La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico di Camillo Bellieni (1928-31)

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Scritto da Administrator | 30 Agosto 2021

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Attilio Mastino
“La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico”
di Camillo Bellieni (1928-31): la polemica sul tema della Nazione Sarda in Cicerone
Sassari, Aula magna dell’Università, 17 luglio 2021


Non si capisce il pensiero di Camillo Bellieni negli anni 20 senza partire dalle radici e dal paese della sua infanzia, Thiesi, così come avviene per tanti altri ex-combattenti della Brigata Sassari che un secolo fa il 6 aprile 1921 hanno dato origine al Partito Sardo d’Azione:

«Lo scrivente, se chiude gli occhi, vede ancora il villaggio della sua fanciullezza – scrive a Napoli -. Tutto in esso ricorda l'antico vico romano: la strada principale con le bianche domos allineate, i carri dalle ruote piene giungenti per maledette viottole dai saltos, carichi di grano. Ancora ode il sordo cigolio della macina romana, messa in moto dalla paziente fatica dell'asinello, ed assiste allo svolgersi del rito domestico presso il focolare, nella panificazione, nella tessitura, per opera delle serve e delle clienti, sotto la guida della solenne padrona. Nel sommesso chiacchiericcio delle donne affacendate egli raccoglie frammenti di frasi latine, che attestano il tenace spirito di conservazione isolano, di antichissime forme.Invano dunque per questo paese sono passati tanti anni di fatiche, di sogni e di sacrifizi, patrimonio ideale dell'attuale nostra civiltà. La Sardegna nel suo tragico isolamento, lontana dalla storia, conserva ancora i suoi abbigliamenti romani. Ma se un canto, modulato su poche note, insistente e nostalgico come una melopea d'origine desertica, rompa l'alto silenzio che incombe sul modesto gruppo di case disperso nella campagna bruciata, il pellegrino della fantasia ritroverà ancora intatta l'anima barbarica dell'antico popolo africano, che si effonde nel seguire le vicende di una intima melodia e conserva come retaggio prezioso ma esterno, l'arabescato monile della sua parlata latina».

Queste poche righe scritte in un esilio lontano a Napoli ci conservano un ricordo commosso della sua terra esprimono compassione e sensibilittà e sintetizzano quanto di più attuale rimane del pensiero storico del B.: la Sardegna di oggi può anche essere letta come il prodotto finale di una serie successiva di esperienze e di eventi in uno scenario mediterraneo, di cui i Sardi furono protagonisti e vittime. La storia lunga dell'isola consente di identificare i momenti salienti di un processo fondato sui cambiamenti come sulle continuità: gli uni e le altre hanno insieme costruito un'identità sarda, che non può prescindere dalle origini più lontane.

Accanto a Thiesi sembra di vedere l’Armungia di Emilio Lussu, la Cuglieri del 1924, Macomer, la Nuoro di Pietro Mastino, se vogliamo perfino Ales e Ghilarza. I tanti altri paesi dove è sopravvissuto (ben oltre la legge mussoliniana del miliardo) un forte sentimento antifascista che sarebbe esploso nel 1925 col V congresso de Partito Sardo, "la manifestazione antifascista più importante che si sia svolta nel paese quell'anno" (Girolamo Sotgiu). Alla fine dell’anno successivo si sarebbe giunti all'autoscioglimento del partito.

Siamo a due anni dall’assegnazione a Grazia Deledda del Premio Nobel nel 1926, destinato a ribaltare l’immagiario colletivo di una Sardegna che finalmente riusciva a raccontarsi con le sue sofferenze e le sue speranze; i temi cari alla scrittrice nuorese  entramo più o meno inconsapevolmente nei lavori di B. In questo clima, la grande opera storiografica intitolata La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico venne concepita e realizzata con una forte empatia nei confronti della società contemporanea ma per tornare alle radici, per riflettere sulle costanti originali della storia della Sardegna, per accertare l'influenza della cultura latina sull'isola, per scendere in profondità al di là delle emozioni e dell'attualità;  ritorna con grande chiarezza il proposito dello storico di ripensare la società sarda come frutto di una secolare stratificazione culturale, di accertare la storicità delle mitiche colonizzazioni greche, libiche, iberiche, di rivalutare la lunga stagione classica, di riscoprire il ruolo di Roma e della Chiesa di Roma in Sardegna. L'esigenza prioritaria della storiografia del B. appare soprendentemente la rivalutazione della romanità nella storia della Sardegna, l'isola che presenta una sua «diffusa latinità», per quanto articolata con «recise differenziazioni». Già nel primo dei due volumi B. riconosceva nel 1928 [ma in realtà quattro anni prima] che la lunga fase romana ha lasciato eredità profondissime, a partire dalla lingua sarda, elemento che veramente collega la Sardegna contemporanea alla civiltà di Roma, una eredità che però si sovrappone ad una sensibilità più profonda e più antica, quella preistorica, ugualmente vitale. E poi la fase fenicio-punica, i tanti incontri con gli altri popoli del Mediterraneo. Un aspetto curioso è rappresentato dall'ammirazione del B. per Cartagine, la città vittima dell'imperialismo romano, che avrebbe dato all'isola un'impronta profonda, con la <<sua sapienza colonizzatrice» ... «Il suggello di morte impresso sulla civiltà sarda del periodo cartaginese è il segno di una fra le cento sconfitte subite dalla stirpe semitica nel suo doloroso calvario».

B. guarda però soprattutto a Roma: egli rimedita la storia della Sardegna in età romana con uno sforzo di riflessione, di interpretazione personale e di sintesi; non mancano informazioni preziose su episodi considerati marginali; si registra un ampio utilizzo delle fonti letterarie, epigrafiche, archeologiche, numismatiche e si può apprezzare una profonda ed aggiornata conoscenza della letteratura precedente, compresa quella in lingua tedesca, inglese e francese. Da queste letture e dai suoi maestri sassaresi gli deriva anche l'atteggiamento di totale rifiuto delle Carte d'Arborea, viste come un ridicolo tentativo di nobilitare la storia sarda, un falso da respingere con sdegno. La conoscenza geografica dell'isola è veramente impressionante, soprattutto se si considera che il B. aveva vissuto gli ultimi anni lontano dalla Sardegna, quasi sempre a Napoli, a causa delle note vicende personali: eppure l'isola è percorsa idealmente in lungo ed in largo, prima per l'età repubblicana e poi per l'età imperiale. In questo senso, sul piano della geografia antica, della topografia delle città romane, con attenzione per le dimensioni dei rispettivi territoria cittadini, B. ha veramente compiuto un notevole passo avanti; ma anche sulla geologia, sull'agricoltura, sulle miniere, sull'economia, l'opera del B. rappresenta sicuramente un rilevante progresso. Anche la divisione della materia in capitoli e soprattutto in paragrafi appare innovativa ed originale, attenta a verificare le condizioni di vita delle popolazioni locali: si pensi ai paragrafi del primo volume, dai titoli alquanto coloriti, «I Sardi contro i Romani», «La tattica dei Sardi», «Ampsicora e la grande insurrezione del 215», «La guerra sulla montagna», «Oppressione romana e oppressione cartaginese», «Latifondo e classi sociali», «Tribù barbare e centri urbani», «La voce del popolo» oppure a quelli del secondo volume, «Voci di dolore», «Sardegna in solitudine», «Tramonto senza luce», «La spettatrice silenziosa», «Civitates Barbariae», ecc.

Il B. doveva costantemente fare i conti con la recente Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano di Ettore Pais, pubblicata appena cinque anni prima, carica di erudizione e di informazioni di prima mano: il modello era troppo ingombrante per poter essere ignorato o messo da parte. I rapporti personali tra i due non ci sono noti: B. aveva conosciuto il Pais a Sassari o più probabilmente forse già alla vigilia della Grande Guerra a Napoli, dove aveva vissuto per 7 anni e dove sarebbe tornato per qualche tempo come segretario dell'Università dopo l'avvento di Mussolini al potere: annunciando la pubblicazione della terza edizione della Storia di Roma sulla rivista "Il Nuraghe" nel 1927, il B. definiva Ettore Pais «un maestro di probità scientifica», «l'Uomo la cui vita è un costante esempio di metodico lavoro, condotto con senso di responsabilità e con uno scrupolo che sembrarono ad altri qualche volta eccessivi», « avvinto alla nostra isola da saldi legami di sangue e d'affetti». L’anno successivo, ad Ettore Pais ed a Gaetano De Sanctis egli si richiamava esplicitamente nell'introduzione dell'opera, «maestri venerati», ai quali ammetteva di dovere una riconoscenza profonda. B., ormai esule a Bologna, a Gorizia, a Fiume, a Catania ed infine a Roma, non sapeva che Pais – prima ostilissimo a Mussolini a causa del delitto Matteotti - sarebbe presto progressivamente scivolato verso il Fascismo e il militarismo coloniale.

Appare evidente anche dalla lettura dell'opera che il nazionalismo sardo del B. aveva molti punti di contatto con il nazionalismo italiano del Pais: del resto le posizioni politiche sardiste di B., alquanto moderate e democratiche, si inserivano nel grande filone del combattentismo nazionale, alla luce della dolorosa esperienza delle trincee. Il volume è dedicato «alla memoria di mio fratello Vittorio, anima di sognatore e di artista, capitano nella Brigata Sassari e tre volte decorato al valore, scomparso nel mistero di un meriggio di battaglia il 16 giugno 1918 a Croce di Piave. Per la Sardegna e per l'Italia». La distanza dal nazionalismo del Pais dunque appare abbastanza irrilevante, anche perché B. precisa di vivere la storia antica dell'isola, di questa «terra desolata dove sembra dominare sovrano il silenzio della inerte natura», «da sardo con consapevolezza italiana». È lo stesso concetto, del resto, che esprimeva all'interno del PSd'A già nel 1920, quando ricordava che la nazione da costruire in Sardegna, contro ogni forma di separatismo, era una nazione tutta interna all'Italia, fondata sull'autonomia etnica ma nell'ambito più vasto dello stato italiano, dunque di tipo federale. È vero che la conquista romana gli appare «ferrea» ed «inesorabile», un evento che ha spezzato una tradizione, che ha condannato l'isola melanconica e senza storia ad un lungo silenzio: «calma di popolo che non aveva più storia e che ormai subiva l'influsso della potenza romana irresistibilmente assimilatrice». Eppure le stesse origini nuragiche gli paiono illuminate dall'ingannevole fulgore del mito e solo la civiltà punica gli sembra per qualche aspetto positiva, in quanto «fervida ed operante sui mari». Ma è soprattutto la cultura latina che ha influito profondamente sulla società isolana: «questo processo di romanizzazione non fu senza significato per la storia della Isola. Esso per secoli, sino ai nostri giorni, fissò le linee essenziali del costume, del pratico operare del popolo sardo. La Sardegna per un miracolo della storia, è rimasta nel suo aspetto esteriore la più latina fra quante terre sono state sottoposte al dominio romano». È vero che l'assimilazione della cultura sarda da parte di Roma non è stata del tutto completa; ma se sullo sfondo rimane una identità più antica, l'età imperiale romana per B. segna una ripresa sul piano organizzativo e amministrativo, giacché l'isola «ricostruì il suo organismo politico ed economico in nuove forme e lo completò», anche se non gli sembra palpitare ancora di nuova vita, dato che «durante i primi tre secoli d.C. la Sardegna fu gravata da una atmosfera di sonno nella immensa Romanae pacis majestas». Forse il cristianesimo susciterà «una prima incerta fiammella di vita morale e la nuova coscienza romana germinata in ritardo acquisterà vigore nella difesa contro l'assalto longobardo e saraceno, durata per secoli nel silenzio della storia, eppure degna di altissima gloria».

L'atteggiamento stesso nei confronti della storia della Sardegna conosce, a seconda delle fonti utilizzate ed a seconda dei momenti, da un lato l'esaltazione mitica del passato, ma anche un ripetuto compatimento per le penose condizioni economiche e sociali dell'isola in età romana. Evidente è l'incertezza tra l'ammirazione per la grandezza di Roma e il risentimento per i metodi di colonizzazione violenta impiegati a danno dei Sardi; tra l'ideale di un grande impero mediterraneo che sintetizzi tutte le nazionalità e l'affermazione della specificità della nazione sarda. Non possiamo dire comunque che ci sia una strumentalizzazione della storia per scopi politici; semmai, l'indagine storica, per quanto gli è possibile rigorosa e rispettosa dei dati, è la premessa indispensabile per ogni successiva azione politica. In questo senso la distanza con il Fascismo appare incolmabile: B. scrive sotto il Fascismo, ignorando totalmente Mussolini, dando della storia della Sardegna in età romana una versione inusuale, forse con molte contraddizioni, ma sicuramente con un'impostazione originale e di grande interesse: la sua appare ancora oggi una riflessione profonda e non convenzionale.

Rispetto all'opera del Pais c'è intanto da registrare una prima novità ed è la scelta di focalizzare l'indagine storica sulla sola Sardegna, escludendo la Corsica, isola per la quale il Pais aveva voluto rinnovare con molta retorica la dichiarazione di italianità, richiamando le radici romane ed italiane della cultura corsa. Il B. appare viceversa ripiegato sulla Sardegna e più ancora sui Sardi, così come recita il titolo, come se intendesse separare nettamente la storia dei Romani e della romanizzazione studiata dal Pais dalla storia della popolazione locale in età romana, nelle sue differenti componenti, che è oggetto della sua indagine: e ciò con un'attenzione particolare per i fenomeni di resistenza militare o culturale dei Sardi di fronte alla civiltà romana. Va detto subito che non è scontato che questo progetto, veramente di grande interesse per l'epoca e per le circostanze nelle quali fu concepito, sia stato interamente realizzato.

C'è infine da sottolineare, ancora nel titolo, la volontà di estendere l'opera fino ad abbracciare non solo l'età romana, ma tornando indietro anche l'età punica e perfino l'età nuragica: ma tale proposito appare poi messo da parte, dato che i due capitoli iniziali dell'opera sono solo una rapida premessa. Colpisce la scelta di presentare in copertina, con un evidente anacronismo, la bandiera dei quattro mori, con i quattro campi segnati dall'elsa di una spada: è una ripresa, abbastanza sorprendente, della copertina della rivista “Il Nuraghe, Rassegna sarda di coltura", diretta da Raimondo Carta Raspi, pubblicata a partire dal 1922, con il motto latino nec frangar nec flectar. Viceversa, per un evidente ripensamento, nel frontespizio e nella copertina del secondo volume compare un bronzetto nuragico, con un richiamo all’età nuragica e alle più antiche origini della civiltà dei Sardi.

La vicenda del processo contro il corrotto governatore Scauro, figliastro di Silla, orgoglioso esponente del partito aristocratico, che i Sardi unanimi accusarono di malversazioni e di violenze, assume i toni fascinosi del romanzo, occupando ben 60 pagine del volume, riprendendo il testo pubblicato sui due numeri della Rivista “Il Nuraghe” quattro anni prima: i centoventi testimoni pelliti arrivati a Roma per testimoniare contro Scauro furono «oggetto di salaci commenti dell'impertinente popolino romano per il loro viso bruno dagli occhi scintillanti e vivaci, e per le loro strane costumanze: i grandi cerchi d'oro o d'argento alle orecchie, l'ampio paludamento di lana naturale con larghe e abbondanti maniche in cui le mani restavano nascoste. Vecchi abbigliamenti della gente punica, confinati nel mesto ambiente di provincia». Essi «si aggiravano imbarazzati, storditi dal lungo viaggio e meravigliati dallo spettacolo insolito. Faceva loro da guida il loro compaesano, cittadino romano, che con grande aria di sussiego, ora dando ordini in punico, ora rivolgendo inviti in latino, riusciva a farsi largo e a far loro prendere posto sui banchi dei testimoni. Naturalmente era lui, Valerio, vestito da Romano, ma dall'inconfondibile aspetto di Sardo, che scuoteva il chiamato e lo faceva rizzare, e risponeva per lui presente quando l'araldo, nel proseguo del dibattito, faceva l'appello dei testi».

Noi oggi ci allontaniamo molto da Cicerone e in particolare dalla Pro Scauro per la ricostruzione dei fatti relativa ai delitti oggetto del processo, la morte del giovane Bostare e il suicidio della moglie di Arine. Soprattutto la concussione, il reato de repetundis sulla riscossione di tre decime, ma il giudizio complessivo di Cicerone appare straordinariamente efficace: l'appellativo Afer è ripetutamente usato come equivalente di Sardus; l'espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae ha suggerito a Sabatino Moscati la realtà di una «ampia penetrazione di genti africane ed il carattere coatto e punitivo della colonizzazione o, meglio, della deportazione». Numerose altre fonti letterarie e le testimonianze archeologiche confermano già da epoca preistorica la successiva immissione di gruppi umani arrivati dall'Africa settentrionale (ma anche dall'Iberia, dalla Corsica, dalla Sicilia e forse dalla Grecia e dall'Oriente), fino alle più recenti colonizzazioni puniche, tanto che alcune fonti parlano di Sardo-lìbici; solo con l'occupazione romana erano iniziati un difficile rapporto e una contrastata convivenza con gli immigrati italici. Gli incroci di genti diverse che ne erano derivati, secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai ripetuti travasi il popolo si era inselvatichito, o meglio «inacidito» come il vino, prendendo tutte quelle caratteristiche che gli venivano rimproverate; discendenti dei Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell'isola, i Sardi costituivano un’unica “nazione Sarda”. Potrà sorprendere, ma dobbiamo proprio utilizzare un’espressione – natio - presente ripetutamente nella Pro Scauro di Cicerone, sia pure con una sfumatura polemica: la nazione sarda per Cicerone è caratterizzata dal fatto che tutti gli appartenenti hanno una mens, un analogo modo di progettare il futuro e di concepire i rapporti sociali; unus color, hanno tutti una carnagione olivastra forse legata alle origini africane; e infine una vox, parlano tutti un’unica lingua, più che la lingua cananea dei Fenici e dei Cartaginesi, il protosardo degli eredi dei nuragici, i 120 Pelliti testes, la lingua perduta che ha preceduto il latino, un suono indistinto, un rumore, un frastuono fatto di parole incomprensibili. Insiene costituiscono un’unica natio, una “nazione abortiva” per B. «nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo» (Mattone). Del resto negli stessi anni venti Emilio Lussu in una lettera ad Antonio Gramsci poneva come premessa alle rivendicazioni di tipo nazionale il fatto che i Sardi si erano «accorti da parecchio di essere una nazione fallita»; più tardi addolciva l’espessione, parlando di «una nazione mancata». Come abbiamo visto ieri, bisognerà arrivare ad Antoni Simon Mossa ed agli anni Sessanta per capire l’utopia del poeta della nazionalità, per il quale occorreva unire il momento di liberazione etnica a quello della liberazione sociale ed umana e non solo in Sardegna.  Eppure nel volume di B. non manca un richiamo ai valori di indipendenza nazionale sarda, che anzi con gli anni sembra emergere prepotentemente: di fronte ai Cartaginesi, «un nemico astuto, calcolatore e spietato», gli Iliensi ed i Balari costruttori di nuraghi sospendono le rapine e le guerriglie interne e costituiscono «l'unione sacra per la difesa del suolo della Patria e della personale libertà». Il loro è un «nido di vespe», che i Cartaginesi non ritengono opportuno stuzzicare; ma in età romana nei boschi risuonano «le urla degli assalitori avanzanti in catena, come per una immensa battuta di caccia»; verso questo popolo di «aborigeni» (tra virgolette), che continuano disperatamente «ad insorgere per affermare la loro sfrenata aspirazione alla libertà», B. esprime la sua simpatia, sostenendo che il racconto di quegli avvenimenti «manifesta una viva commozione nell'animo di ogni Sardo». Anche il tema della resistenza alla romanizzazione è affrontato per la prima volta nella storiografia sulla Sardegna antica, con relativa originalità: per il B. «la fiera resistenza degli indigeni che non avevano ormai più niente da perdere se non la libertà» è nata già in età cartaginese; ma più tardi, con l'occupazione romana, «alle popolazioni anarchiche ed a tendenze individualistiche come quelle sarde, tale potere stabile e senza limiti di Roma doveva sembrare intollerabile».

Oggi possiamo ammettere che il nostro termine “nazione” appare più caratterizzato rispetto al latino natio sul piano identitario, più capace di identificazione specifica, riferito a popoli che <<hanno in comune lingua, arte, storia, tradizioni>>. In latino il termine natio è utilizzato nel senso di “patria”, origo, luogo geografico di nascita e di origine ma anche domicilium (in greco génos, éthnos, polítes): il grammatico Lucio Cincio in età repubblicana faceva riferimento a coloro che sono radicati su un territorio, sul quale sono nati e continuano a vivere: genus hominum, qui non aliunde venerunt, sed ibi nati sunt ubi incolunt. A differenza di gens, la nozione di natio tiene conto del rapporto che un dato gruppo sociale ha nei confronti di un luogo geografico di origine; questo infatti identifica il suolo della patria originaria, <<solum patrium quaerit>>, in quanto è omoradicale col verbo nascor. Per il Thesaurus linguae Latinae, Friedrich Spoth osserva che nell’utilizzare il termine natio si intende trattare di un popolo individuato specialmente de coetu hominum, qui coniuncti sunt vinculo, magari unius originis, linguae, religionis similiter: le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma (nationes exterae); altre volte indica popoli ostili alla Res pubblica oppure etnie definite etnocentricamente “barbare e arretrate”, rispetto alla cultura di cui i Romani si ritenevano portatori primi. In epoca romana questa nozione era riferita soprattutto ai peregrini che abitavano ampie aree all’interno dello spazio geografico dell’impero e che conservavano le loro tradizioni e, se si vuole, una propria cittadinanza, in qualche caso alternativa alla cittadinanza romana: natio è dunque la comunità di diritto alla quale si apparteneva per vincolo di sangue, partendo dalla terra nella quale si era nati, dal luogo d'origine, di appartenenza o di provenienza; l’espressione natione Sardus è usata una decine di volte fuori dalla Sardegna con una sfumatita di nostalgia e di rimpianto, anche di orgoglio. Il termine era utilizzato di frequente per indicare anche i barbari che abitavano fuori dall’impero romano che avevano una propria lingua e tradizione, a prescindere dall’organizzazione provinciale e amministrativa romana. Natio poteva indicare genericamente un’etnia o poteva essere usato per caratterizzare anche solo un rappresentante di un’entità geografica più ampia, comprendente diversi populi e gentes. In ambito provinciale la questione aveva importanti contenuti culturali e giuridici, in relazione al rapporto tra la cittadinanza romana e gli iura gentis, cioè le tradizioni giuridiche locali dei peregrini, che sopravvivevano all’interno di una provincia romana, come testimonia in Sardegna, l’epigrafe del nurac Sessar: elementi che in qualche modo documentano la sopravvivenza dello <<ordinamento giuridico>> pre-romano in piena età imperiale. Si coglie il senso dell’utilizzo del termine natio quando veniva impiegato per indicare - con una sfumatura culturale e identitaria - l’insieme dei popoli che occupavano la provincia della Sardinia, isola che anche come entità geografica non veniva considerata facente parte dell’Italia romana, in quanto organizzata attraverso una propria lex provinciae e sottoposta originariamente all’imperium di un magistrato, perdendo la libertà di cui godevano i Romani. Nel de vulgari eloquentia 700 anni fa, Dante Alighieri avrebbe riconosciuto che i Sardi non sono italiani per il fatto che unici non parlano un proprio volgare italico, anche se metodologicamente possono essere associati agli italiani, associandi videntur. Mi sembra evidente che B. ricalcasse il pensiero di Dante quando fin dal 1920 scriveva: <<che noi non siamo etnicamente e linguisticamente italiani, è un dato di fatto incontrovertibile>>.

Fondamentale è il tema della libertà: nella decima Filippica Cicerone, nella polemica politica legata alla nascita del secondo triumvirato, avrebbe sostenuto che i Romani, spinti dal criterio dell’onore e della virtù, hanno fatto propria la causa della libertà; tutti gli altri popoli invece potevano essere disposti a sopportare la servitù; questo era possibile semplicemente perché gli altri rifuggivano la fatica e la sofferenza e, per evitarle, erano disposti a subire qualsiasi cosa. B. sapeva bene che Cicerone raccoglieva un topos un poco logoro, che legava la libertà dei Romani al servaggio di una natio: l’orazione mette in evidenza come tutti i testimoni sardi – i Pelliti testes - avessero immaginato di stringere un compromesso coi populares per ottenere dei vantaggi, convinti di poter mentire impunemente: postremo ipsa natio, cuius tanta vanitas est ut libertatem a servitute nulla re nisi mentiendi licentia distinguendum putent.

I Barbari si identificano dunque:

-       Per la lingua (barbari nella voce, phoné)

-       per l’assenza di città amiche del popolo romano e libere

-       per il colore scuro della pelle, in quanto meridionali

-       per le mescolanze di sangue

-       per non apprezzare la fides e ammettere la menzogna

-       per non essere cittadini romani

-       per la loro volubilità, vanitas

-       per l’avidità, l’insaziabilità, la voglia di arricchirsi

-       per la scarsa alfabetizzazione

-       per essere pronti all’ira

-       per la diversità nelle vesti: la mastruca che disumanizza i Sardi, li rende simili agli animali

-       per i riti magici

-       per la paura che provano di fronte al coraggio dei Romani

-       per essere pastori e non contadini

-       per la libidine delle loro donne

Cicerone utilizza nella Pro Scauro due volte il termine natio per indicare i peregrini Sardi; Livio utilizza invece l’espressione gens per il popolo degli Ilienses del Marghine-Goceano che continuavano a godere della libertà ancora nel I secolo a.C.: gens nec nunc quidem omni parte pacata; infatti, i loro iura sono richiamati sulla celebre iscrizione del Protonuraghe Aidu ‘entos di Mulargia, all’indomani della sedentarizzazione nel Marghine-Goceano del I secolo d.C. Per i Greci lo stesso popolo, indicato da secoli col nome di Iolaeoi, avrebbero mantenuto la libertà promessa per sempre dall’oracolo di Apollo ad Eracle per i suoi 50 figli che avessero raggiunto la Sardegna e per i loro discendenti, dove non avrebbero dovuto subire il dominio di altri popoli. Quindi Diodoro di Sicilia poteva constatare che i Sardi discendenti da Eracle avevano saputo resistere ai Cartaginesi ed ai Romani; si erano rifugiati sui monti, avevano preso dimora in luoghi inaccessibili, abitando in gallerie e in ambienti sotterranei da loro costruiti, dedicandosi alla pastorizia, nutrendosi di latte, di formaggio, di carne e facendo a meno del grano; così, lasciate le pianure, si erano sottratti anche alle fatiche di coltivare la terra. Infine continuavano a vivere sui monti, senza la preoccupazione del lavoro, contenti dei cibi semplici, mantenendo quella libertà che nemmeno i Romani, all’apice della loro potenza, erano riusciti a soffocare.

B. preferisce limitarsi a raccogliere le parole utilizzate da Cicerone per ricostruire la storia della Sardegna dall’età fenicia a quella punica, fino ad arrivare alla romana; gli incroci secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai successivi travasi (transfusionibus), la popolazione si era “inacidita” come il vino (coacuisse), prendendo tutte quelle caratteristiche che le venivano rimproverate: ovvero, discendenti dai Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell’isola, i Sardi secondo Cicerone presentavano tutti i difetti dei Punici, erano dunque bugiardi e traditori, gran parte di essi non rispettavano la parola data, odiavano l’alleanza con i Romani, tanto che in Sardegna effetttivamente non c’erano fino all’età di Cesare città amiche del popolo romano o libere ma solo civitates stipendiariae. L’espressione natio è utilizzata pochi anni dopo (nel 37 a.C.) anche nel de re rustica di Varrone, a proposito dei Sardi Pelliti della Barbaria sarda alleati di Hampsicora durante la guerra annibalica e per questo avvicinati ai Getuli africani.

Noi oggi sappiamo che alla fine dell’età repubblicana, Ottaviano avrebbe esaltato sulle monete e con la costruzione del tempio di Antas il dio nazionale dei Sardi, il Sardus Pater, figlio di Makeris-Melkart-Eracle, commemorando l’azione del nonno Marco Azio Balbo, propretore in Sardegna nel 59 a.C.; questo era stato l’anno cruciale del consolato di Giulio Cesare suo cognato, il quale a sua volta poteva vantare una ascendenza divina che forse lo collegava ai Sardi Ilienses, fondando una “parentela etnica” con i Sardi della Barbaria. Il santuario (le cui origini risalgono alla fine dell’età nuragica) aveva rappresentato il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee.

Del resto B. riprende forse con troppa benevolenza anche la visione ciceroniana di Girolamo: non sine causa Christum mortuum fuisse, nec ob Sardorum tantum mastrucam Dei filium descendisse, frase che viene chiosata con qualche eccesso di auto-flagellazione. In questo quadro B. pensava di spiegare la polemica di Girolamo contro il fanatico Lucifero vescovo di Carales: «sangue semitico doveva scorrere nelle vene del vescovo sardo. Con tutta probabilità i suoi antenati avevano con occhio freddo e cuore fermo partecipato ai sacrifizi umani in onore del Baal Khamman, secondo le feroci tradizioni puniche». E B. significativamente conclude: «noi sardi amiamo nostro padre Lucifero, come tutti noi testardo ed orgoglioso; celebriamo la sua passione e comprendiamo il suo errore».

Gli eccessi del fiscalismo romano sono trattati più volte, già ampiamente nel VI capitolo del secondo volume e poi soprattutto in tre altri articoli usciti tra il 1926 ed il 1931: Il caput fiscale di Sardegna nel basso impero; Capitatio plebeia e capitatio humana; Decuma e stipendium in Sardegna durante l'età repubblicana.

L'economia romana in Sardegna gli appare sostanzialmente a base schiavistica. Lo sfruttamento degli schiavi sardi è descritto con efficacia a proposito dei provvedimenti di Costantino del 325, tesi a ricostituire le famiglie di schiavi smembrate tra i domini, i possessori dei fondi concessi in enfiteusi, provenienti dal patrimonio imperiale in Sardegna. L'attenzione dell'imperatore non potè essere mossa solo da un generico sentimento di carattere umanitario, magari influenzato dalla Chiesa, ma piuttosto fu l'inevitabile risposta del potere imperiale ai gravi disordini di massa, arrivati a provocare un’anarchia rurale. B. ha esaminato il provvedimento imperiale in un lontanissimo lavoro pubblicato nel 1928: si può condividere l'idea di una vasta estensione in Sardegna dei latifondi imperiali, magari in parte lasciati in abbandono, come agri rudes; e si può ritenere fondata l'ipotesi di una maggiore persistenza dello schiavismo rurale nella Sardegna tardo-antica rispetto, alla Sicilia e alla penisola, per cause che differenziavano nettamente l'ambiente economico sardo da quello italiano. Mentre in Italia l'economia schiavistica (che si era sostenuta in età repubblicana anche attraverso l’immissione nel mercato urbano dei Sardi venales) iniziò a vacillare a partire dall'età di Nerone, in Sardegna l'alto numero di schiavi, il rallentamento dei processi di mobilità sociale, la limitata consistenza del colonato, il basso indice demografico potrebbero effettivamente aver concorso al mantenimento di un'economia schiavistica ancora nel basso impero, soprattutto grazie alle radici ben più tenaci che lo schiavismo aveva nell’isola. Il passaggio dei latifondi imperiali dalla conduzione diretta attraverso conductores all’assegnazione in enfiteusi dietro il pagamento di un canone molto contenuto potrebbe aver avuto un impatto disastroso sulle tradizioni isolane, almeno sul piano sociale. Gli schiavi venivano allontanati dal proprio fondo: «sparisce quindi l'uso dell'agellus, dalla casa, sparisce anche la famiglia» - scrive B. -. «Il villaggio, come un formicaio scoperchiato dalla ostile curiosità di un monello, che si diverte a frugare il terreno con una verga, per disperdere tanto fervido traffico di minuscoli esseri, si vuota fra grande scompiglio e rimane deserto, perché ciascun dominus tiene a portare entro i confini stabiliti per il proprio lotto i viventi che gli sono attribuiti». B. ritiene anzi che una traccia della particolare situazione sociale romana di età imperiale potrebbe essersi conservata anche nel primo medioevo, allorché ci sono noti servos ed ankillas legati alle case rustiche, alle terre coltivate, alle vigne, alle terre incolte.

Per B. dopo uno spaventoso isolamento di oltre quattrocento anni, dovuto alla situazione geografica aggravata dall'insicurezza dei mari per le scorrerie arabe, la Sardegna comincia a riprendere le sue relazioni con la penisola italiana solo nell'XI secolo: «per uno strano gioco della storia, la sua organizzazione economica, rattrappita in uno sforzo di autoconservazione, irrigidita dall'assenza di ogni scambio, rispecchiava condizioni di cose, in altre terre superate da secoli». Più in generale le terras de rennu potrebbero essere la testimonianza e la conseguenza dello sfaldamento del governo bizantino, che in qualche misura continua il governo imperiale, con i vastissimi latifondi documentati in Sardegna: dichiarati ager publicus populi romani, col tempo furono ripartiti tra il fiscus e il patrimonium imperiale. Camillo Bellieni osserva la storia lunga dell'isola attraverso la bipartizione della società giudicale tra liberi e servi, una realtà sociale composita e pluristratificata, fatta di lieros e di servos, i cui interessi erano spesso in conflitto tra loro. Gli stessi due gruppi dovevano essere al loro interno meno compatti di quanto non si immagini, aperti ad una qualche forma di mobilità sociale, esito di una lentissima evoluzione storica. C’è una categoria intermedia di semiliberi che pare molto interessante, quella dei liberti e dei colliberti, che pare vadano collocati in una linea di continuità con la tradizione classica.

Non mancano nel volume le vere e proprie intuizioni, come la limpida visione degli stretti legami tra Sardegna e Nord Africa già in età antica: Raimondo Bonu gli rimproverava le tesi sulle origini africane dei Sardi «non ancora storicamente accertate», anziché prevalentemente mediterranee. Per il B. è vero che «tutti i popoli del bacino orientale ed occidentale del Mediterraneo hanno dato il loro contributo all'intensa civiltà fiorita sulle coste della nostra isola», dall'età minoica al periodo fenicio-cartaginese, all'età romana. Del resto «una costante della storia Sarda è data dalla geografia, che obbliga a porre la Sardegna in rapporto con il mondo circostante, in particolare lungo la principale via di comunicazione tra Africa ed Italia». È però soprattutto con il Nord Africa che il B., anticipando di cinquant'annni gli studi sull'argomento, vede collegata la Sardegna, dal punto di vista dei rapporti di popolazione, dei legami culturali, politici, economici, anche sul piano della lingua e dell'onomastica. E ciò fin dalle origini mitiche, dai lontanissimi sbarchi «di tribù libiche, che praticavano il culto del loro eroe libico Iolao», fino al basso impero, quando Africa e Sardegna manifesteranno il desiderio pressante dell'antica sfrenata libertà: «l'Africa potrà realizzare il suo sogno - scrive B. - solo nel mistico fanatismo mussulmano, distruttore della civiltà di Roma; e la Sardegna, solo nel cupo isolamento delle sue montagne, in un disperato annientamento dello spirito». Le due sponde del Mare africano gli appaiono idealmente legate tra loro dall'andare e tornare dei fenicotteri: a Cartagine come a Carales abitava un'unica «razza amica ed affine per sangue e per lingua».

Come si vede le curiosità di B. non erano state però completamente soddisfatte con i primi due volumi, anzi aveva continuato a lavorare sugli stessi temi ancora negli anni venti. Il fatto stesso che i due tomi sull'età medioevale, annunciati come di prossima pubblicazione, abbiano visto la luce soltanto dopo cinquant'anni la dice lunga sul giudizio che lo stesso B. dava di questa sua opera giovanile che dattiloscritta aveva consegnato ad Arnaldo Satta Branca, tardivamente pubblicata da Fossataro nel 1973, La Sardegna e i Sardi nella civiltà dell’alto medioevo. L’opera anticipa di dieci anni il volume di Alberto Boscolo per la collana di Chiarella (La Sardegna bizantina e altogiudicale): sono quelli che altri avrebbero chiamato “i secoli bui della Sardegna”. B. si ferma sulla soglia, prima della nascita dei quattro giudicati, tema che oggi sappiamo esser destinato a diventare molto fortunato; l’opera è ancora dedicata in gran parte alla tarda età romana, alla Sardegna alla fine del mondo antico, alla dominazione vandala e all’occupazione ostrogota, ai bizantini, agli attacchi arabi fino alla sconfitta di Mujāhid ibn ʿAbd Allāh al-ʿĀmirī, alla difesa navale della Sardegna fino al IX secolo, ai rapporti con Costantinopoli.  Gli ultimi studi come quelli di Rossana Martorelli, hanno dimostrato la complessità del quadro, la vitalità della chiesa sarda, la necessità già intuita da B. di districarsi tra falsi storici.

Eppure, come oggi appare chiaro, le eredità romane condizionano anche la società dei nostri tempi: la lingua sarda innanzitutto, la toponomastica, ma anche i percorsi della viabilità, il paesaggio trasformato dall’uomo, alcune forme dell’insediamento, le vocazioni stesse del territorio, le colture agricole, l’allevamento, ma anche le attività minerarie, la pesca, la raccolta del corallo, per non parlare di alcune tradizioni popolari; piste di ricerca percorse anche ai nostri tempi. Ha ragione B. a tentare di definire in modo più sistematico rispetto all’opera del Pais la storia lunga dell'isola e i rapporti mditerranei: si può sostenere che alcuni processi storici ed economici presentano delle costanti in Sardegna, in relazione al clima, alla realtà geografica, alle condizioni stesse di vita nell'isola, con le continuità, le eredità della civiltà romana in epoca medioevale. Riemerge, attraverso la documentazione romana e altomedioevale, un paesaggio, un ambiente, un territorio che per B. mantengono un aspetto arcaico e che sono rimasti quasi cristallizzati attraverso i secoli. La travagliata nascita della Sardegna giudicale ci appare come al margine di una storia lunga, che conserva ancora il sapore primitivo di un tempo lontano, in altre parti d’Europa ormai tramontato da secoli.

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* Con il contributo di Paola Ruggeri.

Ultimo aggiornamento Lunedì 30 Agosto 2021 20:01

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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