Attilio Mastino, Geografia, Geopolitica, Epigrafia,
Conference de l’AIEGL, Bordeaux 31 agosto 2022
L’épigraphie au XXIe siècle, XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae,
(Film https://youtu.be/l8l_8caQ2w0). La strategia militare per liberare l’Europa dopo i fascismi che avevano alimentato il mito imperiale di Roma mi sembra possa esser sintetizzata nelle vicende dello sbarco americano in Marocco raccontate in un film del 1970 in un puro stile holliwoodano, premiato con tanti Oscar, il Generale di Acciaio: vi si vede un improbabile Generale Patton interpretato da George C. Scott mentre sproloquia alla fine del 1942 sulla guerra, a Volubilis davanti all’arco eretto dal procuratore M. Aurelio Sebasteno dedicato per celebrare la singularis indulgentia [erga] universos et [nova] supra omnes [retro] principes di Caracalla nella sua XX e ultima potestà tribunicia. Rimontata da Louis Chatelain e André Piganiol nei restauri del 1935, la duplice iscrizione ricorda l’imperatore come Germanicus Maximus, vincitore dei Germani.
Ma sarebbe pretendere troppo immaginare che il regista abbia pensato ad un collegamento tra la campagna contro Hitler ed i tedeschi e la vittoria germanica di 1800 anni prima. Sappiamo che la task force corazzata guidata dal gen. Patton si preparava ad intervenire a Kasserine in Tunisia dopo il disastro di americani e inglesi di fronte a tedeschi e italiani: ai confini di un Mediterraneo ancora tutto da riconquistare, diciamo la parola, da liberare dai totalitarismi e dalle patologiche aspirazioni coloniali di Mussolini e di Hitler, il generale è descritto nel film in modo caricaturale e un poco offesivo: avrebbe inciampato sulla crudeltà delle donne arabe al momento della distruzione di Cartagine, una storia tutta deformata ed inesatta, che però rende bene – al di là delle esigenze narrative – le contraddizioni della guerra, contraddizioni testimoniate drammaticamente dalle bianche lapidi dei cimiteri militari che tanto spesso abbiamo visitato come quello inglese di Medjez el Bab sulla Medjerda, a due passi da Thignica.
Possiamo seguire per un attimo gli alleati percorrere la Sicilia quando si moliplicarono i danni al patrimonio monumentale in particolare a Palermo con ferite che ancora rimangono; oppure le iscrizioni incise per ricordare il restauro dopo la guerra, p.es. a San Francesco d’Assisi. E poi risalire lo stivale in Italia fino alla linea Gustav nel fronte del Garigliano: il Presidente dell’Associazione Linea Gustav, Fronte Garigliano ci ha segnalato l’iscrizione sulla base di statua dell’ambulacro del teatro romano di Minturno in una foto del 15 marzo 1944 con le truppe britanniche, bloccate dai tedeschi: un soldato che si prepara per la battaglia. La base dedicata dai Minturnenses ricorda la sposa di Gordiano III Furia Sabinia Tranquillina Aug(usta) sanctissim(a) coniux.
Cari amici,
è un grande onore per me chiudere questa assemblea dell’ AIEGL, in occasione del XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae, ripensando ad Amsterdam 84 anni fa, a quel terribile 31 agosto 1938, un mese prima delle leggi razziali fasciste adottate in Italia; e ricordare poi la nascita dell’AIEGL tornando per un momento a Monaco di Baviera nel 1972, 50 anni fa: cinque anni dopo la nostra Associazione arrivava alla sua costituzione formale a Constantza in Dobrugia sul Mar Nero nel 1977, l’antica Tomi, in occasione del VII Congresso presieduto da Georgi Mihailov, Hans-Georg Pflaum, Marcel Le Glay: un incontro fortunato tra specialisti, a cavallo tra epigrafia greca ed epigrafia latina, secondo una formula coraggiosa che superava arcaiche resistenze ma che anticipava una convergenza di mondi tanto differenti, per volontà di studiosi che già sentivano nell’aria i tempi nuovi, il superamento di una fase storica. Erano seguiti Atene nel 1982, Sofia nel 1987, due anni prima della caduta del muro di Berlino, Nimes nel 1992, Roma nel 1997, Barcellona nel 2002, Oxford nel 2007, al Pergamon-museum di Berlino dieci anni fa 2012 sull’isola dei musei (Museumsinsel) in una città che conserva i segni dei proiettili, le tracce sanguinose della guerra europea come nel colonnato dell’Altes Museum, anche nel rapporto ancora ben percepiblie tra presenze e assenze nel tessuto urbano, nell’equilibrio urbanistico non definitivo e risarcito tra pieni e vuoti. Ci siamo lasciati a Vienna cinque anni fa 2017 in una città incredibilmente moderna. I nostri incontri sono sempre stati momenti straordinari di crescita, di comprensione, di collaborazione internazionale, perché gli studiosi sono sempre l’avanguardia di quei vasti fermenti culturali che segnano il mondo che viviamo. Così sarà anche quest’anno a Bordeaux con tanti amici, con tanti progetti, con lo sguardo rivolto verso i luoghi che amiamo, sulle rive del Mar Nero, il Πόντος Εὔξεινος il mare ospitale percorso dagli Argonauti, il primo punto di incontro tra Greci e Cimmeri o Sciti o Rossolani e altri popoli o civiltà: un’area nevralgica (come non pensare alla guerra di Troia ?) alla quale si rivolgevano gli imperatori pacatores orbis. Il popolo misterioso degli Iperborei, il mito degli Argonauti e di Prometeo, e ancora Orfeo e Dioniso: miti che sviluppano davvero «la nozione del misterioso levante nella conoscenza del continente europeo verso le diverse rive mediterranee», considerato come territorio limitaneo, al di fuori della ‘civiltà’ classica. Oggi assistiamo a quello che nelle visioni del Tragico è stato definito il ritorno di Dioniso in luoghi che mantengono una fondamentale impotanza per l’Asia con interessi economici e strategici della regione sempre più rilevanti.
Sono stato a lungo incerto se affrontare il tema che mi è stato affidato, Geografia, geopolitica, epigrafia, esclusivamente dal punto di vista che ci è più abituale, quello degli antichi, oppure dal punto di vista dei moderni, per tentare di proiettarci – con qualche incoscienza - sulle continuità che le scritture antiche documentano in tanti casi fino ai nostri giorni, per ricordare il valore del patrimonio e della cultura classica, ma anche per non dimenticare il presente con le sue incognite, le sue tensioni, le sue incomprensioni, le sue ingiustizie, le sue violenze. Fino a spiegare alcuni fenomeni della comunicazione rapida e di sintesi anche sui social di oggi, che se consentono di migliorare le interconnessioni tra gli stati, fanno intravvedere i mille nuovi modi impiegati per giustificare i crimini di guerra, per definire bussole strategiche spesso impazzite, che pretendono di fornire orientamenti cruciali per i prossimi decenni.
Noi viviamo un tempo di trafornazioni, di rischi, di conflitto tra culture, tra popoli, tra paesi, anche per la nostra incapacità di comprendere gli altri, di sviluppare una pacifica vita in comune, di mettere da parte egoismi e interessi, di rifiutare integralismi e intolleranze, senza ingenuità perché i buoni propositi non bastano più di fronte alle forze in campo. Sarebbe ingenuo enfatizzare in positivo il mondo antico, quello greco e quello romano, che metteva insieme elementi contrapposti, l’imperialismo, la colonizzazione, la “romanizzazione”. Eppure troppe volte la storia greca, la storia romana, la storia del Mediterraneo nell’antichità vengono rappresentate come una successione ininterrotta di guerre; né è possibile fermarsi sulla soglia di un tema gigantesco, la guerra, che ha continui riflessi sull’epigrafia greca e latina, con riferimento ad avvenimenti militari, guerre, spedizioni, come i tanti bella, le guerre di conquista che compaiono su centinaia di iscrizioni, il bellum Germanicum, il bellum Thracicum, il bellum Britannicum, il bellum Iudaicum, il bellum Dacicum, solo per fare qualche esempio di età imperiale; le tante expeditiones citate ancor più di frequente sulle iscrizioni, come quella Britannica, Germanica, Asiana, Parthica. Le iscrizioni menzionano spesso avvenimenti militari: Jehan Desanges nei suoi ultimi giorni ha discusso con me il Bellum Numidum di Thignica o i Fraxinenses furentes di Tubursicu Numidarum. Per citare un documento storico, agli anni di Vespasiano risale il celebre epitafio tiburtino di Ti(berius) Plautius Silvanus Aelianus, compagno di Claudio in Britannia, che ricorda il trasferimento di oltre 100.000 profughi transdanuviani giunti in Mesia ad praestanda tributa, dopo le prime vittorie sui Daci: l’irruzione romana nel Barbaricum scitico oltre il Dineper, non il Dniester, il Borustene, e la raccolta di enormi quantità di grano; premessa per l’attribuzione degli ornamenta triumphalia e per l’iterazione del consolato nel 74: pochi anni dopo Plauzio Silvano sarebbe stato onorato con le parole dell’amico Vespasiano al momento della morte: regibus Bastarnarum et Rhoxolanorum filios Dacorum fratrum captos aut hostibus ereptos remisit, ab aliquis eorum obsides accepit per quem pacem provinciae et confirmavit et protulit. Scytharum quoque rege a Chersonensi quae est ultra Borustenen, obsidione summoto, primus ex ea provincia magno tritici modo annonam p(opuli) R(omani) adlevavit. Sono i luoghi nei quali nei nostri giorni si combatte ancora una guerra sanguinosa, piena di crudeltà e di violenza. Nell’antichità le conseguenze immediate delle guerre di conquista come dopo le campagne di Cesare in Gallia sono lo spopolamento, la depressione demografica, la riorganizzazione amministrativa (giuridica e dei confini tra città e tribù), l’acculturazione coatta dei principes locali, per passare poi al conseguente sfruttamento delle risorse, agli assestamenti culturali, alla permeabilità di alcune frontiere, ad es. per non bloccare le vie di transumanza. In parallelo coi danni fatti in passato dall’archeologia coloniale e con l’oggi, con i mille danneggiamenti contemporanei al patrimonio archeologico, frutto di speculazione e disattenzione: un patrimonio decapitato.
Solo pochi anni prima di Vespasiano, nella guerra civile scoppiata alla morte di Nerone, di Galba e di Otone, l'incendio dell’antico tempio capitolino e del tabularium publicum sul Campidoglio era stato davvero catastrofico, un crimine per i contemporanei: secondo Tacito id facinus post conditam urbem luctuosissimum foedissimumque rei publicae populi Romani. La parte bassa dell’archivio capitolino dové salvarsi: Vespasiano, nel 73 simbolicamente iniziò di persona la restituzione del tempio di Giove e degli altri edifici pubblici sul colle e si preoccupò di ricostituire il fondo di oltre tremila tavole di bronzo, che erano andate distrutte in occasione dell'incendio del 19 dicembre 69. In proposito è essenziale l'informazione fornita da Svetonio: ipse restitutionem Capitolii adgressus ruderibus purgandis manus primus admovit ac suo collo quaedam extulit; aerearumque tabularum tria milia, quae simul conflagraverant, restituenda suscepit, undique investigatis exemplaribus: instrumentum imperii pulcherrimum ac vetustissimum, quo continebatur paene ab exordio urbis senatus consulta, plebi scita de societate et foedere ac privilegio cuicumque concessis. Dunque almeno tremila tavole di bronzo erano state danneggiate o distrutte dall'incendio e non erano più leggibili; non sappiamo quante altre viceversa si fossero salvate. È sicuro poi che tra le tabulae aeneae quae simul conflagraverant, andate perdute in occasione dell'incendio ci fossero anche delle mappe catastali, almeno quelle di età repubblicana: se è vero che Svetonio non lo precisa, limitandosi a parlare di senatoconsulti e di plebisciti (in particolare di plebiscita de privilegio cuicumque concesso), proprio dall’anno 73 d.C. Vespasiano e Tito, censori, promossero una vasta operazione di revisione catastale in Italia e nelle province, liberando gli agri populi Romani occupati illegalmente dai privati ed effettuando un complessivo accertamento fondiario, finalizzato ad un più accurato sistema tributario e ad una più consapevole assegnazione delle terre pubbliche. Le iscrizioni ci conservano tracce di quanto avvenne sul terreno negli agri adsignati; moltissimi documenti bronzei furono raccolti a scopo fiscale soprattutto nel Sanctuarium Caesaris sul Palatino e nei tabularia.
Per entrare in un ambito ancor più specifico, voglio citare gli interventi di Adriano per reprimere sanguinosamente il tumultus Iudaicus in Cirenaica, per porre fine agli atrocissima bella, alla magna seditio o alla στάσις, definita Ίουδαικὸς τάρακος con M. Aurelio in occasione della ricostruzione del tempio di Zeus a Cirene. Conosciamo gli investimenti finanziari per il restauro degli edifici pubblici, l’esilio nelle isole più lontane degli ebrei, la deportazione di popolazione, talora obbligata, come per gli ebrei di Berenice e Cirene, protagonisti della rivolta a partire dagli ultimi anni di Traiano che provocò gravissimi danni, ai quali Adriano avrebbe posto rimedio: balineum / cum porticibus et sphaeristeris / ceterisque adiacentibus quae / tumultu Iudaico diruta et exusta / erant civitati Cyrenensium restitui / iussit. I Beronicenses di Bengasi furono allora condannati ad metalla e deportati in Sardegna come incolae peregrini nel municipio di Sulci, esclusi come in un ghetto dalla universae tribus dell’ordiamento municipale come in altre geografie della diaspora ebraica. In generale osserviamo le migrazioni, le difficili integrazioni culturali, il lento adattameno alle istituzioni locali. Né ignoriamo la violenza che spesso accompagnava il cambiamento di protagonisti e le mille forme di abolitio nominis e di damnatio memoriae, come l’erasione dei nomi di Commodo oppure di Geta e di tanti altri imperatori considerati indegni, la parziale reincisione, segni di scontri interni che hanno provocato massacri, uccisioni e morti, nascosti propagandisticamente sotto la Concordia, espressione in realtà di una profonda insanabile Discordia: possiamo seguire le tracce di una comunicazione strumentalizzata e distorta della memoria, in area urbana o rurale. Come dimenticare Plutarco a proposito del commento scritto cursivamente sul tempio della Concordia fatto costruire a Roma dal console Opimio dopo la morte di Gaio Gracco ? Ci rimane il testo di un commento epigrafico anonimo, ripreso da Plutaro: <<Ciò che indignò il popolo più ancora di tutto il resto fu la costruzione, da parte di Opimio, di un tempio alla Concodia: sembrava infatti che egli s’inorgoglisse, traesse vanto e, per così dire, celebrasse il trionfo per tante uccisioni di cittadini. Perciò alcuni scrissero di notte questo verso sotto l’iscrizione dedicatoria del tempio: “La Discordia ha edificato questo tempio alla Concordia”>> (ἕργον ἀπονοίας ναὸν ὁμονοίας ποιεῖ).
Allora dobbiamo riconoscere come la cultura classica abbia saputo guardare se stessa anche con ironia e criticamente, forse in qualche occasione ignorando i fanatismi religiosi, senza conoscere fino in fondo il male di quello che è il nazionalismo dei nostri tempi; e come essa oggi ci fornisca gli strumenti per un tempo nuovo fondato sulla tolleranza (che pure è mancata frequentemente nel mondo antico) e sul rispetto per gli altri, sul pluralismo e il valore delle diversità in un Mediterraneo dove il mare non sia più una frontiera, ma la piazza di un’interazione pacifica, per usare le parole di Edgar Morin, per il quale dobbiamo constatare che i futuri impensabili del nostro passato sono diventati ora futuri impensabili del nostro presente (Alfredo Cacopardo). Il tema che è emerso negli ultimi decenni è quello dell’interpretazione da dare alla fase tardo antica: tante scuole si sono alternate definendo il tema della caduta e della fine dell’impero romano, superando il teorema illuministico delle invasioni barbariche, alla luce delle nuove posizioni degli studiosi che preferiscono parlare di relazioni di lunga durata: così H. Wolfram sull’etnogenesi e W. Pohl sulle popolazioni germaniche; del resto vediamo che negli ultimi tempi viene abbandonato il cliché di un mondo assassinato dai barbari o dai cristiani, anzi si parla di un momento di democratizzazione tardo-antica che sarebbe stata favorita dalla Chiesa, che ha contribuito a migliorare la realtà sociale di un Mediterraneo tanto complesso: siamo convinti che occorre cambiare la percezione del mondo antico e i modelli interpretativi stessi della civiltà classica, spesso inadeguati, con la <<coscienza di una lontananza, di un distacco, che però ci interroga continuamente sul nostro presente>>. È la posizione che ci ha riproposto di recente Guido Clemente nella bella riedizione della Notitia Dignitatum appena pubblicata da Edipuglia, quello che nel lontano ‘68 è stato il mio primo libro di studente a Cagliari. Ancora oggi la cultura classica continua ad essere una componente fondamentale della cultura europea ma non solo. Dobbiamo riaffermare la necessità di leggere i testi nella loro lingua originale, perché la lingua non è tanto esercizio logico ma strumento di comprensione storica dei testi. Per l’impero romano, abbiamo la possibilità di cogliere delle costanti nelle linee di governo, nel dominio del territorio agrario, nella religione, nella comunicazione, nella cultura letteraria e artistica, nell’economia, della storia politica, istituzionale, amministrativa dall’Atlantico fino al Mar Nero con tradizioni, continuità, scambi: la complessità è un valore, il pluralismo un dato di fatto ormai acquisito. La possibilità di servirci in modo sempre più profondo della tecnologia digitale applicata dà oggi anche all’epigrafia la capacità di adottare punti di vista nuovi per leggere e penetrare il mondo antico con una maggiore conoscenza dei documenti, ad esempio raccogliendo proposte per integrare le lacune attraverso l’intelligenza artificiale, le banche dati informatiche, le nuove tecnologie digitali applicate ai beni culturali, la fotogrammetria, la computer vision, il trattamento delle immagini, la modellizzazione in 3D dei reperti tramite il Laser Scanner, il rilevamento dei siti archeologici, la collocazione dei reperti sul territorio tramite GPS, geo-referenziazione dei monumenti, sistemi informativi capaci di creare relazioni e di incrociale i dati, una nuova prospettiva anche per la presentazione museale dei testi. Penso al recente Arqueología y Téchne Métodos formales, nuevos enfoques, editado por José Remesal Rodríguez e Jordi Pérez González. Così avviene per l’archeologia, la numismatica, la papirologia, i tanti media che ci arrivano dal mondo antico, che si affiancano alla critica letteraria. Più di quanto non ci rendiamo conto cambiano i nostri metodi di studio giorno per giorno, assistiamo positivamente ad una forma di democratizzazione della cultura contemporanea, ad un radicamento che attraverso le scritture antiche ci mette direttamente in comunicazione col passato nelle più diverse latitudini, superando ormai la tentazione di costruire a posteriori categorie interpretative fondate su ideologie moderne che comunque spesso hanno pesantemente deformato i documenti. Anzi si è raggiunta la consapevolezza che esistono variabili geografiche e cronologiche nel momento in cui culture diverse entrano in contatto, sempre evitando di perdere la concretezza e di piegare il dato scientifico a schemi ideologici, riconoscendo la complessità e facendone una leva per leggere la realtà, al di là di facili periodizzazioni di comodo: la grande dimensione dell’impero, l’articolazione territoriale, i processi biologici, la presenza di aree marginali hanno avuto influenza sui linguaggi artistici, sulle scuole artigianali, sulle varianti linguistiche, attririttura sulla percezione del tempo che non dappertutto si misura allo stesso modo, nel rapporto tra otium e negotium. Il rapporto con altri imperi, come con Valeriano a Persepoli.
Noi epigrafisti siamo insieme storici e geografi: se è vero che l’inquietudine sul proprio mestiere deve sempre accompagnare gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi, se è vero che gli storici spesso si sono prestati a interpretazioni ideologiche che appaiono inadeguate e finiscono irrimediabilmente per invecchiare, gli epigrafisti possono avere uno sguardo più neutrale, con il vantaggio di raccogliere senza intermediazioni le opinioni, le emozioni, perfino le strumentalizzazioni che il mondo antico non ignorava, senza con questo ammettere a priori la neutralità di tutte le ricerche in corso; scavi, indagini in depositi, archivi, collezioni private, biblioteche, attentissime verifiche linguistiche, filologiche ed epigrafiche, fondate su un metodo che condividiamo tutti, quello dell’autopsia dei documenti spesso dispersi, della ricerca dei testi collocati in collezioni diverse o come le iscrizioni rupestri incatenate ad un territorio, ad un paesaggio e ad un ambiente, che ci consentono di cogliere in un modo sorprendentemente immediato quasi il clima, l'orizzonte culturale, il paesaggio, l'ambiente geografico dell'antichità, con una rafforzata capacità evocativa, perché anche la geografia è collocata nella storia, perché esiste un rapporto delle epigrafi con i luoghi, i territori, le genti. Si tratta di costruire assi di sovrapposizione e momenti di confronto. Le indagini storiche svolte con il gusto per l’esplorazione, per i viaggi, per l’esame autoptico dei monumenti e per le ricostruzioni topografiche. Per usare le parole di Marc Mayer lo sforzo dev’essere quello di concepire l’orizzonte epigrafico con una sensibilità nuova per l’aspetto topografico, che va oltre il singolo complesso monumentale per integrarsi in un paesaggio naturale. Del resto la molteplicità delle situazioni non può essere ricompresa in una formula: ci sono iscrizioni perdute, frammentarie, danneggiate dagli uomini dei nostri tempi o dei tempi passati, erase, opistografe, non più leggibili anche se in origine incise su materiale durevole destinato a durare per sempre, sul quale tante volte abbiamo teorizzato; non ci nascondiamo che esistono variabili indipendenti che obbligano a valutare la testimonianza delle epigrafi non solo incompleta, ma talora casuale, influenzata da molteplici fattori, da danneggiamenti come in Algeria nonostante la nomina del recente Conseil Consultatif du Patrimoine, scavi clandestini, conflitti, perfino dal caso. Eppure riaffermiamo la responsabilità dei singoli studiosi nello stabilire il testo, nel colmare le lacune, nel proporre confronti, con una maggiore o minore capacità di collegare spunti, idee, prospettive di ricerca, con un metodo che ha ormai caratteristiche di piena scientificità e che rende sempre più l’epigrafia una disciplina incardinata anche nell’ambito delle scienze sperimentali, per quanto radicata nelle scienze umanistiche, dunque avamposto delle humanities, al di là di ogni intellettualismo. I nostri colleghi sono specialisti sempre più determinati ad indagare il mondo antico con un approccio originale e non convenzionale, con la capacità di entrare in sintonia con realtà tanto complesse, col desiderio di applicare la critica testuale a documenti talora frammentari, ma che hanno il vantaggio di collegarci al passato senza filtri, con tante prospettive inattese, formulando mille domande alle quali non sempre è possibile dare delle risposte certe; con la passione per ricostruire le linee dell’acculturazione e della formazione dell’opinione pubblica: una disciplina la nostra che si allarga alla storia degli studi, all’indagine sociale, all’antropologia, alla demografia, alle relazioni con l’archeologia e con la storia dell’arte, con la papirologia e con la numismatica. Del resto più di mezzo secolo fa Karl Popper scriveva negli anni 50 che <<non ci sono discipline, né rami del sapere; o piuttosto, di indagine. Ci sono solo problemi e l’esigenza di risolverli>>.
Credo che gli epigrafisti abbiamo un orizzonte comune, quello di risolvere mille problemi di interpretazione di testi lacunosi, estrapolati da un contesto, con molti sottintesi. Mi ha sorpreso come trent’anni fa, celebrando i cinquant’anni di Epigraphica, Giancarlo Susini avesse ben chiaro il ruolo innovativo dell’epigrafia tra le discipline classiche, nei tempi nuovi che già si profilavano all’orizzonte, quelli dei social, dei messaggi rapidi e concisi, delle immagini: <<l’epigrafia come scienza dell’acculturazione, di interprete dei processi anche periferici tra scrittura e lettura, di storia dei momenti civili dello sviluppo culturale>>. E, guardando al futuro: <<Come si esprimeranno “epigraficamente” gli uomini del futuro ? Forse, mi vien fatto di supporre, esisteranno meno lapidi gloriose, invece più messaggio baluginanti (in connessioni diverse con il linguaggio delle immagini, quindi in sintonia con gli schermi). Forse scriveranno di meno nelle epigrafi (cioè in pubblico e con intenzioni durevoli) le strutture statuali; scriveranno di più gli uomini associati nelle fedi, nelle clientele, nelle imprese. Forse saranno sempre più i protagonisti del potere a gestire il sapere pubblico>>. Quasi una profezia se consideriamo il ruolo dei social oggi per formulare denunce incisive, giudizi stringati, informazioni fulminanti, con uno sforzo di sintesi, basato su abbreviature e convenzioni comuni che vengono da esperienze ben più profonde.
In generale il patrimonio culturale rappresenta una risorsa, <<ha un valore intrinseco, è una componente essenziale per lo sviluppo umano e svolge un ruolo fondamentale nel favorire la resilienza e la rigenerazione delle economie e delle nostre società… è la base per rilanciare la prosperità, la coesione sociale e il benessere delle persone e delle comunità>>. I Ministri della cultura del G20 nei mesi scorsi riuniti a Roma hanno chiesto <<la protezione del patrimonio culturale, la condanna del traffico illecito dei BBCC, riconoscendo che tutte le minacce alle risorse culturali, compresi il saccheggio e il traffico illecito di beni culturali… la distruzione o l’uso improprio del patrimonio culturale … lo sviluppo urbano e regionale incontrollato, il degrado ambientale, … possono portare alla perdita di beni culturali insostituibili. Questo sconvolge le pratiche socio-culturali, violando i diritti umani e culturali dei popoli e delle comunità, colpendo la diversità culturale e privando le persone e le comunità locali di preziose fonti di significato, identità, conoscenza, resilienza e benefici economici. Di conseguenza occorre riconoscere la cultura e la creatività come parte integrante di agende politiche più ampie, come la coesione sociale, l’occupazione, l’innovazione, la salute e il benessere, l’ambiente, lo sviluppo locale sostenibile e i diritti umani. Convinti che la cooperazione e il dialogo siano vitali nella lotta contro l’estremismo violento, i Ministri dei 20 paesi hanno espresso la più forte condanna della distruzione deliberata del patrimonio culturale tangibile e intangibile, ovunque essa avvenga, poiché colpisce irreversibilmente le identità delle comunità, danneggia i diritti umani, cancellando le eredità del passato e danneggiando la coesione sociale. È necessario sostenere le iniziative intraprese per proteggere il patrimonio culturale in pericolo e ripristinare il patrimonio culturale distrutto o danneggiato. Nonostante l’impegno dell’UNESCO assistiamo al crescente saccheggio, al traffico illecito di beni culturali, alle minacce alla proprietà intellettuale, anche attraverso piattaforme digitali e sociali, ad altri crimini organizzati commessi a livello globale contro il patrimonio culturale e le istituzioni culturali. I Ministri hanno chiesto alla comunità internazionale di adottare misure forti ed efficaci, riconoscendo che il traffico illecito di beni culturali e le minacce alla proprietà intellettuale sono gravi crimini internazionali che sono collegati al riciclaggio di denaro, alla corruzione, all’evasione fiscale e al finanziamento del terrorismo, e che inoltre incidono fortemente sull’identità culturale di tutti i paesi; hanno raccomandato la creazione di unità di polizia specializzate e banche dati di oggetti culturali rubati, aggiornate e interconnesse con INTERPOL, così come le organizzazioni doganali dedicate, per sostenere meglio le indagini transnazionali e il perseguimento dei reati di proprietà culturale e intellettuale>>.
Sul piano strettamente geografico, l'epigrafia può essere anche un marcatore territoriale significativo: essa testimonia in alcune province ma anche in alcuni regni o in territori collocati ai confini rapporti inattesi ed una presenza che va ben al di là dei fines, del mondo conosciuto: penso al Corpus Inscriptionum Regni Bosporani, Moskau 1965, con i nomi di località che ormai ci sono noti, Cherson alla foce del fiume Dnepr sul litorale del Mar Nero a occidente della Crimea, l’antica Chersonesus Taurica (82 testi), Phanagoria presso Sennoy nel Krasnodar Krai, in Russia (un testo greco, quello del βα[σιλεὺς μέγας Τιβέριος Ἰο]/[ύλιος Σα]υρομάτης υἱὸς βασ[ιλέως Ῥησκουπόριδος φι]/[λόκαισαρ] καὶ φιλορώμαιος εὐσ[εβής ἀρχιερεὺς τῶν Σεβ]/[αστῶν διὰ β]ίου καὶ εὐεργέτης [τῆς πατρίδος καὶ κτίστη]) e Panticapeo oggi Kertsch sulla penisola di Taman (8 testi, tra i quali la dedica posta dalla colonia Iulia Felix Sinope per il Rex Ti. Iul. Sauromatem tra il 92 e il 124. E poi soprattutto Sebastopoli (Sewastopol, nella Crimea Sud Occidentale), con le sue 135 testimonianze epigrafiche, le sue dediche IOM Conservatori e Dolicheno, a Mercurio, a Ercole, a Vulcano, Sabazio, Nemesi conservatrix, Mitra, i suoi diplomi come nel 157 al marinaio di Olbìa oggi Parutyne, le iscrizioni imperatorie come per i Severi o per i vicennalia di Costante nel 343 a Panticapaeum, quelle militari come quelle dei legionari dell’XI Claudia, della I Italica, della V macedonica, dopo Diocleziano della II Erculea dell’esercito Mesico inferiore, con questa mobilità che è tipica degli eserciti in marcia, le coorti Cilicum, Bracaraugustanorum, Lucensium, Thracum, Cypriae, Hispanorum, le vexillationes anche della flotta di Ravenna, i marinai della classis flavia moesiaca. Oppure a Cherson la bilingue della vexillatio Chersonessitana in un decreto militare.
Mi sono chiesto tante volte se gli avvenimenti militari dell’oggi cambino la percezione stessa del mondo antico; soprattutto se riducano oppure amplino la documentazione che ci è pervenuta. È possibile che la caduta del muro di Berlino abbia inciso in qualche modo sulla recente moltiplicazione del numero dei diplomi militari romani che fino al supplemento di CIL XVI curato da H. Nesselhauf tra il 1936 e il 1955 non erano più di 169; il numero si era già notevolmente allargato nel 1978 con la pubblicazione del I volume di Margaret M. Roxan, poi nel 1985, 1994, 2003 con Paul Holder, infine nel 2006. Oggi l’Epigraphik-Datenbank Clauss / Slaby conta (il 20 marzo 2022) su 532 mila iscrizioni, ben 1246 diplomi, metà dei quali, 670 di provincia incerta e da località incerta; si segnala l’alto numero di diplomi provenienti dalle province renane e danubiane, ben 422: tra essi i 116 dalle Pannonie, gli 81 dalle Mesie, i 77 dalla Rezia, i 28 dalle Germanie, i 68 dalla Dacia, fino al Regno del Bosforo (2); solo 4 dalla Siria, 7 dal Barbaricum. Tra questi vorrei citare almeno i diplomi provenienti dalle Regioni transdanubiane dell’Ungheria: più precisamente dal territorio degli Azali (tra il Danubio e il lago Balaton a N del Caspio) proviene il diploma studiato da Lőrincz dell’ex pedite della cohors II Alpinorum Tertius Dasentis filius Azalus. Evidentemente il veterano è tornato in patria, Dunantul. Un marinaio, un ex gregale era Niger Siusi f. Azalus, del diploma di Arrabona, che si è spostato in area transdanubiana nel 161 dopo il congedo. Si può anche citare il supplemento al RIU, quello dedicato da P. Kovács a oltre duecento iscrizioni ungheresi, Tituli Romani in Hungaria reperti, 49 dei quali trovate nel Barbaricum Sarmaticum, con 47 inediti: il recente lavoro di Ionut Acrudoae ha dimostrato l’arruolamento di molti milites-nautae non provinciali, esterni alla Pannonia.
Si segnala la clausola a favore dei liberi decurionum et centurionum item caligatorum quos antequam in castra irent procreatos, dunque nati prima che il padre caligatus (soldato semplice) prendesse servizio: la si trova in due diplomi da località sconosciuta per un marinaio e per un ausiliario (AE 2013, 1216), ma anche a Carnuntum e Volubilis sempre alla metà del II secolo.
I diplomi sono i marcatori territoriali più significativi, se arrivano già con Traiano fino all’Irlanda, affiancandosi spesso come è naturale all’instrumentum, ai prodotti di importazione, alle monete ben al di là dei confini dell’impero. Dati che abbiamo incrociato con l’Epigraphic Database Heidelberg e con i molti altri repetori che oggi ci consentono di sovrapporre la geografia antica e la geografia moderna: in EDR Roma i diplomi sono 36. Voglio commentare brevemente almeno la situazione delle province danubiane, presentta al Convegno di Vienna Ad ripam fluminis Danuvi: un importante numero di nuovi diplomi conosciuti dal 2000 al 2015 (oltre 50 rispetto ai 31 conosciuti in precedenza) ci provengono dalle Mesie, tempestivamente pubblicati in modo davvero apprezzabile su “Chiron” da P. Weiss, W. Eck, A. Pangerl: di essi 26 sono riferiti alla Mesia Superiore, 25 alla Mesia Inferiore. Un significativo aggiornamento dei RMD con precisazioni e rettifiche sulla consistenza dell’esercito del Norico è stato effettuato dopo le scoperte di Lauriacum, Porgstall an der Erlauf in Bassa Austria. Nello stesso periodo sono venuti alla luce dodici nuovi diplomi relativi all’esercito della Pannonia, 5 alae e 13 coorti. Ci sono molti casi che andrebbero richiamati, come quello di Cornacum che ricorda due consoli fin qui sconosciuti: Euphrata et Romano coss., un 7 settembre tra il 192 ed il 206, diploma concesso all’ex gregale (un marinaio della flotta) Priscinus Prisci f. Priscus ex Pan. Inf. Iatumentianis e ai figli. Egli era originario di un villaggio sconosciuto della Pannonia Inferiore, Iatumentianae.
Dovremmo allora discutere sulla singolarità di queste nuove conoscenze, così squilibrate sul piano geografico: ne ho discusso con Yann Le Bohec e possiamo concordare che la caduta del muro di Berlino e la fine della DDR è stato forse uno dei fattori che hanno pesato, aprendo un mondo nuovo; certo la scomparsa dell’URSS ha ridotto i controlli e ha fatto emergere e reso redditizia l’attività dei clandestini per esempio in alcuni paesi, come in Bulgaria; in alcuni paesi sono stati aperti ora molti scavi non ufficiali. La moltiplicazione delle scoperte si spiega con un evidente allentamento del controllo pubblico sul patrimonio: allora le selvagge attività di tombaroli e di scavatori clandestini accanto all’uso del metal detector, al moltiplicarsi degli scavi clandestinti, all’allargarsi del mercato antiquario, appare evidente che la società post-comunista ha dato impulso alle ricerche archeologiche, talora senza che si fosse affermato un quadro di norme rigorose e severe: e ciò al solo scopo di produrre ricchezza. Con ciò non voglio affatto sostenere che le maglie dei controlli anche in Italia o in Francia non siano state spesso troppo larghe e violate.
L’uso del metal detector spiegherebbe anche in parte, per esempio, la scoperta in Betica di alcune leggi municipali, numerose e dettagliate rispetto al migliaio di leges epigrafiche conosciute: siamo rimasti impressionati al Convegno AIEGL di Barcellona del 2002, quando abbiamo visitato la mostra Scripta manent, sui grandi bronzi iberici, tra i quali la lex Irnitana, studiata a partire dal 1984 e la lex Ursonensis dal 1951.
Ma il tema in realtà è quello degli orizzonti nuovi, delle intuizioni e delle piste interpretative che si propongono attraverso i BIG DATA, le nuove banche dati come per le anfore dal database del CEIPAC oppure quell’Atlas patrimonii Caesaris arricchito da atlanti storici che testimonia una disomogenea distribuzione delle proprietà imperiali, in Africa come in Asia spesso più consistenti nelle aree rurali, presso le miniere e le cave ma anche nelle aree abbandonate, comunque a distanza dai principali contesti urbani dove esistevano meno difficoltà ad alienare i beni pervenuti al fiscus, come ha recentemente osservato a Milano Alberto Dalla Rosa. Il problema che abbiamo di fronte oggi è quello della rappresentatività dei dati : pensiamo ad esempio ai circa 800 termini conosciuti (ben 226 in Siria, 51 tra Mesia e Tracia, una ventina nelle province asiatiche, 50 nelle province africane, 46 nelle province iberiche, 17 nelle province galliche) oppure dagli oltre 8000 miliari stradali, che arrivano a quasi 200 in Sardegna ed a tre soli in Sicilia, nessuna attestazione in Corsica; in totale in EDR Roma in Italia 603 cippi miliari, anche se ne mancano ancoa molti da inserire; per non dire dei 1600 miliari delle province africane, dei 1500 miliari delle province iberiche, degli 800 miliari delle province germaniche e galliche, dei 500 miliari delle province danubiane. Sono state tentate le più diverse spiegazioni, ma l’impressione è quella di una eterogeneità e di una diversità di base fondata certo sulla presenza di tradizioni locali, sulla dislocazione dei reparti militari, sulla profondità della penetrazione e dello sfruttamento agricolo, sui commerci, sulla presenza di cave lungo i percorsi, viceversa in Sicilia sull’abbondanza di legname; non è escluso che possa aver pesato il fattore cronologico, l’epoca più precoce della realizzazione di strade militari; eppure non possiamo toglierci dalla testa l’idea che la storia successiva del territorio a causa di fattori naturali o artificiali, lo spopolamento, il paludismo, l’abbandono delle terre da una parte, il mercato antiquario o la speculazione edilizia in tempi moderni dall’altra abbiano pesato nel tempo per modificare profondamente la quantità di reperti che ci sono pervenuti e di conseguenza la percezione stessa che noi abbiamo oggi del mondo antico. E ciò avviene anche quando gli studiosi allargano l’indagine alle fonti geografiche, all’Itinerario Antoniano, ad altri Itinerari terrestri, gli scavi archeologici, la localizzazione dei ponti e delle infrastrutture stradali. Le questioni si moltiplicano quando si passa alla documentazione sacra, alla localizzazione dei grandi santuari regionali, al mondo della magia, alle defixiones: perché le 810 defixiones sono distribuite in modo così singolare ? 174 in Britannia, 116 in Africa Proconsolare, 65 dalle Germanie, 69 dalle province galliche, 45 dalle province iberiche ? In EDR Roma 142 defixiones in Italia, anche se l’attività è tuttora in corso; Celia Sánchez Natalías nella Sylloge della sua comprehensive collection appena pubblicata nei BAR calcola per l’Occidente Europeo 535 defixiones, ben 255 per la sola Britannia. Ci sono evidentemente elementi profondissimi che spesso ci sfuggono del tutto e che non erano chiari neppure agli antichi. Restano sullo sfondo molti punti interrogativi, molte questioni aperte, molte incertezze che non abbiamo l’ambizione di superare in questa sede.
Se restiamo dentro l’impero, possiamo verificare in generale una romanizzazione non omogenea e discontinua nel territorio che riflette livelli di alfabetizzazione diversi e attesta profonde differenze culturali, a seconda della distanza dalle coste, dell’altitudine, dell’orografia, della presenza di altri codici linguistici, accanto al latino e al greco. L'epigrafia fu un fatto prevalentemente urbano, anche in relazione ad una migliore conoscenza nelle città della lingua latina e greca, rispetto alle aree marginali portatrici di culture locali: un peso ebbero anche la presenza di immigrati italici nelle città portuali, l'attività di una vera e propria burocrazia impegnata nell'amministrazione provinciale e cittadina, il soggiorno di personaggi incaricati dello sfruttamento del suolo e del sottosuolo, specie nelle zone minerarie, la dislocazione dei reparti militari, la stessa distribuzione sul territorio delle officine epigrafiche, anche la disponibilità pratica di scuole. La “densità epigrafica” di un territorio è in rapporto con la diversa distribuzione delle iscrizioni, con particolare riguardo per le zone isolate, interne e montagnose, dove era in genere insediata una popolazione locale talora ostile agli immigrati italici, a quel che pare non sempre interessata a superare i limiti di un millenario analfabetismo, ovviamente con la variabile diacronica. In Sardegna significativo appare il dato che riguarda il numero di iscrizioni in relazione alla distanza dal mare, soprattutto se si tiene presente che attualmente i comuni sardi sono distribuiti in modo omogeneo in una fascia che dista tra 0 e 60 km. dal mare. Circa il 70% delle epigrafi proviene da un territorio collocato in una fascia che dista in linea d'aria un massimo di 5 km. dalla costa (956 su 1329); l’instrumentum per l’86% (539 su 627) si concentra entro la stessa fascia; in relazione all' altitudine è noto che i 377 comuni sardi sono attualmente distribuiti in modo omogeneo tra 0 e 600 m. sul livello del mare; viceversa, il 68% delle iscrizioni latine proviene da località comprese fra 0 e 50 metri sul livello del mare (956 su 1329), anche se poi le attestazioni su fasce di altezza più elevate (fino a 100 m) si distribuiscono più gradualmente rispetto al dato della distanza dal mare, forse a dimostrazione di una parziale occupazione dei siti collinari, vicini alla costa: si deve concludere che è l'area pianeggiante costiera ad aver conservato la gran parte delle iscrizioni latine e dell' instrumentum, mentre la Barbaria interna ospita prevalentemente documenti emanati dal potere centrale, sentenze del governatore, cippi di confine collocati per contenere il nomadismo delle tribù indigene, miliari stradali, epitaffi di ausiliari presso i diversi accampamenti, diplomi militari rilasciati ai soldati che, è lecito supporre, sono tornati ai luoghi di nascita terminato il servizio di ferma, infine anche dediche ufficiali effettuate dai magistrati provinciali o da procuratori imperiali. Per il resto dalle zone interne e marginali della Sardegna provengono alcune decine di iscrizioni funerarie, che si caratterizzano per un aspetto rozzo nel supporto prodotto di un artigianato locale, nell'incisione e nella forma delle lettere, nell'iconografia funeraria, nel formulario, nei contenuti, esito di una vera e propria “scuola” artistica locale: osserviamo il costante utilizzo della pietra locale (graniti, trachiti, anche basalti; mai marmi); l'incisione delle lettere poco marcata, un ductus approssimativo e rozzo, un'onomastica spesso con caratteristiche di spiccata non romanità, i contenuti non tutti sicuramente comprensibili.
La diffusione della lingua latina appare tavolta in concorrenza con altri codici linguistici, quelli indigeni innanzi tutto, ma anche quello punico, quello greco come la trilingue di San Nicolò Gerrei riemersa in questi ultimi mesi nelle nuove sale dei Musei Reali di Torino (CIL X 7856, IG XIV 608, CIS I 143) ; in oriente quello nabateo ad esempio o quello greco-palmireno o le trilingui greco-latino-palmirene del Museo di Palmira studiate di recente dall’Union Académique Internationale per i Fontes Historiae viae Sericae a cura di Samuel N.C. Leu, in parte emendato ora da Stefano Magnani ad es. per la nota bilingue del 146 d.C. con il richiamo da parte del demos di alcuni documenti come le epistulae imperiali del divo Adriano e del θειότατος Α[ὐ]τοκράτωρ Ἀντωνεινος per Publicio Marcello.
Le iscrizioni hanno seguito le nazioni europee, con gli stati dai confini spesso arbitrari: consentitemi un’incursione nel mare magnum delle lettere di Theodor Mommsen, per ricordare la recente uscita del carteggio Ettore Pais - Theodor Mommsen curato da Antonio Cernecca e Gianluca Schigno e la posizione Theodor Mommsen (ostile all’italianità di Trieste come ha già notato Gino Bandelli), che nel 1882 avrebbe voluto limitare il viaggio epigrafico in alta Italia di Ettore Pais ai confini italiani del tempo, escludendo così i territori di Aquileia, Trieste e dell’Istria, posti sotto il controllo austriaco. Sull’altro versante analogo è il caso delle Alpes Maritimae. Lascerei da parte in questo momento la lunga fase coloniale piena di strumentalizzazioni come a Cartagine che in qualche modo è continuata nel tempo, come con l’enfasi sui privilegi dell’arcivescovo di Cartagine, primo in tutta l’Africa; temi che possiamo richiamare attraverso la riscoperta delle rovine archeologiche, delle iscrizioni, dei monumenti avvenuta nell'Ottocento al seguito degli eserciti coloniali. con l'obiettivo romantico di ripercorrere le strade di una civiltà perduta, di ritrovare le radici dell'anima europea del Nord Africa o dell’Oriente travolto dagli Arabi, come testimonia in Algeria la statua moderna di Constantino oppure a Kenchela a venerazione per la statua della regina berbera Kahina. Del resto ancora ai nostri giorni l’attualità è presente nell’attribuzione a questo o quel paese alcune località antiche: conosciamo bene le incertezze nei confini tra le Inscriptiones Italiae e le ILJug., per non parlare della Bosnia, ma si tratta di un discorso davvero più generale.
Dovevano essere parlate, almeno nelle zone periferiche, in aree interne e montagnose, lingue locali che hanno avuto una qualche influenza anche sull'evoluzione del latino volgare, che ivi assunse caratteristiche particolari. Più precisamente alcuni tratti del vocalismo e del consonantismo latino volgare, una serie di particolarità morfologiche e sintattiche e soprattutto le singolari corrispondenze nel lessico, forse per l'influenza del sostrato, hanno consentito di accertare che erano numerose e significative le affinità della lingua parlata in province diverse.
Dunque la Geografia nel suo rapporto con la Storia, come ad es. a proposito della proposta di collocazione del Pagus Veneriensis in rapporto a Sicca Veneria: il tema dei confini sarà trattato in una sessione di questo XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae ed è stato oggetto di moltissimi studi, come quelli sulle barriere culturali, il rapporto coi diversi, tra Romanitas e Barbaritas, nel confronto con le exterae gentes, le nationes, i populi. Elementi che riemergono nella cartografia medioevale, con mille eredità nella definizioni dei confini catastali, tra regni medioevali, tra diocesi, tra città, tra province, tra regioni, che investono la lenta agonia delle grandi proprietà dell’età romana, sempre con la preoccupazione di evitare contestazioni, di anticipare la possibilità che le delimitazioni, i cippi oppure i termini, possano essere abbattuti o spostati, come quando gli agrimensori nella loro attività di terminare si spostano sul territorio e descrivono in stile narrativo un fiume, un monumento preistorico, un mausoleo, una roccia, delle pietre inscritte. Conosciamo l’attività degli agrimensori militari, gli “arpenteurs”, come il mens(or) lib(rator) M. Troianius M.f. Marcellus originario di Lucus Aug(usti) in Narbonese della decima corte pretoria, inteso da G. Chouquer e F. Favory come “mensureur et niveleur”: morto giovane, dopo 5 anni di servizio, sapeva calcolare le distanze attraverso un decempeda, una bastone usato per misurare l’accastamento lungo 10 piedi come quella che compare nel monumento di T. Statilius Aper. Conosciamo altri mensores agrari civili come a Cartagine il servo imperiale Didymus, che Lassère considera addetto al servizio del proconsole e non della colonia, con le implicazioni sottintese sul rapporto tra agri adsignati, proprietà imperiali, latifondi non sottoposti a centuriazione, coi rispettivi vectigalia. Libertini ha recentemente osservato che la parola pertica, oltre che la misura di lunghezza, indicava anche il bastone usato per misurare le parcelle catastali, ma pure l’insieme delle terre oggetto di una limitatio e la mappa di una limitatio, sinonimo di forma.
Pierre Salama ci ha insegnato che <<la civilisation de Rome a pu etre qualifiée de routière>>, Jean-Marie Lassère ha messo in evidenza il marchio dell’autorità imperiale sul paesaggio trasformato dall’uomo nel tempo, tanto che possiamo affermare che quella romana fu davvero una <<civilisation cadastrale>>, che già secondo R. Chevallier ha avuto un’influenza sulle persone, ha forgiato le mentalità civiche, partendo dall’intreccio della geografia con la religione, perché rimane sul fondo una ritualità indispensabile per garantire il favore divino. E ciò fin dai tempi lontani del pomerio romuleo dell’urbs, progressivamente ampliato in parallelo con i fines dell’orbis. E pomerium, ci ricorda Gell 13 14 1: est locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus certeis determinatus, qui facit finem urbani auspicii”; Varr ling Lat 5 143: qui (sc. Orbis, urbis principium), quod erat post murum, postmoerium dictum eo usque auspicia urbana finiuntur.
Vorrei ricordare l’espressione dei cippi del Monte Testaccio o della Via Flaminia posti da Claudio nella sua IX potestà tribunicia, nel 49 d.C., là dove finiva la città: auctis populi Romani finibus, pomerium ampliavit terminavitque, dove viene istituita una relazione immediata tra l’operazione di augere i fines e quella di ampliare e terminare il pomerium. Allo stesso modo Vespasiano e Tito ce lo ricordano in sempre al Testaccio: auctis p(opuli) R(omani) finibus pomerium ampliaverunt terminaveruntq(ue). Proprio Vespasiano nella lex de imperio ricordava il potere dell’imperatore uti ei fines pomerii proferre promovere, come era stato lecito a Claudio. Del resto esiste un collegamento tra lo spazio dell'orbis e quello dell'urbs, che quasi lo sintetizza; Costantino a Napoli è liberator urbis terrarum (CIL X 6932); Costanzo II è Restitutor urbis Romae adque orb[is] et extinctor pestiferae tyrannidis di Magnenzio. Ma l’imperium sine fine nel tempo e nello spazio promesso da Giove ai Romani (His [Romanis] ego [Iuppiter] nec metas rerum nec tempora pono: imperium sine fine dedi», Verg., Aen. I 279), non avrà confini, se non indefiniti nello spazio. Cecilia Ricci ha studiato in passato nel volume Orbis in urbe i fenomeni migratori nella Roma imperiale, dandoci l’idea di una capitale cosmopolita o all’opposto di un mondo sintetizzato nell’urbe, ἡ κυρία τοῦ κόσμου Ῥώμη a Puteoli, ricca di relazioni, spesso capace di accogliere l’altro, di preservare identità plurali, attraverso gli spazi, i luoghi di abitazione, di esercizio delle professioni, dell’organizzazione sociale, la lingua, l’onomastica, le pratiche cultuali. Ne è rimasta testimonianza nelle Formae urbis antiquae, le mappe marmoree di Roma tra la repubblica e Settimio Severo, di cui al volume di E. Rodríguez-Almeida del 2002, con l’enfasi imperiale mussoliniana che si allarga all’orbis, al mare nostrum, un’espressione che continuerà ad essere odiosa anche in futuro <<per il suo senso proprietario>> – secondo Franco Cassano – se non la declineremo al plurale e contemporaneamente in varie lingue. Il bellissimo templum Pacis accoglie con Severo la nuova forma urbis: il complesso aveva ospitato i cimeli della guerra ebraica arrivati da Gerusalemme come il candelabro a sette braccia in una sorta di evocatio fallita del dio degli ebrei; sull’arco di Tito è rappresentata la scena della pompa trionfale coi fercula accompagnati dai relativi tituli sorretti da lunghe pertiche, con un evidente intento didascalico, come negli spettacoli anfiteatrali.
Se il punto di osservazione viene rovesciato dall’urbs all’ orbis Romanus o addirittura al mondo intero all’orbis terrarum o all’οίκουμένη e al κόσμος si pongono problemi ancora più complessi e difficili, che considerano guerre e conflitti ma anche le continuità, le rotture, i contatti, che consentivano di superare nazionalismi e identità locali, di procedere ad un’integrazione, fino ad arrivare a quella che oggi chiamiamo la globalizzazione, disturbando il libro postumo di Marshall Mac Luhan, “the global village”. In questo quadro alcuni percorsi ci possono davvero guidare: il tema dell’epigrafia latina del Barbaricum è solo una delle piste per definire le strade attraverso le quali ormai possiamo accogliere un ripensamento non banale ad es. sulla fine dell’impero romano, superando il teorema illuministico delle invasioni barbariche.
Essenziali ci sembrano gli aspetti spaziali del potere, precocissimi ed introdotti già nel titolo stesso della Regina inscriptionum, le RGDA, quibus orbem terra[rum] imperio populi Rom(ani) subiecit, tema completamente obliterato nel titolo greco leggibile ad Ancyra, espressione quello latino di una evidente retorica propagandistica. Ma già il titolo esprime l’ammirazione per un impero universale visto in positivo, come quello di Alessandro Magno che coincide con il mondo conosciuto, un modello che riemerge di tempo in tempo. Sempre nelle RGDA vd. il cap. 3, dove Augusto esalta le guerre combattute toto in orbe terrarum, in greco [κατὰ γῆν] καὶ κατὰ θάλασσαν sempre riferendosi all’impero romano: più in dettaglio il primo imperatore si vanta al cap. 26: com[plu]ra oppida capta in Aethiopiam usque ad oppi/dum Nabata perventu[m] est cui proxima est Meroe in Arabiam usque / in fines Sabaeorum pro[ces]sit exercitus ad oppidum Mariba. Veramente fino alla fine del mondo. Del resto il modello ideale propagandistico non viene abbandonato dai successori, neppure da Costantino nella seconda Roma e, dobbiamo constatare con qualche emozione, fino ai nostri giorni permane un disegno imperiale che in qualche modo ancora sopravvive a Mosca “terza Roma”.
Esiste poi un altro aspetto, quello della durata nel tempo del potere imperiale, che è naturalmente connesso con lo spazio, ancora una volta già con Augusto che conosce l'assimilazione a Dioniso e ad Eracle, nel quadro dell'aeternitas, la durata infinita nel tempo della Fortuna, una virtù. che avvicina il principe a Giove.
In questo momento di guerra in Europa come potremmo non pensare al Mare d’Azov, al lago Meotide ? Ed a Phanagoria sul lato orientale del Bosforo Cimmerio nella penisola di Taman oggi nella Federazione Russa: qui nel 7 a.C. la βασίλισσα Δύν[αμις φιλορώ]μαιος si rivolge ad Augusto Αὐτοκράτορα Καίσαρα θεοῦ υἱὸν Σεβαστὸν, chiamandolo τὸν <π>άσης γῆς καὶ [πάσης] θαλάσσης ἄ[ρχ]οντα, in quanto τὸν ἑαυτῆς σωτ[ῆρα καὶ εὐ]εργέτη[ν]. Gli ultimi scavi – pubblicati recentemente da Askold I. Ivantchik di Ausonius e da Sergey R. Tokhtas’ev dell’Accademia Russa delle Scienze hanno consentito di precisare il ruolo di questa regina nella promozione del culto di Augusto associato ad Apollo. Sullo sfondo il Bosforo Cimmerio, il Caucaso, la conquista romana, l’occupazione da parte di Pompeo Magno del Ponto, gli accordi di Augusto signore del cielo, della terra, del cosmo con la Regina Δύναμις φιλορώμαιος, anticipano la translatio imperii da Roma a Costantinopoli e da Costantinopoli a Mosca “terza Roma”, ma insieme testimoniano una dimensione geografica che è anche culturale dell’aggregazione del Ponto Eusino al Mare Nostro.
E a Myra in Licia Agusto negli anni precedenti alla morte di Agrippa (18-12 a.Cr.) è invocato come ὁ εὐεργέτης καὶ σωτῆρ τοῦ σύμπαντος κόσμου (Θεὸς Σεβαστός, αὑτοκάτωρ γῆς καὶ θαλάσσης ; Agrippa compare eccezionalmente con i titoli di εὐεργήτης καὶ σωτῆρ τοῦ ἔθνους). Il titolo, se pure non ufficiale, riemerge un secolo dopo per Adriano: Ὀλ̣υμπίωι, σω[τῆρι τοῦ] σ̣ύμπαντος κόσμου κα̣ὶ̣ [τῆς] π̣ατρίδ[ος, τῆς] π̣όλε[ως] Φα̣σηλιτῶν, Phaselis di Lycia nel 131 d.C.
Queste sono le naturali premesse per il rarissimo titolo di κοσμοκράτορες portato nella stessa regione da Diocleziano e dai tetrarchi alla fine del III secolo nella dedica effettuata [ὑ]πὲρ ὑγεία[ς κα]ὶ νεί[κης τῶν κ]υρίων κοζμοκρατ[όρων {κοσμοκρατόρων} ἀνικ]ήτων da parte del δήμ[ος Καλ[λ]ατιανῶν, a Kallatis (Mangalia sul Mar Nero in Dobrugia) in Scizia minore. Del resto, in oriente κοσμοκράτορες era stato già assegnato a Marco Aurelio e a Lucio Vero nel 164-166, a Ruwwafa, nell’Arabia pre-islamica (a E di Sharm El Sheik) nell’iscrizione studiata da J.T. Milik e G.WQ. Bowersock, collocata ὑπὲρ αἰονίου διαμονῆς κρατήσεως τῶν ϑειτάτων κοσμοκρατόρων (con la traduzione in nabateo, resa da Milik: <<Pour le salut des maîtres du monde entier>>, M. Aurelio e L. Vero Armeniaci). La regione direttamente collegata al Mar Rosso era abitata dai Thamudeni del popolo dei Nabatei, entrata con Vespasiano nella provincia d’Arabia. Si conosce bene lo sforzo di Traiano di estendere l’impero, secondo le linee studiate recentemente da Michael Alexander Speidel, Armenia et Mesopotamia in potestatem populi Romani redactae. L’attributo cosmoratico è assegnato anche a Caracalla φιλοσάραπις l’11 marzo 216 ad Alessandria d’Egitto, τὸν κοσμοκράτορα Μ(ᾶρχον) Αὐρ(ήλιον) Σεουῆρον Ἀντωνῖνον Germanico Massimo, τὸν φιλοσάραπιν , accompagnato da Giulia Domna: è un testo che mette in rapporto il principe col culto di Serapide. In una epigrafe opistografe urbana il titolo di κοσμοκράτωρ portato in origine da Zeus Serapide Elios, forse dopo la morte di Caracalla nel 217 è stato attribuito a Mitra: εἷς Ζεὺς Σάραπις Ἥλιος κοσμοκράτωρ ἀνείκητος. Infine Gordiano III tra il 238-244 a Portus, Ostia, in un’iscrizione dedicata al proprio benefattore dai cittatini di Gaza in Palestina τὸν θεοφιλέστατον κοσμοκράτορα: ἡ τῶν Γαζαίων ἱερὰ καὶ ἄσυλος καὶ αὐτόνομος, πιστὴ <καὶ> εὐσεβὴς, λαμπρὰ καὶ μεγάλη, ἐξ ἐνκ<ε>λ<ε>ύσεως τοῦ πατρίου θεοῦ.
Un momento particolare è quello di Costantino: a Philadelfia in Lydia (oggi Alaşehir) dopo il 323 d.C., [τὸν γῆς καὶ θαλάσ]σης καὶ παντὸς τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους δεσπότην. Il concetto va precisandosi con gli imperatori successivi e si sviluppa appunto nel IV secolo, quando si amplia enormemente il riferimento all’aeternitas, la durata nel tempo che si aggiunge all’estensione nello spazio del potere imperiale : così ad Uchi Maius in modo quasi euforico (anche se paradossalmente a pochi decenni dall’evacuazione della Dacia) Costantino è perpetuus semper Augustus, in un’iscrizione dedicata [d]omino triumphi, libertatis et nostro, restitutori invictis laboribus suis privatorum et publicae salutis; a Thamugadi semper et ubique victor; oppure a Roma dopo il secondo trionfo in Campidoglio: restitutor humani generis propagatori imperii dicionisq(ue) Romanae, fundator etiam securitatis aeternae. Ma già Massenzio si era fregiato dei titoli di invictus ac perpetuus semper Augustus (Reggio Calabria). A titolo esemplificativo: omnia maximus victor ac triumfator semper et ubique victor (Hierapolis, Valentiniano); a[uc]toritate praeci[pua] Romani status ac libertatis propagator semper et ubique victor (Graziano, Antiochia di Pisidia); Onorio e Teodosio II: semper et ubique vincentes (Calama).
Per lasciare i riferimenti alla durata nel tempo del potere imperiale e tornare allo spazio, le iscrizioni marchiavano il paesaggio nelle necropoli, nelle città, nelle strade con i miliari, sul territorio, soprattutto nella pertica delle colonie, attraverso i termini, i cippi conficcati al suolo, che sono direttamente collegati agli auspicia, per collocare nello spazio popoli, praedia, vici, colonie, province, perfino l’impero nelle sue incerte periferie, con lo sforzo di ancorare a monti, gole, laghetti, paludi, pantani, stagni, fiumi, ruscelli, guadi, grotte, fontane, alberi, valli, rocce, colline, terreni agricoli, orti, vigne, oliveti, frutteti, terre incolte; luoghi abitati da uomini, capre, maiali, torelli, pecore, cavalli, ecc. Conosciamo l’accatastamento, come in Numidia al Castellum Fabatianum, con le assegnazioni ai coloni effettuate dal consiglio dei decurioni nell’età di Augusto, agros ex d(ecreto) d(ecurionum) coloneis adsignatos.
La parola pertica è espressamente utilizzata per indicare l’ager adsignatus di alcune colonie triumvirali, come a Thugga dove conosciamo un defensor immunitatis perticae Carthaginiensis, il che ci apre una finestra sul complicatissimo mondo del tributum soli e sui vantaggi fiscali della città di Cartagine, che pesavano sugli stipendiarii insediati a vario titolo nel territorio, con l’esplicita testimonianza di Uchi Maius. Le perticae delle colonie di Turris Libisonis e Tharros – da intendere invece come copie catastali del tabularium - sono espressamente citate in Sardegna in un’epigrafe perduta, conosciuta al Mommsen attraverso la documentazione cinquecentesca di archivio, che testimonia l’attenzione e la cura per l’archiviazione delle mappe e dei documenti catastali. Un notevole approfondimento hanno avuto in Nord Africa le ricadute locali, in particolare nella pertica della colonia augustea di Cartagine, della lex Hadriana de rudibus agris, che documenta il rapporto tra procuratori, coloni, homini rustici, spesso afflitti dagli abusi dei conductores e dai comportamenti violenti dei soldati, come nel saltus Burunitanum a Bou Salem nei primi anni di Commodo, nel 182.
Pertica indica anche lo strumento di 10 piedi per la misurazione delle parcelle catastali e anche la carta catastale coi limiti della centuriazione chiusi dalle arae collocate ad es. da Gaio Gracco, che sul terreno conosciamo attraverso i cippi di delimitazione, i termini posti dai governatori provinciali oppure dai praefecti iure dicundo sostituti dei IIviri della colonia, in un processo di perpetua revisione e aggiornamento che comportava conflitti tra le parti e incertezze sui diritti individuali. La scoperta nel 1949 di uno dei catasti di Orange rimanda alla triplice centuriazione della colonia Firma Iulia Secundanorum Arausio, con orientamento rispetto ai punti cardinali che è variato nel corso dei secoli in rapporto al Rodano; secondo l’interpretazione di Michel Christol, possiamo parlare di un intervento di Augusto e poi di Vespasiano nel 77 d.C. per indicare su una carta catastale la dimensione delle singole centurie. Ma naturalmente si trattava di un modo un po’ naïf di ricostruire la realtà concreta sul terreno, di codificarla in astratto, anche senza manipolazioni volute, anche perché nelle operazioni catastali ancora nei nostri tempi esiste un divario ammesso dai cartografi, tra rappresentazione e distanze reali, con tutti i limiti ben messi in luce da Pascal Arnaud. Dai nuovi frammenti del catasto risulta chiaro che comunque alla città di Arausio vengono lasciate delle terre sulle quali è dovuto il pagamento di un vectigal: fu il proconsole a disporre che venisse indicata su una carta catastale la dimensione delle singole centurie, al fine di definire il vectigal: [formam agrorum prop]oni [iussit, adnotat]o in sin[gulis centuriis] annuo vectigali. E in questo caso l’operazione avvenne agente curam L. V[alerio Um]midio Basso, proconsole e non per iniziativa dei magistrati della colonia come nei casi citati in precedenza. Quello del proconsole fu un ruolo di arbitro oppure il magistrato agiva sulla base delle esigenze della cassa provinciale ? Dubitiamo che i vectigalia andassero direttamente a vantaggio della provincia e non alla cassa della colonia. Al contrario, Lorenzo Gagliardi ha recentemente ipotizzato che i funzionari della colonia avessero solo l’incarico della riscossione dei tributi, che però andavano poi trasferiti dalla città al governatore provinciale, a favore dell’aerarium. Tutti temi che forse si articolavano in Italia – penso al catasto di Verona - in modo diverso rispetto alle province, come testimonia la più recente lettura dei gromatici, ad es. quella su Atella; del resto differenze significative esistevano tra provincia e provincia. Carolina Cortés Bàrcena ha esteso la riflessione alle estreme province occidentali, tra I secolo a.C. e I secolo d.C., sostenendo che la sovrapposizione delle nuove demarcazioni spaziali imposte dall’amministrazione romana sull’organizzazione territoriale più antica modificò non solo il paesaggio antico ma anche il rapporto che le popolazioni locali avevano avuto con il territorio e con lo spazio. José Cardim Ribeiro ha affrontato lo specifico dell’epigrafia più occidentale, là dove la terra finisce e il mare comincia (aqui… onde a terra se acaba e o mar começa), sul Mons Sacer-Promontorium Magnum, Σελήνης ὄρος nel territorio del Municipium Civium Romanorum Felicitas Iulia Olisipo a N della foce del Tago, il Cabo da Roca a Sintra in Portogallo, il punto più occidentale dell’Europa, con la celebre dedica Soli et Oceano posta nell’età di Antonino Pio da C. Iulius C.f. Quir. Celsus, un cavaliere con uno splendido cursus honorum. Dalla stessa località altre are sono dedicate Soli aeterno, Soli occiduo, Soli invicto, Oceano patri, Lunae, e, in greco, Ηλίῳ Μήνῃ, al sole e alla luna.
Guardando il nostro tema a distanza, oggi sappiamo che pertica è un termine che indica cose diverse, a parte l’unità di misura e lo stumento di misura di dieci piedi: non solo l’insieme delle terre oggetto di una limitatio ma anche la mappa di una limitatio (cioè la forma): dunque possiamo parlare di forma coloniae, ma così come di forma provinciae come in Dalmazia nell’età di Tiberio, richiamata nel III secolo secundum formam Dolabellianam; e pure nell’età di Adriano ancora in Dalmazia il legato opera a Corinium [s]ecundum formam Dolabellianam. Ma l’editto di terminatio del legato P. Cornelius Dolabella è richiamato nella stessa località iussu A(uli) Duceni Gemini leg(ati) Augusti pr(o) p[r(aetore)] nell’età di Nerone tra il 63 e il 68, per i confini inter Neditas et Corinienses, più tardi definito come finis derectus mensuris actis.
Per restare agli aspetti strettamente geografici, i confini provinciali sono citati già da Augusto nelle RGDA 26: omnium prov[inciarum populi Romani] quibus finitimae fuerunt / gentes quae non p[arerent imperio nos]tro fines auxi (τοὺς ὃρουϛ ἐπεύξ[ησ]ασα). E più oltre, 30: imperio populi Romani s[ubie]ci protulique fines Illyrici ad ripam fluminis / Danu(v)i citr[a] quod [D]a[cor]u[m tr]ansgressus exercitus meis ausp[iciis vict]us profliga/tusque [es]t. I termini, i cippi che indicano sul terreno questi confini provinciali, fin qui conosciuti sono una quarantina: ma dobbiamo partire dal discorso tenuto da Claudio in Senato nel 48 d.C., che noi abbiamo in Tacito XI 23-24 e nella Tabula Claudiana Lugdunensis dove si indica il territorio collocato ultra fines provinciae Narbonensis. Del resto le delimitazioni tra province, come quella tra Africa vetus e Africa Nova, continuavano ad avere significato un secolo dopo la nascita dell’Africa Proconsolare e l’unione delle due vecchie province voluta da Augusto: dagli ultimi studi di Ali Chérif e Riadh Smari sappiamo che il confine ancora in età vespasianea negli anni 73-74 passava tra Tichilla (Testour) e Thignica (Aïn Tounga) forse seguendo in parte il corso dell’oued Siliana e che dunque Uchi Maius, Thignica, Thugga erano certamente a occidente della Fossa Regia. Si conoscono oggi una dozzina di cippi terminali vespasianei riguardanti i fines provinciae novae et veter(is) decreti qua Fossa Regia fuit; molti inediti sono stati presentati recentemente sulla Byrsa di Cartagine nella sede della Biblioteca Moscati, alla vigilia dell’incontro sull’”arpentage” de Didon.
Per il resto dell’impero possiamo citare a titolo di esempio i miliari sulla [via] a colonia Salonitana ad f]in[es] provinciae Illyrici in Dalmazia in un miliario di Tiberio del 16-17 d.C., con l’intervento dei vexillarii delle legioni VII e XI. Ancora in Africa sui miliari compaiono più volte le strade che collegavano la capitale con la frontiera provinciale, come la via a Karthagine usque ad fines Numidiae provinciae longa incuria corruptam adque dilap[sa], che conosciamo negli ultimi anni di Massimino il Trace in una decina di esempi, nelle località più diverse, in alcuni casi attraversando la vecchia Fossa Regia. Conosciamo del resto in varie aree i confini di tutto l’impero, come quelli definiti da Settimio Severo nella sua terza potestà tribunicia e dal procuratore C. Giulio Pacatiano tra l’estrema provincia orientale dell’Osroene e il regno di Abgar. Celebri sono i termini della Britannia posti da Adriano per il vallo, come a Jarrow presso Edimburgo, che datiamo tra il 122 e il 126.
Nel I secolo d.C. fu fissato il confine della Tracia, ad esempio ad Hadarca, Nikolaevka in Moesia inferior; oppure a Varna - Odessus nel 45-100 d.C.: F(ines) terr(ae) Thrac(iae), definiti in rapporto con le terre di Odessa sul Mar Nero nell’età di Commodo. Che fossero necessari praesidia ob tutelam provin(ciae) Thraciae e l’intervento del legato imperiale per realizzare burgos et praesidia già nel 155 sotto Antonino Pio è sicuro grazie ad AE 2017, 1264 Panchevo in Tracia, che ricorda i fines col(oniae) Fl(aviae Deult(ensium). A Serdica e per fines [civitatis Tra]ianensium Antonino Pio nel 152 dispone praesidia et burgos ob tutelam provinci(ae) Thraciae: più precisamente a Serdica 4 praesidia, 12 burgi, 109 phruri. Curante C(aio) Gallonio Frontone Q(uinto) Marcio Turbone leg(ato) Aug(usti) pr(o) pr(aetore).
Le iscrizioni ci fanno conoscere i limiti tra città, come a Mustis, dove Azedine Beschaouch ritiene che l’arco onorario fosse “arc-frontière” che definiva a occidente proprio il territorio della colonia di Cartagine; qui del resto conosciamo da numerosi testi i termini della definitio finium nell’età di Antonino Pio tra il 138 e il 161 per il territorio di Mustis, determinatio facta publica Mustitanorum. Oppure le delimitazioni all’interno delle province, come le variazioni della condizione giuridica dei terreni sottratti ai Musulami dopo la guerra di Tacfarinas nel 24 d.C. e in parte restituiti ai pastori nell’età di Traiano dal legato L. Munatio Gallo, semplicemente spostando di nuovo i termini o meglio le metae. Per i Musulamii conosciamo addirittura un terminus di tre distinti territori, che si incontravano in un trifinium collocato nel 116 dal legato L. Acilius Strabo Clodius Nummus, i Musulami, gli abitanti di Ammaedara e il latifondo imperiale: Giulio Frontino del resto precisava: De positione terminorum controversia est inter duos pluresve vicinos: inter duos, an rigore sit ceterorum sive ratione; si inter plures, trifinium faciant an quadrifinium. Del resto i Musulami confinavano con la colonia di cittadini romani di Madauros presso il terminus posto dal legato L. Minucius Natalis e con un terreno di pertinenza di una privata, Valeria Atticilla; la pietra confinaria fu collocata dallo stesso legato di Traiano; oppure in Bosnia inter Sapuates e[t La]matinos. Solo a titolo esemplificativo possiamo citare i Suburbures nei confini definiti ex auctoritate di Traiano nello Chott El Beida in Numida con il legato T. Sanius Barbarus : fines adsignti gen[ti] Suburburum. Oppure ex indulgentia di Adriano, per i fines adsignati genti Numidarum ad Equizetum dal procuratore della Mauretania Cesariense C. Petronius Celer nel 137. Lo stesso procuratore nello stesso anno e sempre in Mauretania ricorda che Adriano aveva autorizzato a collocare i termini i[n]ter Regienses et saltum Cu[--]. Ad Igilgili in Algeria (Mauretania Cesariense) conosciamo l’intervento imperiale del 128, con un’amputazione delle terre lasciate agli Zimizes con vantaggio della città di Igilgili, coi termini collocati ut sciant Zimizes non plus in usum se haber(e). Come non pensare alle riflessioni di Lidio Gasperini sul confine tra il municipio romano di Olbia e i Balari del Logudoro in Sardegna nella prima età giulio-claudia ? Balari // Finem / poni iussit / praef(ectus) pr[ov(inciae)] / pas(sus) DLIIII. In Cilicia Campestris a Mopsuestia a 40 km dalla foce del fiume Pyramus alla fine del I secolo sappiamo dell’attività del legato Asprenas impegnato a collocare nello spazio, terminare, i fines inter Mopseotas et Aegenses, dunque tra il territorio delle città contigue, Mopsuestia e Aegaeae. In Germania superior si può pensare ai Teutoni citati nel terminus di Miltenberg. Per quanto l’autorità si sforzasse di stabilizzare i confini, abbiamo però la certezza di continui aggiustamenti a seguito di usurpazioni, occupazioni illegali, sentenze, comunque situazioni nuove che cambiavano profondamente la geografia.
Non è possibile trattare in quest’occasione il tema del limes dell’impero rispetto al Barbaricum, una periferia che si fece centro secondo la visione di Marco Valenti per Archeologia Barbarica: sarà sufficiente dire che il tema del declino e della caduta dell’impero rispetto al sistema mondo è ora discusso a favore di nuovi equilibri negli ecosistemi mediterranei, che le relazioni al di qua e al di là di quella barriera come fin qui è stata considerato il limes sono state continue ed intense, che molte testimonianze epigrafiche latine sono censite nel Barbaricum, almeno un migliaio in Clauss Slaby, prevalentemente commerciali. Ciò non significa che la cura per indicare i punti più estremi dell’impero sia venuta meno nel corso dei secoli: all’inizio del V secolo d.C. Arcadio Augusto avrebbe precisato partendo dalla seconda Roma: <<Abbiamo posto termini a Constantinopoli per lo più con segnali e simboli. In un fossato li abbiamo costruiti con calce e sabbia, e abbiamo posto carboni sotto. Nelle stesse province d’oltremare abbiamo posto anche termini di pietra, e sugli stessi termini abbiamo scritto i nomi dei fondi, in modo che si possa indagare le loro dimensioni come gli autori stabilirono nel libro XII, usando i tipi di lettere che valgono in tutto il mondo>>, dunque sia nel mondo latino che nel mondo greco.
Se usciamo dall’impero, dobbiamo innanzi tutto mettere in evidenza come siano numerosi i cimeli di età classica, per noi le iscrizioni, trasferiti in lontanissimi Musei ben al di fuori del mondo antico (penso al MASP, il Museo d’Arte di San Paolo in Brasile) o acquisiti in collezioni pubbliche e private; se parliamo invece di ritrovamenti veri e propri, possiamo partire dall’instrumentum inscritto disperso nel mondo, ad esempio fino alla lontanissima Mathura in India centrale. L’epigrafia documenta in aree molto distanti l’arrivo della cultura greca e romana: mi limiterei a citare alcune iscrizioni dell’Azerbaigian come la dedica a Domiziano da parte di un centurione della legione XII Fulminata a Qobustan Qorogu sulla riva occidentale del Mar Caspio. Oppure il caso molto discusso delle iscrizioni rupestri greche e latine delle grotte di Kara Kamer in Uszbekistan sulla via della seta oltre il Caspio recentemente studiate da Yulia Ustinova dell’Università Ben Gurion, che addirittura pensava ad un Mitraeum della legio XV Apollinaris. L’Epigrafia – e non solo – finisce talvolta per sconfinare sul mito romanzato, a causa dell’anxiety, dell’impegno irrazionale indirizzato a cercare quel che si desidera trovare, ad es. testi latini nell’Asia centrale, come ha giustamente osservato David Baund, seguendo le istruzioni sulla necessità di rilanciare l’antica “via della seta” cinese, secondo gli indirizzi tracciati dal Presidente Xi Jinping. Corridoi di penetrazione nell’impero sono noti anche in Britannia sotto il controllo degli Asturi e dei Mauri, Germania e in Africa come nella gola di El Kantara – Calceus Herculis in Algeria sotto Settimio Severo con le sue 65 scrizioni, alcune dedicate dal numerus dei Palmireni Severiani al dio Malagbel, il dio in viaggio dall’oriente, che compare anche a Castellum Dimmidi, con le sue 78 iscrizioni che testimoniano la vitalità di una fortezza che controllava la via carovaniera che superava il Fossatum Africae, una frontiera che si affacciava sul Sahara ma che non era chiusa ma permeabile, come testimonia una ricca documentazione doganale recentemente studiata anche in rapporto ad altre situazioni geografiche; migliaia di immigrati furono filtrati verso i mercati di schiavi urbani. In Numidia sappiamo che Gordiano III nel suo quinto anno tribunizio [summa ae]quitata{e} s[ua] provi[nciae et gentium fines direx]it per T(itum) Iulium Antioc[um leg(atum) Aug(usti) pr(o) pr(aetore)], a Dusen. Conosciamo del resto i fines, gli spazi consacrati, di città, templi come nel tempio di Augusto di Narbo Martius nella lex flamonii perpetui. E poi i territori contestati tra popolazioni locali e immigrati, come i fines ben disegnati sulle mappe catastali conservate nel tabularium provinciae, abusivamente mantenuti dai Galillenses autoctoni e invece assegnati da secoli ai Patulcenses della Campania nella sentenza del proconsole L. Elvio Agrippa registrata su bronzo nella Tavola di Esterzili in Sardegna nell’età di Otone.
Di recente è stata presentata la candidatura all’Unesco del limes in Dacia e sul Danubio orientale, in Romania a Cetatea Beroe – Ostrov ad es., oppure a Dinogetia – Garvan in Dobrugia, in Bulgaria a Durostorum-Silistra oppure a Dimum-Belene, in Serbia a Cuppae-Golubac oppure a Diana-Davidoovic) e in Croazia, a Pogan o a Dragojlov Brijeng: il tropaeum Traiani di Adamclissi nella Scizia minore rappresenta plasticamente la politica imperiale di Traiano nel 109 d.C. Un caso esemplare di scambi culturali al di qua e al di là del limes è rappresentato dal trasferimento voluto da Diocleziano dei Carpi provenienti dal Barbaricum in Pannonia: portandoci a qualche decennio di distanza, Ammiano Marcellino (Storie, XXVIII 1,7) ci parla di un personaggio appartenente a questo popolo, capace di interpretare il volo e il canto degli uccelli, gli augurales alites e gli oscines, gli uccelli profetici, proprio grazie a queste competenze ornitomantiche tradizionali aveva predetto al figlio Maximinus un futuro di grandi successi, ma alla fine una morte per mano del boia. Conosciamo bene questo Maximinus, di recentissima romanizzazione, nato a Sopianae una città della Valeria (oggi Pécs in Ungheria) che sotto Valentiniano e Valente governò col titolo di praeses la Corsica e la Sardegna, per poi arrivare nel 371 alla prefettura del pretorio delle Gallie. Flavio Massimino ci è noto per i miliari delle principali strade della Sardegna cardine del sistema delle terre coltivate, tra gli ultimi che ci sono pervenuti. Qui aveva incontrato un mago sardo, che poi egli aveva ucciso con la frode, molto esperto nell’evocare anime malefiche di trapassati e nel richiedere presagi agli spiriti; tematiche che ricorrono nelle numerose defixiones dell’isola. Finché costui restò in vita, Massimino, temendo di essere tradito, si mostrò mite e condiscendente con lui. Colpisce il collegamento tra fonti diverse e la conferma delle fonti epigrafiche, che ci fanno conoscere il gentilizio del preside, Flavius, con la nostra fonte storico-letteraria, che ci illumina su aspetti che hanno interessato di recente antropologi e studiosi di storia delle religioni. Si può ammettere forse un lungo e contraddittorio ribaltamento dell’”ordine mondo” nel periodo tardo antico, un veloce cambiamento di protagonisti nel corso dei secoli, una complessità che si arricchisce ma non dimentica, con continuità e nuove funzionalità, come a Volubilis nel 655 d.C. in occasione del 616° anno della provincia Tingitana per l’epitafio di Iulia Rogativa de Altava. Oppure a Pomaria in Cesariense (Tlemcen) per l’epitafio di Val(erius) Emeritus nel 633 d.C., per il 597° anno della provincia. Del resto immaginiamo in futuro riflessioni più puntuali sulla pluralità delle identità senza dimenticare Amin Maalouf e Les identités meurtrières, se davvero <<l’identità etnica è situazionale, costruita, negoziata e sempre fluida ma, come i rapporti di potere e la diseguaglianza sociale lasciano indubbie tracce materiali, lo stesso accade in riferimento ad essa>> (Marco Valenti): sullo sfondo il tema dell’egemonia in Gramsci, teorico della complessità dei processi di transizione, e dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate; con eredità e trasformazioni certo, anche se mi rifiuto di adottare nella lingua italiana la categoria schematica, sbrigativa e addirittura erronea di meticciato.
L’importanza fondamentale per qualunque attività economica o giudiziaria dei fines municipii è richiamata nella lex Irnitana (El Saucejo / Irni) a proposito delle attività dei IIviri, dei decurioni, dei tutorii di pupilli e pupille, dello svolgimento dei dibattimenti qum in eo municipio intrave fines ei{i}us municipi(i) erit causa cognita, con 10 gg. di dilazione; perché sia i municipes sia gli incolae possono agire in giudizio a condizione di collocare la causa entro il municipio: [Qu]i eiu[s] municipi(i) municipes incolaeve erunt q(ua) d(e) r(e) ii inter se suo alte/[r]iusve nomen(e) qui municeps incolave sit privatim intra fines eius / [mu]nicipi agere petere persequi volent. Indicazioni precise ci rimangono sulla ricognizione dei diritti sugli agri, dfiniti nei loro esatti confini: fines agros vectigalia eius municipio; sugli accordi economici che sono validi se pacti erunt dum intra fines eius municipi(i). Temi che tornano nel S.C. de Cn. Pisone Patre del 20, El Saucejo / Irni, a patre divo Aug(usto) Cn(aeo) Pisoni patri donatus erat reddi cum / is idcirco <d=P>ari eum sibi desiderasset quod quarum fines hos saltus contin/gerent frequenter de iniuri(i)s Cn(aei) Pisonis patris libertorumq(ue) et servorum / eius questae essent. E già la Lex Ursonensis, Osuna, nell’età di Cesare (44 a.C.) ordinava: ne quis intra fines oppidi colon(iae)ve qua aratro / circumductum erit hominem mortuom inferto. Si qu<a=I>s vias fossas cloacas IIvir aedil(is)ve publice / facere inmittere commutare aedificare mu/nire intra eos fines qui colon(iae) Iul(iae) erunt volet / quot eius sine iniuria privatorum fiet it is face/re liceto. Quae viae publicae itinerave publica sunt fuerunt / intra eos fines qui colon(iae) dati erunt quicumq(ue) / limites quaeque viae quaeque itinera per eos a/gros sunt erunt fueruntve eae viae eique limites / eaque itinera publica sunto. natus erit qui in ea colon(ia) / intrave eius colon(iae) fines domicilium praedi/umve habebit. Qui limites decumanique intra fines c(oloniae) G(enetivae) deducti facti/que erunt quaecumq(ue) fossae limitales in eo agro erunt.
Come abbiamo detto le iscrizioni menzionano spesso avvenimenti militari: l’iscrizione inedita di età severiana che porta al di là del limes, a el Bayath e cita una delle tante incursioni dei Bavari verso la costa mauritana, è stata riportata in luce non nel corso di un vero e proprio scavo ma di uno sterro, come quelli verificatisi in tante località del Mediterraneo, che hanno profondamente modificato lo stato dei luoghi, attraverso scavi intensivi e restauri radicali; i casi potrebbero moltiplicarsi e spesso in rapporto a guerre sanguinose come in Libia, dove abbiamo constatato nel dopo Gheddafi un’instabilità gravissima, una pesante crisi militare, che ha avuto immediati riflessi sul patrimonio archeologico, sui musei, sui siti antichi, per non parlare delle infrastrutture, dei porti e degli aeroporti. Il bilancio tracciato da Pau Bennett e Graeme Barker (Protecting Libya’s Archaeological Heritage) fino alla morte del Col. Muhammar Gheddafi avvenuta il 21 ottobre 2011, è oggi del tutto superato, anche se è vero che il Dipartimento delle antichità della Libia da anni ha avuto a disposizione solo pochissimi mezzi, forse in rapporto con i sentimenti ambivalenti della Libia postcoloniale verso il passato; la seconda guerra civile combattuta a partire dal 2014 fino al processo di pace avviato un anno fa ha causato danni considerevoli all’economia libica e ha visto il crollo della produzione del petrolio; l’attività dell’ISIS prima a Derna poi a Sirte, la debolezza del Governo di unità nazionale, l’assedio di Tripoli hanno rappresentato il quadro generale di una situazione di forte instabilità che ha provocato l’abbandono e il saccheggio di alcuni territori. Sull’ultimo numero della rivista “Libya antiqua” abbiamo pubblicato l’iscrizione musiva di Henchir Banis - Tarhuna, fortemente danneggiata dal passaggio dei mezzi militari. La scena rappresentata sul mosaico sembra quella – notissima ai pittori greci– ambientata nell’isola di Sciro, alla corte del re dei Dòlopi Licomede, con Achille in vesti femminili, virginis habitum occultatum. Deidamia gli offre il figlio Neottolemo-Pirro, che forse lo seguirà a Troia.
Nella stessa area, controllata fino a pochi anni fa dal gen. Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, vediamo come il passaggio dei cingolati abbia danneggiato gravemente una struttura fortificata tardoantica, un gasr, impostato su una fattoria aperta di età precedente: il tutto nel corso del 2020 è stato oggetto di scavi clandestini. Resta gran parte della soglia e degli stipiti della porta d’accesso al gasr di epoca tarda, completamente interrato; sulla destra nel riuso tardo è stata collocata una stele iscritta, mentre sul lato opposto è stata reimpiegata una soglia. Le pareti che fiancheggiano l’ingresso sono ancora relativamente ben conservate, ma la struttura ha subito un vero e proprio saccheggio negli ultimi anni, a causa della ‘caccia al tesoro’ da parte dei clandestini, con un grave danno per le strutture. La stele è un esempio scultoreo inciso dalla mano di un artigiano punico, Masof, certamente un esponente di un’officina locale: può essere descritto come una stele allungata con tabula epigraphica ansata in alto e al di sotto, al centro, una rosula a rilievo, ben lavorata, con otto petali. Essa presenta una tabella al cui interno è parzialmente inserito il testo recante il nome del defunto, un cittadino romano, onorato dai due figli; assente la dedica D(is) M(anibus) sui triangoli laterali. Dal punto di vista della tecnica esecutiva, è chiaro che l’opera è stata realizzata in due tempi: tabula epigraphica e decorazione floreale in una prima fase; in una seconda fase incisione dell’iscrizione e aggiunta dei nomi dei figli e dell’artifex, tutti molto interessanti, che si adattano al testo disponibile: Monume/ntum C(ai) Vale/ri Romani, qui (et) / Amas Valath qu/od fec(erunt) fili(i) eius / Fronto et Acavas (.) / Artifex Masof.
Abbiamo più volte riflettuto sulle fatiche e sui risultati delle ricerche epigrafiche condotte da tanti pionieri in zone di guerra: è soprattutto grazie a tutti loro, che il nostro sguardo ha potuto spaziare con uno straordinario ampliamento territoriale e geografico, nelle tre parti dell’ecumene romana, l’Africa, l’Europa e all’Asia, con un allargamento di orizzonti e di prospettive che permette di superare la visione ristretta del Mar Mediterraneo, prevalentemente basata su un asse Nord-Sud, e di ricordare quello che fu il bilinguismo ufficiale dell’impero dei Romani. Sono parole di Azedine Beschaouch. L’Africa ad esempio è diventata una parte essenziale del più ampio bacino mediterraneo, un’area costiera non isolata ma che è in relazione con tutta la profondità del continente, trovando nel Mediterraneo lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovranazionale. Abbiamo studiato per il convegno de L’Africa Romana a Djerba (il XIII della serie) il tema dei pionieri dell’archeologia, quando pensavamo fosse giunto veramente il tempo di guardare a distanza il problema della nascita dell’archeologia e di studiare la storia delle scoperte archeologiche nel Maghreb, evidenziando errori, forzature e strumentalizzazioni del passato coloniale ma anche recuperando le figure di quei grandi maestri, europei ed arabi, pionieri che hanno lasciato testimonianze sincere di curiosità, di passioni, di interessi, che andavano inserite nel clima storico che essi hanno vissuto, spesso in periodi di guerre sanguinose, senza nulla dimenticare di un passato che comunque continua ad avere un suo significato per ciascuno di noi: il tema investe aspetti politici importanti e chiama in causa innanzi tutto i rapporti tra Europa e paesi arabi. Non possiamo non affrontare il tema delle difficoltà incontrare in passato dagli epigrafisti nel loro impegno di ricerca in alcune aree del Mediterraneo sconvolte dai conflitti armati. Avrei dunque molti esempi da fare, molte cose da precisare, molte piste da seguire: mi limiterò a ricordare le parole di Theodor Mommsen per ricordare (pochi anni dopo la morte) il giovane allievo Heinrich Gustav Klemens Wilmanns, editore di CIL VIII, nato nel Brandeburgo nel 1845 (Jüterbogk), professore a Strasburgo nel 1872, ingiustamente sospettato più volte dai russi di essere una spia: nei quattro anni successivi, percorse in lungo e in largo tra grandi pericoli e difficoltà diplomatiche la Tunisia e l’Algeria, affrontando gli orrori dell'inverno africano e le difficoltà e i mille pericoli dei due viaggi ostacolati da una natura allora ancora selvaggia, con una forte presenza militare francese, pochi anni dopo quella “inqualificabile aggressione gallica” conclusa inaspettatamente con la vittoria prussiana del feldmaresciallo von Moltke a Sedan e la fine del secondo impero con la deposizione di Napoleone III (C. Bardt): regnum Tunetanum peragravit, deinde provincias Africanas iam Gallicanas. Collectos titulos typis excudere coepit: in laboribus superandis periculisque obeundis animi plus solito fortis et constantis. Ammalatosi dopo il secondo viaggio, non riuscì a concludere il primo tomo di CIL VIII: oggi si notano le prime 4000 schede con le espressioni in prima persona contuli, descripsi, seguite poi da quelle a partire da Verecunda in poi dal nr. 4187 al nr. 8341/42 che portano l’espressione contulit Willmanns; il giovane in realtà era riuscito a raccogliere fino a Djemila oltre 11000 schede. A poco più di 30 anni d’età, durante il primo viaggio, egli sembrava aver aumentato la sua forza fisica, ma il secondo viaggio lo aveva davvero consumato. Quando apparve a Berlino nell'estate del 1877 era un uomo distrutto; saevo morbo correptus quamquam ne inter dolores quidem a labore destitit et ad extremum fere plagulis emendandis invigilavit, morì a Baden Baden il 6 marzo 1878 opere imperfecto. Vitam vixit ut brevem et laboriosam, ita plenam et utilem, civis egregius, magister gnavus, amicis et discipulis carus. Multi Wilmannsium fleverunt immature litteris et necessariis ereptum magnamque cum eo neque unius nominis spem sepelivimus. Conclude il Mommsen nel 1881 davvero commosso: infelicis iuvenis tristem hereditatem ego senex adii curavique, ne cum ipso labores eius perirent. Forse si era pentito di qualcuna di quelle cattiverie che aveva scritto al De Rossi parlando di Charles Tissot, a proposito delle iscrizioni del Nord Africa, studiate da «tutti que' Francesi che corrono per l'Algeria», che con «tutte le ciarle francesi» non possono reggere il confronto con i giovani promettenti studiosi tedeschi (n. 85).
L’impatto delle guerre mondiali sulla ricerca epigrafica è molto noto: basta osservare il semplice grafico del numero delle iscrizioni greche e latine pubblicate su L’année épigraphique negli anni tra il 1911 e il 1920 e tra il 1940 e il 1946 per constatare il crollo delle pubblicazioni e la riduzione degli scavi, delle ricerche storiche, delle scoperte anche hors de l’empire, a causa dei danni provocati al territorio: una tradizione si è interrotta, fino a spegnere quasi quella passione per le antichità che aveva animato tanti studiosi in periodo di pace; e insieme la crudeltà della guerra, la scomparsa di tanti specialisti, le competizioni anche nelle colonie tra imprese scientifiche differenti. Lo stesso vale per il Supplementum Epigraphicum Graecum fondato nei Paesi Bassi da Jacobus Johannes Ewoud Hondius a Leiden, nel 1923, arrivato all’XI volume nel 1939; qui la pausa fu piuttosto lunga, dal 1940 al 1955, quanto A.G. Woodhead subentrò come editore e pubblicò i volumi dal XII in poi. SEG è arrivato ora al suo 65° volume, curato per Brill da Angelos Khaniotis a Princeton con una redazione internazionale. Ma sappiamo tutti del CIL. Lasciatemi dire infine della rivista Epigraphica, arrivata ora all’84 volume, che non si interruppe durante la guerra sotto la direzione di Aristide Calderini, perse nel numero doppio 1943-44 il riferimento all’Era Facsista e ebbe alcuni fascicoli numerati doppi, prima della direzione di Giancarlo Susini. Maggiore continuità ha avuto dal 1888 il Bulletin épigraphique che Théodore Reinach confezionava a villa Kerylos à Beaulieu tra Monaco e Nizza: da questo luogo incantevole sarebbe stata prelevata nel 1942 dalla Gestapo Simone Veil, la futura presidente del Parlamento Europeo, finita ad Auschwitz. L’ho incontrata qualche anno fa, prima della sua morte all’Ambasciata di Francia: mi ha sempre colpito il contrasto, che emerge nella sua autobiografia, tra la descrizione di un'infanzia gioiosa, tenera e felice nella villa Kerylos a Beaulieu tra Monaco e Nizza, l’elegante casa-museo del grande epigrafista e archeologo Théodore Reinach, il calore della casa di famiglia da un lato; poi il racconto delle sofferenze della guerra nei territori occupati nel Midi dalle truppe italiane, l'arrivo della Gestapo a Nizza dopo l'armistizio, la discesa agli inferi con la deportazione fino al campo di Auschwitz dove il dottor Mengele era incaricato dell'accoglienza, le umiliazioni, ma anche i piccoli gesti di solidarietà degli stessi carnefici. L’epigrafe sprezzante in ferro « Arbeit macht frei ». E poi gli Ebrei di Praga. Dopo la liberazione, nel maggio 1945, il desiderio di rinascere e di ricostruire, di trovare una famiglia. Come sappiamo il BE fu diretto dal 1938 da Jeanne e Louis Robert ed ora da Denis Rousset.
Dunque la politica coloniale delle potenze europee: non mi nascondo il fatto che i più gravi abusi sono stati compiuti dalla politica coloniale fascista, definita da Benito Mussolini e dai Savoia, attuata in Cirenaica, in Tripolitania e nel Fezzan da Italo Balbo, al quale si deve la costruzione dell’Altare dei Fileni nell’importuosa Grande Sirte, per riproporre il tema delle arae collocate alle estreme periferie del territorio di una colonia o di una provincia come le Arae Philenorum tra la Cirenaica greca e la Tripolitania fenicio-punica e romana nell’ambito della Libia artificiosamente unificata col Fezzan. E poi la grande statua equestre di Mussolini davanti al castello rosso, il museo di Tripoli, perché “tornammo là dove già fummo”, con la retorica dei benefici elargiti da Roma, ripensando alla Carta di Agrippa nella Porticus Vipsania e ora alla Via dei Fori imperiali. Del resto la colonizzazione giustificava la propria esistenza con una antistorica continuità. Temi che interpellano tutti noi, che richiamano l’impegno che dobbiamo garantire oggi di volgerci con rispetto ed equilibrio verso il passato e verso la salvaguardia del patrimonio. Senza dimenticare gli antifascisti impegnati tra gli archeologi, come quel Doro Levi, direttore della Scuola archeologica Italiana di Atene (Trieste 1898-Roma 1991) e la moglie greca Anna Cosadino (1895-1981). In questi ultimi anni ho letto molti lavori sulla relazione tra i crimini di guerra e la distruzione dei beni culturali: la schizofrenia della guerra, le devastazioni che hanno colpito il patrimonio durante il lunghissimo secolo breve, se adottiamo lo schema di Eric Hobsbawn fino alla caduta dell’Unione Sovietica e al crollo del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.
Nè dirò certo che rimpiangiamo i tempi in cui (2010) Berlusconi restituiva a Gheddafi la Venere di Cirene o dove quest’ultimo collocava dentro il castello di Tripoli, dove doveva passare l’autostrada Tunisi Bengasi pagata dall’italiana ENI: nella prima sala del Museo la prima Volkswagen, ora danneggiata dopo quella che si chiama impropriamente la primavera araba, in realtà un terribile inverno. Il dittatore si era ispirato alla vicenda dell’auto del monaco buddista che si diede fuoco a Saigon all’inizio delle guerra americana. È la premessa per la lenta fine di un regime odioso. Andrea Bruni, Valentina Capradossi, Martina Di Carlo hanno richiamato le << terribili devastazioni da parte dell’ISIS in Medio Oriente. Palmira, Ninive, Mosul, Aleppo sono solo alcune delle città e dei siti archeologici divenuti tristemente noti a livello internazionale proprio per le irrimediabili perdite subite dal loro immenso patrimonio storico-artistico. L’UNESCO ha affrontato con decisione il problema delle nuove sfide nei quaderni del J. Paul Getty Trust dedicati alla previsione del rischio, alla risposta civile di fronte ai crimini contro il patrimonio, al genocidio culturale, alla protezione del Cultural Heritage, ai conflitti, con un primo tassello che deve necessariamente richiamare la Convenzione per la protezione di beni culturali in caso di conflitto armato stipulata a L’Aja nel 1954 con il successivo protocollo che prevede come le Parti Contraenti si impegnano ad assicurare l'immunità dei beni culturali sotto protezione speciale astenendosi, a decorrere dall'iscrizione nel Registro internazionale, da ogni atto di ostilità al loro riguardo. Recentemente Silvia Chiodi ha scritto nel volume sui Beni Culturali e i conflitti armati (Le sfide e i progetti tra guerra, terrorismo, genocidi, criminalità organizzata) per l’Unesco che <<Il patrimonio culturale è di tutti, un raro caso in cui ogni essere umano dovrebbe essere consapevole che omnia sunt communia. A tutti appartengono il patrimonio italiano, quello cambogiano e quello siriano>> (Atti del Convegno “Beni culturali e conflitti armati, catastrofi naturali e disastri ambientali. Le sfide e i progetti tra guerra, terrorismo, genocidi, criminalità organizzata” tenutosi a Roma, presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il 15 novembre 2013 a cura di Silvia Chiodi e Giancarlo Fedeli). E le iscrizioni latine e greche e non solo sono inseme il nostro archivio, la nostra memoria, il nostro futuro. Dobbiamo impegnarci tutti di più per prevenire e risolvere i conflitti che minano le nostre stesse “identità plurali”. Lasciamo da parte in questa sede la vicenda notissima dell’attentato al Museo Nazionale del Bardo di Tunisi del 18 aprile 2015: le ferite sono ancora sanguinanti e il Museo è di nuovo chiuso. Ma la Tunisie restera debout.
Tra le regioni che più hanno sofferto c’è sicuramente il Libano, che soprattutto durante la guerra civile, ha subito saccheggi e spoliazioni; più in generale, tutto il Vicino Oriente, gli scavi clandestini e l'alimentazione del mercato antiquario con cimeli di dubbia provenienza rappresentano una piaga diffusa. I reperti e le iscrizioni più note e rilevanti, oltre che nei Musei del Libano (soprattutto nel Museo Nazionale di Beirut, ma anche nel Museo della American University a Beirut, ad esempio), si ritrovano conservate in numerosi musei, tra i più importanti dei quali il Louvre, il British e quello di Istanbul, fino a Figeac ed al Musée Champollion. Nel Libano meridionale operano ora i caschi Blu Onu assieme ai nostri studenti.
Devastazioni abbiamo osservato in Iraq ad Hatra, a Mossul nel Museo, nel 2003. In Siria la distruzione di Aleppo in Siria. Ancora in Iraq il saccheggio e la devastazione del museo di Baghdad durante l’operazione Antica Babilonia e la II guerra del Golfo. La storia e la ricchezza culturale della Siria, Palmira, Dura Europos e Aleppo, rivelata al mondo ‒ dalla seconda metà dell’Ottocento fino all’inizio della guerra nel 2011 ‒ anche grazie all’impegno di centinaia di archeologi, ricercatori e viaggiatori, rischia ora di scomparire: nonostante il conflitto armato e i pesanti danni, la comunità civile e gli esperti locali hanno provato a salvare lo straordinario patrimonio archeologico siriano e continuano quotidianamente a farlo, specie nelle zone non più controllate dallo Stato Islamico, comunque a rischio di saccheggio e scavi clandestini, come per esempio l’area del bacino superiore dell’Eufrate in cui si trovano siti importanti per la Siria, come Tell Mumbaqa e Tell Shiyukh Tahtani. Ci sono associazioni che tentano di promuovere una cultura tra i settori della comunità civile per contribuire tutti alla tutela dei siti di interesse archeologico; formare personale qualificato per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali; e avviare collaborazioni con i paesi e le città della regione e con tutti i Paesi del mondo. L’associazione ATPA, in collaborazione con gli esperti di ICCM ‒ International Committee for the Conservation of Mosaics -, si sono impegnati in una campagna di recupero di un mosaico bizantino rivenuto nel sito di Tell Shiyukh Tahtani (nei pressi di Kobane) e subito portato in una zona sicura.
Proprio uno dei siti UNESCO in Siria, Palmira, ha subito nel 2015 un affronto terrificante per mano dell’ISIS/DAESH rivelato dalle immagini del satellite spia Ofex 16 israeliano: il teatro romano adiacente al tempio di Bel, fatto esplodere con la dinamite nel 2015 con altri templi, le tombe a torre, l’arco onorario, molti altri monumenti. Dal tempio di Bel in particolare provenivano numerose iscrizioni, come quelle dei due altari dedicati in aramaico-palmireno nel 132 (altri in nabateo, in greco o in latino). Ma vogliamo ricordare Palmira per il suo massimo archeologo ed epigrafista, Khaled al A’sad, decapitato il 18 agosto 2015 dopo un mese di terribili sofferenze: salutiamo con affetto un nostro eroe, un archeologo, il direttore del Museo di Palmira, che era anche un epgrafista. All’epigrafia latina è dedicato l’importante articolo di Kaled al As’ad e Cristiane Delplace sulla Revue des études anciennes 104, 2002 pp. 363-400 (Inscriptions latines de Palmyre), ripreso per l’AE 2002, con 31 iscrizioni trilingui, in latino, greco, palmireno in genere riferite all’aristocrazia cittadina, imperiali, militari e funerarie: tra le trilingui quella di Haeranes Bonne Rabbeli f. Palmyrenus phyles Mithenòn datata al 363° anno dell’era seleucide, cioè al 52 d.C. Secondo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, l'uccisione di Khaled al-As’ad – direttore per 40 anni del Museo - è stata un'esecuzione pubblica, in una piazza di Palmira, alla quale hanno assistito decine di persone. Poi i miliziani dell’ISIS hanno spostato il corpo dell'anziano archeologo, appendendolo a una colonna romana dell'antica città siriana, perché non aveva voluto rivelare il luogo dove erano stati nascosti reperti romani del sito prima dell'occupazione dello Stato islamico, avvenuta nel maggio precedente. A caldo, subito dopo il fatto, avevo scritto: <<ci rimane nel cuore la sorte del nostro amico l’archeologo siriano di Palmira Khaled al-As’ad ucciso barbaramente dal Daesh nei primi giorni della “primavera araba”, dopo un mese di torture, magari per inseguire microscopici obiettivi di parte, tra speculazione, traffici illeciti, bieco affarismo. Il progetto dell’Isis nei confronti del patrimonio archeologico è ormai chiaro: l’iconoclastia non è un fatto nuovo nella storia e non è sostenuta da alcuna motivazione sincera. Non c’è più oriente o occidente, romani o arabi, cristiani o musulmani, se ad esempio in Libia abbiamo potuto contare oltre cento siti islamici distrutti dal Daesh nello scontro tra sciiti e sunniti>>: con gli amici di Libya antiqua avevamo presentato un elenco alle autorità internazionali con l’appello inviato all’Unesco e al Centro Arabo per il patrimonio mondiale.
L’anno successivo l’orchestra del Teatro Marinskij di San Pietroburgo diretta da Valerj Gergiev ha tenuto un emozionante e indimenticabile concerto.
La via della seta raggiungeva proprio Palmira e l’Unione Accademica Internazionale pubblica nelle Fontes viae Sericae le iscrizioni latine, greche, palmirene. Del resto la Cina guarda al Mediterraneo: io stesso ho partecipato all’incontro di Pekino all’ Istituto Italiano di Cultura (Ambasciatore Ettore Francesco Sequi) sulle scoperte romane lungo la via della seta. Con noi l’on.le L.H. del Parlamento cinese, archeologo, delega alla cultura Wang W., Capo dell’Accademia Sinica, Gaetano Ranieri, Raimondo Zucca, l’addetto culturale scientifico italiano Plinio Innocenzi. A Pechino cinque anni fa ci ha sorpreso all’ingresso della Beiwai Chinese University of Foreign Studies l’iscrizione in caratteri cinesi e in latino ripresa in epoca maoista da Cic. De officiis, MENTE DISCERE APERTA, COMMUNI SERVIRE UTILITATI. A dimostrazione mi pare di come il medium epigrafico si adatti a diverse culture e a tutte le prospettive politiche.
È passata molta acqua sotto i ponti e si è arrivati al riconoscimento dei beni collocati nel patrimonio dei beni mondiali immateriali, nella prospettiva dell’agenda 2030 e dello sviluppo sostenibile. Temi che in questa sede possiamo solo sfiorare, anche perché la guerra rischia ancora di cancellare l’uomo dalla storia, per usare le parole di Papa Francesco: scrivo nei giorni delle rinnovate preoccupazioni per i Musei di Leopoli o di Odessa, mentre osserviamo i cittadini portare in salvo le opere d’arte esposte ai bombardamenti, con un’interminabile guerra che non riesce a trovare le sue giustificazioni e allunga sempre più le sue ombre. C’è chi ha scritto che <<La missione dell'arte e della cultura è sempre stata ed è ancora, soprattutto dopo tutti gli orrori del XX secolo, quella di insegnare agli uomini a prendere le disgrazie degli altri come proprie, a capire che non c'è una sola idea, anche la più grande e la più bella, che valga una vita umana. Possiamo già dire oggi: ancora una volta, la cultura e l'arte hanno fallito la loro missione>> (Lev Dodin, il grande regista teatrale russo, direttore del Malyj Teatr, su Liberation). Se solo i belligeranti in questi giorni arrivati fino alla centrale atomica di Zaporizhzhia potessero rinsavire, la lettera Z dipinta sui carri armati che evoca Za pobedu potrebbe trasformarsi nella vittoria non in senso militare ma per la diplomazia internazionale, la ragione e l’umanità. Lasciatemi allora ricordare Frédéric Leclerc-Imhoff, morto a Sieverodonetsk, a fine maggio con Bordeaux nel cuore.