso il teatro conosciamo la statio del corpus naviculariorum maris Hadriatici, un’associazione di appaltatori di trasporto della Regio IV in funzione dell’approvvigionamento di Roma: vino e olio prodotti nelle numerose ville rustiche locali e marmi arrivati dall’oriente.

Gianfranco Paci dell’Università di Macerata (Ancona e il suo porto: gli scavi 1998-2002 e le nuove conoscenze, pp. 125-136) presenta le nuove conoscenze sul porto di Ancona dopo gli scavi del 1998-2002, che hanno messo in evidenza un impetuoso sviluppo del porto collegato con Zara in Dalmazia a partire dall’età medio-repubblicana, mentre in parallelo si assiste al declino di Numana immediatamente a Sud, dopo la nota fioritura di età più antica. Il porto di Ancona, a SE dell’arco di Traiano, è stato tra i primi ad esser scavati in Italia, con le sue strutture murarie per il ricovero delle imbarcazioni, i magazzini, le cisterne in piena attività fino all’età medioevale. Paci esclude la tradizionale ricostruzione di un porto greco originario, ampio e protetto da moli, con un prolungamento delle propaggini orientali del M. Conero e di un successivo porto di Traiano interno, in rapporto all’espressione incisa sull’arco eretto all’inizio del molo Nord (CIL IX 5894),  in occasione della 19° potestà tribunicia: quod accessum Italiae, hoc etiam addito ex pecunia sua portu, tutiorem navigantibus reddiderit (in proposito rimando all’articolo di Francesca Cenerini in Pro merito laborum, Miscellanea epigrafica per Gianfranco Paci, che si sofferma sulla presenza sull’arco delle dediche a Plotina Augusta ed alla sorella di Traiano Diva Marciana Augusta, l’impegno imperiale per l’Italia anche attraverso l’istituzione alimentaria): come è noto Traiano si è molto impegnato per i porti italici, da Portus Romae con il bacino ottagonale, a Centumcellae, Tarracina, Puteoli, Ariminum. Dunque quod etiam addito non si riferisce ad un secondo porto aggiunto ad Ancona bensì all’intero bacino portuale, divenuto pericoloso e insicuro e comunque ancor più necessario per rifornimenti annonari, nell’ambito della providentia imperiale. È oggi possibile ipotizzare la progettazione del molo principale, quello che proteggeva dai venti di NE, che si appoggiava nel tratto finale su un isolotto artificiale con tecnica analoga a quella di Civitavecchia; per il porto più antico, riferito ora solo al II secolo a.C., si segnalano le analogie della tecnica muraria con l’opus quadratum delle mura urbiche, ben successive alla fase greca della città. Ciò non toglie che nell’età dell’imperialismo e delle guerre illiriche e macedoniche, Ancona abbia avuto uno sviluppo commerciale davvero significativo, in relazione con le merci di lusso introdotte dall’Oriente: lo testimoniano le necropoli ellenistiche, con vasellame d’argento, anelli, strigili, coppe vitree con raffinati motivi decorativi. Questa è forse la ragione per la quale Strabone parlava di Ancona come “città greca”, comunque inserita nella cultura ellenistica. Abbiamo ora una sintesi dello sviluppo della cultura materiale, dalle ceramiche tardo-classiche di provenienza attica, rodia e magnogreca (IV secolo a.C.). Alla sigillata orientale A di provenienza siriaca e cilicia del I secolo subentra la ceramica corinzia decorata a matrice di II-III sec. e l’africana, con le ultime produzioni (africana D) che arrivano al VII secolo; si affiancano alle sigillate focese e cipriota tarda. Ricco il materiale anforario, dall’età tardo-repubblicana per il vino alle anfore brindisine per l’olio, ma anche per la salsa di pesce e altri prodotti. Nell’età alto e medio-imperiale i porti di partenza sembrano Rodi, Cnido, Alessandria e medio-oriente; come di consueto gli affusolati spatheia tardi rimandano al commercio di olive, lenticchie, salse di pesce e vino dall’Africa e nel VI-VII secolo non manca il vino palestinese e il vino bizantino assieme a lenticchie, miele e olio, spesso anche dall’area istro-pontica. Ancora contenitori per unguenti, sostanze aromatiche, prodotti per cosmesi, lucerne, marmi, mattoni bollati, monete, altri reperti mobili. Gli scavi sul lungomare Vanvitelli saranno oggetto di un volume in preparazione, che testimonierà l’apertura di Ancona ai rapporti marittimi con tutto il Mediterraneo, in particolare quello orientale, con un contributo fondamentale fornito dalle esportazioni di prodotti provenienti dall’entroterra piceno, dall’agro gallico e della vicina Umbria.

Alfredo Buonopane dell’Università di Verona (Vivere e morire in un porto militare: aspettativa di vita e anni di servizio dei classiarii della Classis Ravennas, pp. 137-152) affronta con metodologie rinnovate il tema dell’aspettativa di vita dei classiarii di Ravenna, della durata del servizio militare, dell’età di arruolamento partendo da oltre un centinaio di epitafi e da una decina di diplomi militari, provenienti da Ravenna, Rimini, Miseno, Cuma, Roma, Centumcellae, Lorium, Populonia, Luna, dalla Corsica e dalla Sardegna, Salona, Nicopolis, Chalcedon, Seleucia di Pieria, Atene, fino a Siscia e Sirmium in Pannonia. Conoscevamo la tendenza ad arrotondare gli anni di vita con multipli di cinque; dal punto di vista demografico ben il 44% dei classiarii raggiunge la fascia tra 40 e 60 anni, superando nettamente l’aspettativa di vita di 25 anni considerata comunemente come normale in età romana. L’a. ritiene che le cure mediche e la buona qualità di vita dei classiarii, l’attività fisica, la presenza di impianti termali e sportivi possano aver pesato positivamente sulla salute dei marinai che viceversa dopo il congedo e soprattutto a partire dai 50 anni di età conoscono un immediato declino che va messo in rapporto con un peggioramento degli stili di vita (il tema è ben noto per tutti i militari). I deceduti in servizio si concentrano tra i 31 e i 50 anni (66%), forse in relazione a viaggi pericolosi, incidenti, guerre. Se confrontati con i classarii di Miseno studiati da Valerie Hope nel 2020 e di altre flotte studiati da Steven Tuck nel 2015, i marinai di Ravenna sembrano aver avuto una maggiore aspettativa di vita. La ricerca è estesa agli anni di permanenza in servizio, che raramente arriva ai canonici 26 anni, anche se poi conosciamo una quindicina di casi di marinai trattenuti in servizio da uno a sette anni, in rapporto a guerre o pressanti impegni; infine l’età all’arruolamento era di solito compresa tra i 18 e i 23 anni, ma il range va dai 15 ai 40, testimonianza forse della difficoltà di reperire reclute per la marina.

Fulvia Mainardis dell’Università di Trieste (Aquileia (Regio X) nelle reti commerciali mediterranee: persone e merci dalla documentazione epigrafica, pp. 153-176) fornisce una sintesi sulla posizione di Aquileia nelle reti commerciali mediterranee, con la navigazione adriatica e fluviale, col suo sistema portuale al servizio dei mercanti di vino: i principali collegamenti sembrano essere quelli col porto liburnico di Iader (Zara in Dalmazia) e con il municipio norico di Celeia in direzione di Carnuntum in Pannonia. La lista dei 12 mercatores e dei negotiatores ci rimanda all’area transalpina, a Roma, a Forum Cornelii, alla Dacia, perfino alla Colonia Agrippinensis, luoghi di commercio e forse di origine di alcuni. Il negotiator vicanalis di Aquileia sembra aver raggiunto il monopolio nei mercati nundinari dei vici di minori dimensioni in area adriatica o addirittura oltre il confine nord-orientale fino alla vicina provincia del Norico. La vicenda di Lucius Tettienus Vitalis, nato ad Aquileia, sepolto ad Augusta Taurinorum, ci racconta un apprendistato ad Emona al limite dell’Italia (edocatus Iulia Emona) e un’intensa attività mercantile in area gallica e danubiana fino alla morte desiderata: terras nec minus et maria impuri aqu(a)e Padi et Savi ira(m) quod optavi mihi tamen pervenit. perpetuam requiem pos(c)o. L’attestazione di due mercanti consistentes Aquileiae a Singidunum (Belgrado) rimandano a rapporti commerciali con la Mesia, fino alla confluenza tra Sava e Danubio. Il commercio è ricostruito anche sul piano archeologico partendo dalle guerre illiriche con una progressiva centralità di Aquileia come stazione doganale già in età repubblicana (l’Aquileiense portorium di Cicerone) e soprattutto nell’età degli Antonini con l’organizzazione del publicum portorium Illyrici. L’instrumentum domesticum, come si esprime Kajava, fa di Aquileia imperiale non solo un luogo di consumo e di mercato per il transito di merci, ma anche centro produttivo di derrate alimentari. Temi che continuano ad essere documentati nell’editto dei prezzi dioclezianeo che colloca Aquileia nel IV secolo come importante punto terminale del commercio con l’Oriente e con Alessandria, facendone una metropoli. L’epiteto chrysopolis Aquileia su una tessera plumbea difficilmente falsa, richiama l’epiteto di Forum Traini in Sardegna in età bizantina (Maurizio Buora, Aquileia Chrysoplis: Geschichte einer Legende, in “Anodos. Studien on ancient world”, 8, 2008, pp. 109-114).

Fabrizio Oppedisano della Scuola Normale Superiore di Pisa (L’amministrazione dei porti nell’Italia ostrogota. pp. 177-196) mette in rilievo molti fenomeni di continuità tra l’impero tardo antico e la res publica di età ostrogota, attingendo a piene mani alle Variae di Cassiodoro: emergono le eredità, all’interno di una piramide di funzionari quanto mai articolata e, per usare l’espressione di Kajava, spesso asimmetrica. Le funzioni del comes Portus urbis Romae erano quelle di impedire con fermezza forme di concussione a danno dei mercatores; alle dipendenze del prefetto urbano erano il praefectus annonae con compiti circoscritti alla città, il praefectus vigilum, il comes formarum per il controllo urbanistico e  il comes riparum et alveii Tiberis et cloacarum, funzioni essenziali, sopravvissute pari pari durante l’occupazione ostrogota, ma che conosciamo già identiche come titolatura nella Notitia dignitatum. Meno sicuri siamo sulla sfera d’azione del vicarius (o centenerius) Portus responsabile di un corpo di polizia portuale, anch’egli sottoposto al prefetto urbano e probabilmente addetto ai singoli porti del regno ostrogoto; esattamente come coloro che si prendevano cura delle merci che transitavano nei porti (curas portus agentes), incaricati di dare applicazione alle norme contro l’esportazione del lardo o di disciplinare l’esportazione di merces inlicitae, controllare le attività speculative e garantire le forniture militari, assistiti dai curiosi distaccati dalla schola degli agentes in rebus per la cura portuum et litorum, sotto l’autorità del comes sacrarum largitionum. Il sistema in realtà era molto più complesso e comprendeva varie innovazioni, con la nascita dei comites di Napoli, Siracusa, Ravenna, Portus Romae, cariche affidate a ostrogoti più fedeli, responsabili di quella che già il Codice Teodosiano chiamava litorum et itinerum custodia con funzioni militari e civili al servizio diretto del re.

Antonio Ibba dell’Università di Sassari (Porti (e non approdi) in Sardinia, pp. 197-228) fornisce un bilancio complessivo dei risultati delle ricerche su molti porti della Sardegna connessi ad un abitato urbano e ben strutturati su un litorale che è il più esteso tra le isole del Mediterraneo: le colonizzazioni fenicie sulla costa occidentale che si affaccia verso l’Hispania e meridionale verso l’Africa, le eredità puniche, le banchine, i magazzini, i cantieri per consentire il rimessaggio e la manutenzione invernale delle imbarcazioni, i mercati, il foro, con qualche cenno sugli aspetti doganali, sulle peschiere, sulle attività economiche fondate sulle risorse marine, il corallo, i tonni, i pesci. Si trattava, per usare un’espressione cara a Pascal Aurnaud, di ‘porti diffusi’, poco strutturati, che si appoggiavano alle foci dei fiumi, alle lagune, agli isolotti, ai promontori, alle insenature naturali, luoghi di strepitosa bellezza come Nora scelti per la facilità di atterraggio e di sosta; porti spesso come a Carales “policentrici”, allungati, estesi dal santuario di Astarte Ericina a Capo Sant’Elia fino a Bonaria, da qui alla darsena e allo stagno di Santa Igia, superata la duna che collega La Scaffa con Giorgino, una serie di approdi allungati per oltre tre miglia (si ricordi tenditur in longum Caralis di Claudano, Gild. 521). A Carales, città culturalmente aperta sulla rotta tra Myriandum in Siria e Gades sull’Oceano, Antonio Ibba attribuisce ora la poco nota lex de Portu di Donori studiata da Theodor Mommsen, emanata sotto l’imperatore Maurizio Tiberio (582-602) (EE VIII 721, di reimpiego), con una tariffa doganale legata all’ingresso di minerali, frumento, animali (ovini e bovini), verdure, anfore di vino, merci trasportate sui fiumi (credo il Cixerri e il Fluminimannu) fino al porto lagunare su delle naucellae. Gli aspetti più significativi sono legati alla necropoli dei classiarii della flotta di Miseno in Viale Margherita e all’esportazione del sale, raccolto soprattutto a monte delle spiagge del Poetto e di Quartu: il recente articolo di Andoni Llamazares Martín dell’Université Paris I-Panthéon-Sorbonne nel volume Fiscalità ed epigrafia nel mondo romano curato da Cristina Soraci ha confermato la correzione della lettura tradizionale di Giovanni Garbini del testo punico sulla trilingue conservata al Museo di Torino, mantenuta da Ibba, dove Cleone sarebbe “soprintendente ai recinti delle saline”: il testo in realtà sembra ricalcare il latino Cleon salari(oum) soc(iorum) s(ervus). Il ruolo di negotiator o addirittura di mercante di schiavi per L. Tettius Crescens (expeditionibus interfuit Daciae bis, Armeniae, Partia et Iudaea) rimane dubbia per la presenza sulla stele funeraria del bassorilievo di un’aquila legionaria, nonostante la brillante ipotesi di M. Pucci Ben-Zeev.

Per Turris Libisonis, in un’area che conosciamo adattissima alla pesca del tonno, abbandonato l’approdo fluviale alle origini dell’insediamento in età triumvirale, furono effettuati lavori imponenti nell’attuale darsena: la targa marmorea relativa ai lavori iniziati Dextro II et Prisco consulibus nel 196 (AE 2014, 547) continua a mantenere aspetti problematici in relazione ai lavori effettuati per volontà di Settimio Severo, conclusi probabilmente prima del 209 (se è di Geta Cesare il nome eraso a linea 3), con la costruzione di due moli, quello di Aquilone forse il Grecale di NE (a destra) e quello di sinistra, a protezione dal vento di NW, il Circius-Maestrale. Marc Mayer ha di recente messo in rapporto gli Allii di Turris con quelli di Valentia in Spagna.  La questione delle riscossioni doganali è legata alle attestazioni dei procuratores ripae (un cavaliere e un liberto imperiale), responsabili di un intero distretto che con tutta probabilità arrivava fino a Bosa, Cornus e Tharros; ma anche delle esenzioni tributarie come per la naucella marina (un cunbus) detta Porphyris di proprietà della vergine vestale massima Flavia Publicia, in relazione all’esportazione del frumento dalla Sardegna a Roma nell’anno del millenario: in quegli stessi giorni un distaccamento di Vigiles raggiunse la Sardegna con una missione che sembra ugualmente legata alle necessità dell’annona.

Sulla costa occidentale della Sardegna si segnala il ritrovamento di alcune ancore in piombo in parte inedite, come quella di L. Fulvius Euthichi(anus) che a Nord di Cornus aveva la disponibilità dei vasti latifondi occupati dagli Euthichiani: una combinazione di produzioni agricole e pastorali e trasporto marittimo verso Ostia dalla Sardegna e dalla Sicilia; analoga l’ancora di L. Fulvius Dio(nysius ?) inedita conservata al Museo Sanna di Sassari (sul personaggio vd. un omonimo in CIL V 2957, Patavium, Caius). Sono documentati collegamenti del porto  di Tharros, ben ridossato nel mare interno dal promontorio di San Giovanni, con Marsiglia e di Neapolis con Ostia per l’importazione di bipedales e tegulae. Infine Sulci, sempre sulla costa occidentale, collocata nell’isola Plumbaria, contermina alla Sardinia, è nota per i suoi porti e per l’arrivo da Bengasi nell’età di Adriano degli ebrei Beronicenses inizialmente forse condannati a lavorare nei metalla dell’Iglesiente, più tardi incolae associati al municipio.

Il capitolo su Olbia conclude l’intervento di Antonio Ibba con le dieci navi bruciate e affondate in porto durante il passaggio dei Vandali alla vigilia del sacco di Roma del 455; in alternativa si può pensare da alcuni dettagli (non tutti pubblicati) che alcune di queste barche siano state riempite di pietre è affondate molto prima per fondare pontili, come in tanti altri porti: un episodio che segna davvero una fase nuova per l’intera Sardegna, che nel Medioevo finisce per ripiegarsi al suo interno e allontanarsi dalla costa, come con Fausiana rispetto ad Olbia, Sassari a Turris, Cuglieri a Cornus, Aristiane a Neapolis, Carales a Nora, solo per fare qualche esempio. Da qui nasce quella “mitica ritrosia dei Sardi verso il mare” evocata da Mika Kajava nell’introduzione.

Il discorso potrebbe estendersi agli ultimi numerosi studi sull’evoluzione della linea di costa dall’antichità ai giorni nostri, come a Nora o nell’area nord-occidentale della Sardegna, oggetto di recente di molti studi di geologi e geografi (vd. p.es. D. Carboni, S. Ginesu, The Evolution of the Coastline in Some Archaeological Sites in North-West Sardinia, in: Department of Earth and Environment National Research Council of Italy (CNR) (Eds), Marine Research at CNR, Roma, CNR, 2011, pp. 1013-1024; D. Carboni, S. Ginesu, Variazione della linea di costa lungo il Golfo dell'Asinara (Sardegna settentrionale) sulla base delle morfologie sommerse, emerse e dei dati storici e archeologici, in F. Benincasa (a cura di), Terzo Simposio - Il monitoraggio costiero mediterraneo – problematiche e tecniche di misura, Livorno, 15-17 giugno 2010, Firenze, CNR -IBIMET, pp. 413-432; D. Carboni, S. Ginesu. (2006). Evoluzione della linea di costa in alcuni siti archeologici della Sardegna nord occidentale, in n F. Benincasa (a cura di), Atti del I Simposio il Monitoraggio costiero mediterraneo. Problematiche e tecniche di misura, Sassari, 4-5-6-ottobre 2006, Firenze, CNR-IBIMET, 2006, pp. 301-308.

Marc Mayer i Olivé dell’Università di Barcelona (Algunos aspectos de los puertos de la costa de la Hispania citerior (conven­tus Tarraconensis y Carthaginiensis), pp. 229-248) percorre la costa dell’Hispania citeriore e delle Baleari confrontando i dati geografici e le ricche fonti, da Plinio alla Geografia di Tolomeo, alla tabula Peutingeriana con i risultati dell’archeologia dei porti, tutti nodi  fndamentali per lo scambio commerciale e culturale col Mediterraneo intero: le merci e i prodotti ad iniziare dalle esportazioni, il vino Lauronense (Llerona), il marmor Tarraconsensis (pietra di Santa Tecla), la “pedra de Flix” di Dertosa, la “pedra azul de Sagunto”, il travertino di Carthago Nova e il marmor Saetabitanum di Xàtiva, i metalli come il piombo; e le importazioni come il marmo di Lunae: testimonianza dello scambio di merci che richiedevano solide strutture portuali. Possiamo arrivare al comando militare che a Tarraco aveva al vertice un praefectus orae maritimae; i punti più significativi  (fluviali o marittimi) sembrano Emporiae, Dertosa, Tortosa sulla sinistra del delta dell’Ebro; e poi Sagunto collegata via mare con i greci di Delos, Valentia sul rio Turia oggi deviato, che sembra in rapporto con gli Allii di Turris Libisonis in Sardegna forse per la presenza di navicularii; Dianium, poi la Denia di Mogahid, Saitabis Augustanorum oggi Xàtiva coi veterani della legione VIII che hanno partecipato alle guerre cantabriche; ancora Lucentum (presso Alicante), il portus Illicitanus al servizio di Illici, con stretti rapporti di contributio con gli Icositani di Algeri secondo Plinio il vecchio. Ancora Carthago Nova con le sue miniere sfruttate a partire da Amilcare, il cui porto secondo Servio sarebbe stato descritto da Virgilio I, 159 a proposito del viaggio di Enea nella Cartagine africana di Didone (Hispaniensis Carthaginis portum descripsit), tema sul quale ha recentemente scritto Antonello Greco (Nugae Hispanicae excerptae a litore Sardo. Osservazioni topografiche e antiquarie in Virgilio e Svetonio).  Poi le Baleari e in particolare le Pytiussae, Iamo, Mago, Palma, Pollentia ed Ebusus, sottoposte entro il conventus Carthaginiensis all’altro praefectus orae maritimae con base a Cartagena. Un quadro strutturato, ricco, pieno di vita, che oggi possiamo solo immaginare percorrendo il litorale dominato da Peñíscola, versante decisivo tra mondi diversi.

Lázaro Gabriel Lagóstena Barrios e José Antonio Ruiz Gil, entrambi dell’Universidad de Cádiz (El puerto romano de Gades: nuevos descubrimientos y noticias sobre sus antecedentes, pp. 249-264) presentano le nuove scoperte nel porto di Gades sull’isola di Erizia dove si localizza ora Neapolis; sulla terraferma alla sinistra del fiume Guadalete e nella baia gaditana, partendo dalla fase arcaica, fenicia di IX secolo e dal tempio di Melkart-Reschef, con un sistema portuale molto complesso in parte interrato dal Rio San Pedro: dall’Antipolis di San Fernando si arriva a Puerto Real ed al Puerto fluviale de Santa Maria. Vista dal mare la costa ha molti punti in contatto con Beirut, Tiro, Sidone, se vogliamo con Cartagine e Cagliari, con le paludi, gli stagni, i costanti apporti alluvionali. Le ricerche avviate nel 2016 dall’Unidad de Geodetección y Georrreferenciación del Patrimonio dell’Università di Cadice hanno consentito di scoprire l’insediamento punico fortificato di La Martela ed hanno raccolto un’imponente database partendo dalle prospezioni col georadar per definire le variazioni del percorso fluviale dal cothon di età punica. E’ stato messo in luce un impianto cittadino di tipo ippodameo, dimostrando l’esistenza di un modello polinucleare per la baia. In epoca repubblicana la civitas foederata di Gades sviluppa gli impianti per la lavorazione del pesce e la produzione del garum.  Celebre è la visita di Annibale al santuario di Melkart e poi quella di Cesare; Posidonio di Apamea documentò a Gades l’andamento delle maree sull’oceano attorno al 70 a.C., una vicenda tramandata da Strabone. Il santuario di Ercole Gaditano continua ad esser un punto di riferimento per la città, che inizia ad accogliere molti immigrati italici; forse a qualcuno di essi dobbiamo la rielaborazione del mito dell’esperide Erizia che inizia ad esser collegato coi viaggi di Ermes-Mercurio verso la Sardegna e con la fondazione di Nora. Gades era collegata per via terra dalla via Augusta con la vicina colonia Hasta Regia, alla foce del Guadalquivir ancora in Betica, pochi km da Jerez de la Frontera: correggendo le sintesi precedenti, sembra ora possibile localizzare il Portus Gaditanus voluto da Cornelio Balbo il giovane a El Puerto de Santa Maria, con una forte presenza della struttura dell’annona imperiale, al servizio delle produzioni nel territorio di Hispalis.

Emilio Rosamilia dell’Università di Pisa (Quando una città non parla del suo porto: Leptis Magna pp. 265-290) raccoglie i dati relativi all’incredibile porto di Leptis Magna alla foce dell’uadi Lebda. Il passo dello Stadiasmo è interpretato di seconda mano (seguendo Di Vita) in base al testo corretto dal Müller, non al testo del manoscritto. Il porto di Homs (post-augusteo) è troppo tardo rispetto alla documentazione dello Stadiasmo in questa zona. Non è un riferimento ad uno dei molti  capi che prendono il nome di Hermaion ma probabilmente allude al tempio di Mercurio noto da dediche, una delle quali è stata rinvenuta a ovest del tempio di Nettuno. A est di esso, a Nord del Foro Vecchio sono pietre di ormeggio e un approdo. Oltre, il faro, il tempietto del molo ovest, il porticato neroniano e il molo ovest allungato in età severiana; al margine del bacino verso l’interno l’area del tempio flavio, l’inizio della via colonnata in quella che era stata la foce dell’Uadi Lebda, il tempio di Giove Dolicheno; e infine sul molo orientale le terme di levante e la torre semaforica. Interessante il sacello in pietra arenaria (pre-augustea) non menzionato nel articolo con due figure di divinità di stile punico, una maschile, l’altra femminile, col kalathos sopra testa. Le fonti geografiche ed epigrafiche ci aiutano poco per ricostruire la vita di un porto monumentale che ancora impressiona per la presenza dei moli, degli attracchi, delle scale per accedere alle imbarcazioni, delle bitte e degli anelli in pietra. L’a. ricostruisce i risultati degli scavi di Pietro Romanelli e Renato Bartoccini, questi ultimi pubblicati nel secondo dopoguerra, e presenta una decina di testimonianze epigrafiche: tra esse emerge il tardo monumento a forma di tetrapylon con la rappresentazione di navi sui plinti anteriori, Amatori patriae et civium suor[um qu]od ex indulgentia sacra civibus suis feras dentatas quattuor vivas donavit ex decreto splendidissimi ordinis bigam decrev(eru)nt Porfyri Porfyri, AE 2010, 1780.

Se lasciamo da parte il frammento di architrave con iscrizione neopunica relativa alla costruzione di un podio per il tempietto dell’isola fluviale  LYD[--], possiamo segnalare il grande architrave del tempio di Nerone nella sua ottava potestà tribunizia parzialmente restituita (IRT 341), con la doppia dedica ora rettificata relativa ai porticati, alle colonne e agli architravi sul porto da parte del patrono del municipio, il proconsole Servio Cornelio Orfito, accompagnato dal legato P. Silio Celere. I lavori sono stati effettuati da Itymbal Sabinus Tapapius, figlio di Arin, flamine del divo Augusto, nella sua qualità di curator pecuniae publicae: per la prima volta Leptis compare con la condizione di municipio sufetale costituito da Claudio, meno probabilmente da Nerone (e non da Domiziano), prima della costituzione della colonia traianea. L’a. propende per lavori iniziati per volontà di Claudio, che comprendono anche la diga per deviare l’Uadi Lebda e parte dei moli del nuovo porto. Sul porto sui affacciava il Tempio Flavio realizzato sotto Domiziano nel 93, IRT 348, di cui sono stati recentemente rinvenuti ulteriori frammenti che testimoniano l’azione di uno dei sufeti in carica come curatore testamentario della evergete Claudia Pia (il sufeta aveva aggiunto 60.000 sesterzi agli 80 mila della defunta). Sempre in area portuale fu eretto il tempio di Giove Dolicheno ancora in età domizianea, IRT 349a. Nel II secolo conosciamo un vil(icus) mari(timus) et XX hered(itatium) Lepc[is] Magn(ae), IRT 302.

Alla imponente fase severiana già Bartoccini riferiva il rifacimento delle banchine sul lato Ovest del bacino, il molo orientale con i suoi magazzini, il faro, i tempietti all’imboccatura del porto; ma è l’intero complesso che assume davvero una dimensione nuova, come se Settimio Severo avesse voluto lasciare in patria l’orma del suo immenso potere. La dedica dell’altare di Giove Dolicheno effettuata da T. Flavio Marino prima del 205 ricorda erroneamente tre Augusti e Plauziano prefetto del pretorio in occasione del reditus imp(eratorum trium) in urbem [s]uam, interpretato comunemente con un viaggio a Leptis Magna della famiglia imperiale, celebrato l’11 aprile per l’anniversario della nascita di Settimio Severo, esattamente come a Tamuda in Tingitana nel 210 ( AE 1991, 1743) e in decine di altre località come Lunae nel 200 (CIL XI 1322), a Roma nel 210 (CIL VI 3287),  Portus Romae nel 195 (CIL XIV 169); Ostia antica (CIL XIV 168), Brixia (CIL V 4449);  proviene probabilmente dal tempio flavio dedicato al culto imperiale. La dedica a Giove Dolicheno da parte di un militare è normale; una divinità militare sul porto commerciale avrebbe poco senso.

L’attività portuale, documentata nei secoli successivi, fu progressivamente rallentata dai fenomeni alluvionali ed ostacolata dall’insabbiamento dell’angolo SE del bacino forse a seguito del crollo della diga a monte della città dopo il terremoto del 365 (comunque entro il 320 e il 440), tanto che in età giustinianea secondo Procopio la città era quasi completamente coperta dalla sabbia. Un nuovo frammento studiato da Ignazio Tantillo, IRT 769 testimonia il restauro dell’acquedotto danneggiato dalla piena dell’uadi. Seguiamo le vicende dell’area fino all’XI secolo, quando Al Idrisi ricorda il forte situato a bordo del mare a Lebda e occupato da artigiani.

Kristian Göransson dell’University of Gothenburg in Svezia (Port cities in ancient Cyrenaica 291-298) presenta i porti della Cirenaica, partendo da Apollonia, al servizio di Cirene fino all’età imperiale,  sull’altopiano del Jebel Akhdar, nei luoghi dove si localizzano gli amori di Apollo con la sua ninfa e la nascita di Aristeo, allevato dalle ninfe sulla Mirtousa; seguono in piena espansione il porto ellenistico di Ptolemaide, al servizio della città interna in crisi Barce, già Virgilio parlava dei Barcaei late furentes; poi Taucheira, Euesperides greca abbandonata nel III secolo a favore dell’adiacente Berenice (a Sidi Khrebish).  La localizzazione dei diversi porti già per G.D.B.Jones è stata fortemente condizionata dalla geografia e dalla possibilità di approdo, in una provincia che giungeva fino alle pericolose sabbie delle Arae Philenorum nella importuosa Grande Sirte.

L’ultimo lavoro di questo volume è scritto a quattro mani da Eugenia Equini Schneider (Le ricerche a Elaiussa Sebaste: studi multidisciplinari su una città portuale dell’Anatolia sud-orientale, pp. 299-306) e da Annalisa Polosa entrambe dell’Università di Roma Sapienza  (Ricerche recenti a Elaiussa Sebastè, pp. 307-321), che presentano i risultati degli studi multidisciplinari su una importante città portuale della Cilicia Tracheia, la parte più orientale della provincia, Elaiussa Sebasté, oggi Ayaş-Kumkuyu. Qui si sono svolte finora  24 campagne di scavo dal 1995 (Università Sapienza e Trieste) che hanno interessato il grande tempio del culto imperiale eretto sulla collina che sovrasta il porto meridionale della città. Poi il quartiere abitativo, il teatro, le terme, gli altri edifici monumentali, tra i quali spicca il complesso palaziale costruito nel V secolo sull’istmo: un centro imponente presso il porto settentrionale definito dal III secolo sulle monete metropolis paralios (città situata sul mare) e navarchis (sede del comando della flotta o meglio fornitrice di navi) a conferma di importanti funzioni commerciali e militari dei due porti (Oğuz Tekin 1999, pp. 319-326), come testimoniano le prospezioni subacquee. Gli studi negli ultimi anni si sono estesi ai carotaggi per l’analisi dei sedimenti, alle indagini geomagnetiche e geomorfologiche nell’area dei porti antichi, alle analisi polliniche. Tra le principali attività produttive emerge la documentazione relativa alle anfore Late Roman 1, l’esportazione di olio, l’estrazione della porpora soprattutto nel bacino meridionale. La prospettiva cambia con l’occupazione araba avvenuta fin dal 672 d.C.

Con questo volume credo per la prima volta abbiamo un quadro articolato del paleoambiente, delle interazioni culturali, delle merci, delle relazioni sociali tra porto e la vicina agorà, soprattutto dei culti per le divinità protettrici della navigazione, ad es. Iside Pelagia o Eracle Monoikos a Monaco.

Come Kajava anch’io voglio chiudere una piccola vicenda ben conosciuta:  quella del naufragio di Fintone figlio di Baticle, nativo di Ermione (all’estremità orientale dell’ Argolide nel golfo chiuso dall’Isola Hydrea), di cui è forse eco in un epigramma del poeta-viaggiatore Leonida di Taranto nell'Anthologia Palatina. Secondo una brillante ipotesi di Paola Ruggeri, il naufragio sarebbe avvenuto in Sardegna, su un’isola sperduta dell'arcipelago maddalenino, nel Fretum Gallicum, forse a Caprera: Plinio e Tolomeo serberebbero nel nesonimo localizzato nello stretto Taphros tra le Cuniculariae la memoria di un antico naufragio causato dall’impetuoso vento di Settentrione scatenato da Arturo, la temuta stella della costellazione di Bootes, detta anche di Aquilone come nell’epigrafe del porto di Turris Libisonis. La vicenda del marinaio Fintone che si perde nel mare in burrasca ci ricorda come già nel III secolo a.C. il tema dei porti sicuri e della conoscenza dei venti e delle correnti, così come delle costellazioni e delle stelle fosse vitale per i marinai ansiosi di essere accolti nei porti sicuri, con la protezione degli dei.

Ultimo aggiornamento Domenica 20 Giugno 2021 13:47

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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