Geografia, Geopolitica, Storia antica: Principi, prospettive, cooperazioni per la pace inevitabile
Istituto di studi e programmi per il Mediterraneo
Convegno Alghero 3 dicembre 2022
Intervenire in chiusura di questa due giorni su Principi, prospettive, cooperazioni per la pace invevitabile nel nome di Giorgio La Pira (Pozzallo 1904 – Firenze 1977) mi dà l’opportunità di rivolgere uno sguardo più distante ed imparziale, osservando le diverse posizioni assunte dai relatori su temi di bruciante attualità.
Ho riletto in queste settimane molte opere di La Pira e i commenti di Bruna Bocchini Camaiani, ricorando nel 1954 l’intervento a Ginevra alla sede della Croce Rossa (per altri aspetti citato da Franco Nuvoli) sul valore delle città di fronte alle armi nucleari: <<non hanno il diritto gli Stati di distruggere le città>>: tema che confligge con le immagini dei telegiornali di questi mesi. Dieci anni dopo quell’intervento di La Pira, nel 1963 Giovanni XXIII pubblicava l’enciclica Pacem in terris, indirizzata a tutti gli uomini di buona volontà, subito fatta tradurre in russo. Pietro Paolo Onida a sua volta ha richiamato il ruolo del diritto, un’ars, una scientia che non può essere l’espressione della forza del più forte, ma che detta regole anche per i momenti più drammatici del suo manifestarsi; allora possiamo disttinguere: hostes hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus; ceteri latrones aut predones sunt (D. 50,16,118)>> (Sandro Schipani). E Vanni Lobrano ieri è partito da una riflessione sulla martoriata Ucraina.
Il quadro nel quale ci muoviamo oggi è ancora una volta mediterraneo, partendo dai paralleli e dai meridiani: abbiamo rcordato nei giorni scorsi a ll’Accademia dei Lincei a Roma la figura di Sabatino Moscati, al quale dobbiamo la blioteca di 6000 volumi che il 14 diembre inaugureremo sulla collina di Didone a Cartagine come Scuola archeologica italiana di Catagine e Institut National du Patrimoine. Nel suo ultimo libro, pubblicato postumo nel 2001, Sabatino Moscati affrontava I fondamenti della storia mediterranea come civiltà del mare e precisava che tutti avvertiamo <<l’inadeguatezza di una vera e propria storia mediterranea, proprio nel momento in cui il compiuto apporto di nuove conoscenze mostra la parzialità delle trattazioni esistenti. Anzi, si può dire che non esista finora quella vera e propria storia mediterranea in cui i singoli apporti debbono confrontarsi e integrarsi. Quando tale storia potrà essere scritta, è difficile dire: anche perché la fornazione degli studiosi (…) per aree culturali, non conosce ancora l’impiego integrale e di prima mano di un materiale così vasto, disperso, difforme. E tuttavia, la storia a dimensione mediterranea mi sembra la grande frontiera dell’avvenire, il necessario superamento di steccati anomali se non fuorvianti per la comprensione dell’unico denominatore valido e completo del mondo antico>>. Se vi è un protagonista ieri come oggi, esso è il mare. <<quel mare degli antichi che costituisce l’orizzonte, la condizione, il limite della loro avventura>>, fatta di pace ma anche di guerre, partendo dalla prima battaglia navale della storia combattuta nel mare sardo nel VI secolo a.C.
Nell’antichità per i Greci, il concetto di Pace non si limitava alla semplice cessazione o interruzione di una guerra esterna ma coinvolgeva i rapporti fra i cittadini all’interno della pòlis e fra gli abitanti di una comunità e il governo, abbracciando valori che trascendevano la sfera politica per arrivare a quella morale. Sin dall’età arcaica Eiréne, dono degli dei ed essa stessa divinità, era associata a Eunomìa (buon governo) e Dìke (giustizia); la sua presenza portava ordine e benessere, gioia e prosperità; nella scultura la dea tiene in braccio un bimbo, identificato come Plùtos (la ricchezza), che le accarezza teneramente il volto, un quadro familiare che materializza quelle che erano le speranze degli Ateniesi nel primo scorcio del IV secolo a.C.: la Pace quale fondamento della ricchezza, in particolare del commercio. In questo solco, liberata dagli orpelli mitologici della tradizione, matura la tesi di Aristotele che nella Politica fa della realizzazione della pace il fine ultimo della polis perfetta e conseguentemente fonda su questo obiettivo l’educazione del cittadino. Sempre ai Greci si deve il concetto di Pace Universale, quella che gli studiosi identificano come koinè eiréne, una pace almeno nelle intenzioni eterna e multilaterale, che coinvolge non solo i contraenti immediati ma, a prescindere dalla partecipazione della guerra, tutte quelle comunità che in un dato territorio partecipano a vario titolo ad un medesimo koinòn; essa si fondava sui principi condivisi dell’eleutherìa e della autonomìa (la libertà interna ed esterna) e rappresentava una sorta di dichiarazione sui diritti validi per tutte le città al di là dei singoli interessi, imposta e garantita da un organismo supremo con la forza delle armi.
Nel mondo romano il concetto di pax investiva originariamente la sfera sacrale della Roma arcaica e rappresentava l’atto di riconciliazione fra gli uomini e le divinità, fondamentale per la felice riuscita di qualsiasi impresa umana; successivamente pax indicò la riconciliazione fra gli uomini, sancita da un foedus. In questo contesto, la pax non pare aver assunto quelle caratteristiche civili tipiche dell’eiréne greca né tanto meno l’idea della pax sembra aver riscosso tale popolarità da suscitare in età repubblicana un culto specifico fra i cives-soldati, pure inclini a prestare attenzione ad alcuni concetti astratti (per esempio concordia, fides, honos, pietas, victoria, spesso associati alle qualità di un condottiero) ma curiosamente dimentichi di pax e quindi dell’epiteto pacator: unica rappresentazione sembrerebbe quella su un denario del 128 a.C. dove una divinità, Pax alla guida di una biga, stringe in mano un ramo d’ulivo e lo scettro. Ci toviamo di fronte ad una Pax che ha assunto le fattezze della vittoria trionfante sul nemico, dunque molto distante dall’Eiréne greca: una Pace conquistatrice, nata da una guerra vittoriosa condotta sotto l’egida di Roma. D’altronde la tradizione ricordava che la porta del tempio di Giano (Porta Ianualis) era stata chiusa prima di Augusto solo una o due volte a significare la fine di un permanente stato di belligeranza.
Una svolta fu rappresentata dalla consacrazione nel 9 a.C. dell’Ara Pacis nel Campo Marzio, voluta da Augusto per ribadire il tema della fine delle guerre. Pur non utilizzando apertamente il termine pacator, l’imperatore inizialmente si collega alle vittorie che avevano vendicato l’uccisione di Cesare; accanto ad una Pax trionfante dopo le guerre civili, Augusto cominciò ben presto a pubblicizzare una “pace civile”, una nuova età dell’oro contrassegnata dalla provvidenziale presenza del princeps che aveva ripristinato la pax deorum infranta dalle lotte interne, che garantiva la libertas, la Salus publica e la Concordia civium La Pax di Augusto è eterna ed ecumenica, terra marique parta, non limitata alla sola Roma. Essenziali ci sembrano gli aspetti spaziali del potere, precocissimi ed introdotti già nel titolo stesso della Regina inscriptionum, le Res gestae divi Augusti, quibus orbem terra[rum] imperio populi Rom(ani) subiecit, tema completamente obliterato nel titolo greco leggibile ad Ankara. Il testo latino esprime l’ammirazione per il modello di un impero universale visto in positivo, come quello di Alessandro Magno. Augusto esalta le guerre combattute toto in orbe terrarum, in greco [κατὰ γῆν] καὶ κατὰ θάλασσαν, sempre riferendosi all’impero romano: più in dettaglio il primo imperatore constata di esser riuscito a far penetrare l’esercito ben al di là dell’Egitto tolemaico fino alla Nubia (Napata) e al Sudan (Meroe); e, sulla riva sud-orientale del Mar Rosso fino allo Yemen e al Golfo di Aden: veramente fino alla fine del mondo. Del resto il modello ideale propagandistico non viene abbandonato dai successori, neppure da Costantino nella seconda Roma e, fino ai nostri giorni permane un disegno imperiale che in qualche modo ancora sopravvive. Momenti essenziali sono Caracalla Pacator orbis e le monete dello sfortunato Valeriano, con la rappresentazione di Giove assiso in trono, con in mano lo scettro ed una patera, mentre ai suoi piedi è visibile l’aquila: un programma politico travolto con la cattura di Valeriano, che vediamo inginocchiato davanti a Shapour I dei Sassanidi a Persepoli, schiantatosi nel confronto con un altro impero. Riverberi della concezione di un imperatore “facitore di pace” si trovano ancora in Costantino liberator urbis e fundator pacis: in Lydia egli è [τὸν γῆς καὶ θαλάσ]σης καὶ παντὸς τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους δεσπότην. La Pax era ancora una volta conseguenza del charisma dell’imperatore resititutor rei publicae che aveva liberato Roma e l’impero dai tiranni, un concetto ripetutamente sottolineato nei panegirici e nelle iscrizioni come sull’arco di Costantino, che doveva celebrare il ritorno della libertas, accompagnata dalla Pax religiosa coi cristiani. Nelle monete Pax e la Res publica offrono una corona all’imperatore, giusta ricompensa per quanto Costantino, significativamente in abiti civili, aveva compiuto nei loro riguardi: la legenda Pax Aeterna Aug(usti) N(ostri) sottolineava l’inizio di una nuova era all’insegna della securitas e della felicitas. Col cristianesimo si perde il titolo di pacator orbis, dell’imperatore che estendeva su tutta l’ecumene il potere di Roma e stabiliva una pace eterna ed incontrastata: egli non era più sentito come Pacator giacché, come sottolinea Agostino, l’azione umana è assolutamente inadeguata al raggiungimento della pace perfetta, vanamente ambita dagli uomini ma concessa solo da Dio (Pax Christiana). Come nell’impero pagano, la pax rimane indissolubilmente legata all’imperium ma la sua saldezza risiede nella dirittura morale ed istituzionale della Chiesa. Esiste poi un altro aspetto, quello della durata nel tempo del potere imperiale, che è naturalmente connesso con lo spazio, ancora una volta già con Augusto che conosce l'assimilazione a Dioniso e ad Eracle, nel quadro dell'aeternitas, la durata infinita nel tempo della Fortuna, una virtù che avvicina il principe a Giove; in questo senso si spiegano le dediche Paci aeternae come a Roma dopo la fine del mondo giulio claudio. Gli imperatori sono semper Augusti, perpetui, fundatores pacis oppure fundatores securitatis aeternae; Antonino Pio è omnium saec[ulorum] sacratissimus princeps. Di nuovo con Costantino si amplia enormemente il riferimento all’aeternitas, la durata nel tempo che si aggiunge all’estensione nello spazio del potere imperiale : così ad Uchi Maius in modo quasi euforico è perpetuus semper Augustus, in un’iscrizione dedicata [d]omino triumphi, libertatis et nostro, restitutori invictis laboribus suis privatorum et publicae salutis; oppure a Roma dopo il secondo trionfo in Campidoglio ai piedi di Giove: restitutor humani generis propagatori imperii dicionisq(ue) Romanae, fundator etiam securitatis aeternae.
In questo momento di guerra in Europa come potremmo non pensare ai luoghi che amiamo, al Mare d’Azov, al lago Meotide ? sulle rive del Mar Nero, il Πόντος Εὔξεινος il mare ospitale percorso dagli Argonauti, il primo punto di incontro tra Greci e Cimmeri o Sciti o Rossolani e altri popoli o civiltà: un’area nevralgica (come non ricordare la guerra di Troia ?) alla quale si rivolgevano gli imperatori pacatores orbis. Il popolo misterioso degli Iperborei, il mito degli Argonauti e di Prometeo, e ancora Orfeo e Dioniso: miti che sviluppano davvero «la nozione del misterioso levante nella conoscenza del continente europeo verso le diverse rive mediterranee», considerato come territorio limitaneo, al di fuori della ‘civiltà’ classica. Oggi assistiamo a quello che nelle “visioni del Tragico” è stato definito il ritorno di Dioniso in luoghi che mantengono una fondamentale importanza per l’Asia con interessi strategici della regione sempre più rilevanti. A Phanagoria sul lato orientale della penisola di Taman oggi nella Federazione Russa nel 7 a.C. la βασίλισσα Δύν[αμις φιλορώ]μαιος si rivolge ad Augusto salvatore e benefattore, chiamandolo τὸν <π>άσης γῆς καὶ [πάσης] θαλάσσης ἄ[ρχ]οντα. Gli ultimi scavi – pubblicati recentemente dall’Accademia Russa delle Scienze - hanno consentito di precisare il ruolo di questa regina nella promozione del culto di Augusto associato ad Apollo. Sullo sfondo il Bosforo Cimmerio, il Caucaso, la conquista romana, l’occupazione da parte di Pompeo Magno del Ponto, gli accordi di Augusto signore del cielo, della terra, del cosmo con la Regina Δύναμις anticipano la translatio imperii da Roma a Costantinopoli e da Costantinopoli a Mosca “terza Roma”, ma insieme testimoniano una dimensione geografica che è anche culturale, l’aggregazione del Ponto Eusino al Mare Nostro. Sul piano strettamente geografico, possiamo utilizzare come significativo marcatore territoriale le iscrizioni, che testimoniano in alcune province ma anche in alcuni regni o in territori collocati ai confini rapporti inattesi ed una presenza che va ben al di là dei fines, del mondo conosciuto: penso al Corpus Inscriptionum Regni Bosporani, Moskau 1965, con i nomi di località che ormai ci sono noti, Cherson alla foce del fiume Dnepr sul litorale del Mar Nero a occidente della Crimea, l’antica Chersonesus Taurica (82 testi), Phanagoria nel Krasnodar Krai, in Russia (un testo greco, quello del re Tiberio Giulio Sauromàtes figlio di Rascuporide filocesare e filoromano) e Panticapeo oggi Kertsch sulla penisola di Taman (8 testi, tra i quali la dedica posta dalla colonia Iulia Felix Sinope per il re del Bosforo sotto Traiano. E poi soprattutto Sebastopoli in Crimea, con le sue 135 testimonianze epigrafiche, le sue dediche IOM Conservatori e Dolicheno, a Mercurio, a Ercole, a Vulcano, Sabazio, Nemesi conservatrix, Mitra, i suoi diplomi come nel 157 quello del marinaio di Olbìa oggi Parutyne, le iscrizioni imperatorie come per i Severi o per i vicennalia di Costante nel 343 a Panticapaeum, quelle militari dell’esercito Mesico inferiore, con questa mobilità che è tipica degli eserciti in marcia, le legioni, le coorti, le vexillationes anche della flotta di Ravenna, i marinai della classis flavia moesiaca. Oppure a Cherson la bilingue della vexillatio Chersonessitana in un decreto militare. Queste sono le naturali premesse per il rarissimo titolo di κοσμοκράτορες portato sul Mar Nero a Mangalia da Diocleziano e dai tetrarchi alla fine del III secolo.
Come per gli scrittori augustei, anche per gli autori di età flavia e antonina era ormai indissolubile il legame fra Pax e imperium; progressivamente si prese coscienza dei vantaggi di una pace mondiale, ottenuta grazie all’auctoritas, alla fides, al consilium del princeps: nell’ Εἰς βασιλέα si ribadiscono i vantaggi di un libero e sicuro scambio commerciale nell’impero; nell’encomio Εἰς Ῥώμην Elio Aristide loda il perfetto accordo fra imperatore e senato, evidenzia il consenso che il dominio romano riscuote fra i provinciali, sottolinea la sicurezza raggiunta nell’impero grazie al valore dei soldati, al numero degli eserciti in campo, alla saldezza delle difese sui confini, in sostanza fa riferimento a quella Tranquillitas Augusti, evocata già da Plinio il Giovane in una lettera a Traiano. Si tratta di un ideale per così dire “trasversale”, che coinvolge anche i primi scrittori cristiani: nel 177 Atenagora si augura che l’impero diventi culturalmente ecumenico, sottomettendo tutte le popolazioni externae; Tertulliano ricorda che i cristiani pregano per gli imperatori augurando lunga vita e orbem quietum.
Per citare un documento storico noto, agli anni di Vespasiano risale il celebre epitafio tiburtino di Ti(berius) Plautius Silvanus Aelianus, compagno di Claudio in Britannia, che ricorda il trasferimento di oltre 100.000 profughi transdanuviani giunti in Mesia ad praestanda tributa, dopo le prime vittorie sui Daci: l’irruzione romana nel Barbaricum scitico oltre il Dineper (il Borustene), e la raccolta di enormi quantità di grano; premessa per l’attribuzione degli ornamenta triumphalia e per l’iterazione del consolato nel 74. Plauzio Silvano sarebbe stato onorato con le parole dell’amico Vespasiano al momento della morte: Scytharum quoque rege a Chersonensi quae est ultra Borustenen, obsidione summoto, primus ex ea provincia magno tritici modo annonam p(opuli) R(omani) adlevavit.
Sono i luoghi nei quali nei nostri giorni si combatte ancora una guerra sanguinosa, piena di crudeltà e di violenza, con riflessi immediati sull’esportazione del grano nei paesi in via di sviluppo, con uccisioni di soldati e di civili ed enormi masse di prigionieri. Nell’antichità le conseguenze delle guerre di conquista come dopo le campagne di Cesare in Gallia sono lo spopolamento, la depressione demografica, la riorganizzazione amministrativa (giuridica e dei confini tra città e popoli), l’acculturazione coatta dei principes locali, per arrivare allo sfruttamento delle risorse, alle profonde trasformazioni culturali, alla permeabilità di alcune frontiere, per non bloccare le vie di transumanza.
Sono stato a lungo incerto se affrontare il nostro tema esclusivamente dal punto di vista che ci è più abituale, quello degli antichi, oppure dal punto di vista dei moderni, per tentare di proiettarci sulle continuità fino ai nostri giorni, per ricordare il valore del patrimonio e della cultura classica, ma anche per non dimenticare il presente con le sue incognite, le sue tensioni, le sue incomprensioni, le sue ingiustizie, le sue violenze. Fino a spiegare alcuni fenomeni della comunicazione rapida e di sintesi anche sui social di oggi, che se consentono di migliorare le interconnessioni tra gli stati, fanno intravvedere i mille nuovi modi impiegati per giustificare i crimini di guerra, per definire bussole strategiche spesso impazzite, che pretendono di fornire orientamenti cruciali per i prossimi decenni.
Noi viviamo un tempo di trasformazioni, di rischi, di conflitto tra culture, tra popoli, tra paesi, anche per la nostra incapacità di comprendere gli altri, di sviluppare una pacifica vita in comune, di mettere da parte egoismi e interessi, di rifiutare integralismi e intolleranze, senza ingenuità perché i buoni propositi non bastano più di fronte alle forze in campo e all’ombra del conflitto nucleare. Il male è il nazionalismo dei nostri tempi, che ignora il pluralismo e il valore delle diversità in un Mediterraneo dove il mare non sia più una frontiera, ma la piazza di un’interazione pacifica, per usare le parole di Edgar Morin, per il quale dobbiamo constatare che i futuri impensabili del nostro passato sono diventati ora futuri impensabili del nostro presente (Alfredo Cacopardo). Ai nostri giorni, ci ha sorpreso l’accanimento e la barbarie di tante guerre in corso, che hanno provocato centinaia di migliaia di vittime, con terribili danni inferiti al patrimonio culturale che rappresenta una risorsa, <<ha un valore intrinseco, è una componente essenziale per lo sviluppo umano e svolge un ruolo fondamentale nel favorire la resilienza e la rigenerazione delle economie e delle nostre società… è la base per rilanciare la prosperità, la coesione sociale e il benessere delle persone e delle comunità>>. I Ministri della cultura del G20 nei mesi scorsi riuniti a Roma hanno chiesto la protezione del patrimonio culturale, la difesa di beni culturali insostituibili. Oggi si violano i diritti umani e culturali dei popoli e delle comunità, colpendo la diversità culturale e privando le persone e le comunità locali di preziose fonti di significato, identità, conoscenza, resilienza e benefici economici, costringendo intere città al buio e al freddo, sembra di tornare a quel Léon Werth, sfuggito ai nazisti, amico fraterno di Antoine de Saint-Exupéry, costretto a nascondersi nel Giura francese mentre il baobab dell’invasore tedesco avanzava ovunque, mentre gli artigli delle tigri lo graffiavano sanguinosamente: l’amico è evocato con parole davvero commosse, è ormai una persona grande che è stata un bambino, che abita in Francia, ha fame, ha freddo e ha molto bisogno di essere consolata. Del resto – forse scrivendo da Alghero: <<Se combatto ancora, combatterò un po' per te. Ho bisogno di te per credere meglio nell'avvento di quel sorriso. Ho bisogno di aiutarti a vivere. Ti vedo così debole, così minacciato, che trascini i tuoi cinquant'anni sul marciapiede davanti a qualche povera salumeria, ore e ore, per sopravvivere un giorno di più tremando di freddo, nel precario riparo di un cappotto logoro. Tu così francese, ti sento due volte in pericolo di morte, perché francese e perché ebreo. Sento tutto il valore di una comunità che non autorizza più diverbi. Siamo tutti di Francia come di un albero, e io servirò la tua verità come tu avresti servito la mia>>.
Mi sono chiesto tante volte se gli avvenimenti militari dell’oggi cambino la percezione stessa del mondo antico; soprattutto se riducano oppure amplino la documentazione che ci è pervenuta, a partire dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, in relazione al tema del limes, il rapporto tra Romania e Barbaricum, una periferia che si fece centro secondo la visione di Marco Valenti per Archeologia Barbarica: sarà sufficiente dire che il tema del declino e della caduta dell’impero rispetto al sistema mondo è ora discusso a favore di nuovi equilibri negli ecosistemi mediterranei, che le relazioni al di qua e al di là di quella barriera come fin qui è stata considerato il limes sono state continue ed intense, che molte testimonianze epigrafiche latine sono censite nel Barbaricum, almeno un migliaio, prevalentemente commerciali. E poi i confini tra province, tra città, tra agri della pertica coloniale e demanio imperiale. All’inizio del V secolo d.C. Arcadio Augusto avrebbe precisato partendo dalla seconda Roma: <<Abbiamo posto termini a Constantinopoli per lo più con segnali e simboli. In un fossato li abbiamo costruiti con calce e sabbia, e abbiamo posto carboni sotto. Nelle stesse province d’oltremare abbiamo posto anche termini di pietra, e sugli stessi termini abbiamo scritto i nomi dei fondi, in modo che si possa indagare le loro dimensioni>>, dunque sia nel mondo latino che nel mondo greco. Cinque secoli prima era stato fissato il confine della Tracia fino a Varna – Odessus: F(ines) terr(ae) Thrac(iae), poi definiti in rapporto con le terre di Odessa sul Mar Nero nell’età di Commodo. Che fossero necessari praesidia ob tutelam provin(ciae) Thraciae e l’intervento del legato imperiale per realizzare burgos et praesidia già nel 155 è sicuro grazie all’iscrizione di Serdica dove Antonino Pio nel 152 dispone praesidia et burgos.
Se usciamo dall’impero, dobbiamo innanzi tutto mettere in evidenza come siano numerosi i cimeli di età classica (per noi le iscrizioni): possiamo partire dall’instrumentum inscritto disperso nel mondo, ad esempio fino alla lontanissima Mathura in India centrale, per non parlare delle monete. L’epigrafia documenta in aree molto distanti l’arrivo della cultura greca e romana: mi limiterei a citare alcune iscrizioni dell’Azerbaigian come la dedica a Domiziano da parte di un centurione della legione XII Fulminata a Qobustan Qorogu sulla riva occidentale del Mar Caspio. Oppure il caso molto discusso delle iscrizioni rupestri greche e latine delle grotte di Kara Kamer in Uszbekistan sulla via della seta oltre il Caspio studiate da Yulia Ustinova dell’Università Ben Gurion, che addirittura pensava ad un Mitraeum della legio XV Apollinaris. L’Epigrafia – e non solo – finisce talvolta per sconfinare sul mito romanzato, a causa dell’impegno irrazionale indirizzato a cercare quel che si desidera trovare, ad es. testi latini nell’Asia centrale, come ha giustamente osservato David Baund, seguendo le istruzioni sulla necessità di rilanciare l’antica “via della seta” cinese: sono gli indirizzi tracciati dal Presidente Xi Jinping. Del resto immaginiamo in futuro riflessioni più puntuali sulla pluralità delle identità locali, senza dimenticare Amin Maalouf e Les identités meurtrières, se davvero <<l’identità etnica è situazionale, costruita, negoziata e sempre fluida ma, come i rapporti di potere e la diseguaglianza sociale lasciano indubbie tracce materiali>> (Marco Valenti): sullo sfondo il tema dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate.
Nel dopo Gheddafi – dopo i bombardamenti voluti dalla Francia - in Libia abbiamo constatato un’instabilità gravissima, una pesante crisi militare, che ha avuto immediati riflessi sul patrimonio archeologico, sui musei, sui siti antichi, per non parlare delle infrastrutture, dei porti e degli aeroporti; la seconda guerra civile combattuta a partire dal 2014 fino al processo di pace avviato due anni fa ha causato danni considerevoli all’economia libica; l’attività dell’ISIS prima a Derna poi a Sirte, la debolezza del Governo di unità nazionale, l’assedio di Tripoli hanno rappresentato il quadro generale di una situazione di forte instabilità che ha provocato l’abbandono e il saccheggio di alcuni territori. Sull’ultimo numero della rivista “Libya antiqua” abbiamo pubblicato l’iscrizione musiva di Tarhuna, fortemente danneggiata dal passaggio dei mezzi militari. La scena rappresentata sul mosaico sembra quella – notissima ai pittori greci– ambientata nell’isola di Sciro, alla corte del re dei Dòlopi Licomede, con Achille in vesti femminili, virginis habitum occultatum. Deidamia gli offre il figlio Neottolemo-Pirro, che forse lo seguirà a Troia. Nella stessa area, controllata fino a pochi anni fa dal gen. Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, vediamo come il passaggio dei cingolati abbia danneggiato gravemente una struttura fortificata tardoantica, un gasr, impostato su una fattoria aperta di età precedente: il tutto oggetto di scavi clandestini.
Credo sia arrivato il tempo di distinguere tra colonialismo e sincero desiderio di conoscenza: abbiamo più volte riflettuto sulle fatiche e sui risultati delle ricerche epigrafiche condotte da tanti pionieri in zone di guerra. È soprattutto grazie a tutti loro, che il nostro sguardo ha potuto spaziare con uno straordinario ampliamento territoriale e geografico, nelle tre parti dell’ecumene romana, l’Africa, l’Europa e all’Asia, con un allargamento di orizzonti e di prospettive che permette di superare la visione ristretta del Mar Mediterraneo, prevalentemente basata su un asse Nord-Sud, e di ricordare quello che fu il bilinguismo ufficiale dell’impero dei Romani. Sono parole di Azedine Beschaouch. Già per Umberto Cardia, l’Africa è diventata una parte essenziale del più ampio bacino mediterraneo, un’area costiera non isolata ma che è in relazione con tutta la profondità del continente, trovando nel Mediterraneo lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovranazionale, in relazione con l’Europa e l’Asia. Abbiamo studiato per il convegno de L’Africa Romana a Djerba (il XIII della serie) il tema dei pionieri dell’archeologia, quando pensavamo fosse giunto veramente il tempo di guardare a distanza il problema della nascita dell’archeologia e di studiare la storia delle scoperte nel Maghreb, evidenziando errori, forzature e strumentalizzazioni del passato coloniale ma anche recuperando le figure di quei grandi maestri, europei ed arabi, pionieri che hanno lasciato testimonianze sincere di curiosità, di passioni, di interessi, che andavano inserite nel clima storico che essi hanno vissuto, spesso in periodi di guerre sanguinose, senza nulla dimenticare di un passato che comunque continua ad avere un suo significato per ciascuno di noi. Il tema investe aspetti politici importanti e chiama in causa innanzi tutto i rapporti tra Europa e paesi arabi. L’impatto delle guerre mondiali e degli scontri locali sulla ricerca storica, giuridica, epigrafica è molto noto.
Théodore Reinach confezionava dal 1888 il Bulletin épigraphique a villa Kerylos à Beaulieu vcino a Monaco: da questo luogo incantevole sarebbe stata prelevata a forza nel 1942 dalla Gestapo Simone Veil, la futura presidente del Parlamento Europeo, finita ad Auschwitz. L’ho incontrata qualche anno fa, prima della sua morte, all’Ambasciata di Francia: mi ha sempre colpito il contrasto, che emerge nella sua autobiografia, tra la descrizione di un'infanzia gioiosa, tenera e felice nella villa di Beaulieu, l’elegante casa-museo, piena di calore da un lato; poi il racconto delle sofferenze della guerra nei territori occupati nel Midi dalle truppe italiane, l'arrivo della Gestapo a Nizza dopo l'armistizio, la discesa agli inferi con la deportazione fino al campo di Auschwitz. Negli stessi giorni arrivava e un mese dopo moriva nel campo di stermino l’epigrafista Mario Segre: era il 24 maggio 1944. Per Simone Veil dopo la liberazione, nel maggio dell’anno successivo, il desiderio di rinascere e di ricostruire, di trovare una famiglia, il numero tatuato sul braccio per tutta la vita.
Dunque la politica coloniale delle potenze europee: non mi nascondo il fatto che gravi abusi sono stati compiuti dalla politica coloniale fascista, definita da Benito Mussolini e dai Savoia, attuata in Cirenaica, in Tripolitania e nel Fezzan da Italo Balbo: la grande statua equestre di Mussolini davanti al castello rosso, il museo di Tripoli, ricorda che “tornammo là dove già fummo”, con la retorica dei benefici elargiti da Roma, ripensando alla Carta di Agrippa nella Porticus Vipsania e ora alla Via dei Fori imperiali. All’interno del museo archeologico di Tripoli, nella prima sala, Gheddafi volle la sua prima Volkswagen, ora danneggiata dopo quella che si chiama impropriamente la primavera araba, in realtà un terribile inverno.
Senza dimenticare gli antifascisti impegnati tra gli archeologi, come quel Doro Levi, direttore della Scuola archeologica Italiana di Atene e Soprintendente a Cagliari (Trieste 1898-Roma 1991). Temi che interpellano tutti noi, che richiamano l’impegno che dobbiamo garantire oggi di volgerci con rispetto ed equilibrio verso il passato e verso la salvaguardia del patrimonio. Ho voluto leggere molti lavori sulla relazione tra i crimini di guerra e la distruzione dei beni culturali: la schizofrenia della guerra, le devastazioni che hanno colpito il patrimonio durante il lunghissimo secolo breve, fino alla caduta dell’Unione Sovietica e al crollo del muro di Berlino. Dobbiamo richiamare le terribili devastazioni da parte dell’ISIS in Medio Oriente. Palmira, Ninive, Mosul, Aleppo. L’UNESCO ha affrontato il problema delle nuove sfide con lavori dedicati alla previsione del rischio, alla risposta civile di fronte ai crimini contro il patrimonio, al genocidio culturale, alla protezione del Cultural Heritage, ai conflitti, con un primo tassello che deve necessariamente richiamare la Convenzione per la protezione di beni culturali in caso di conflitto armato stipulata a L’Aja nel 1954 che prevede come le Parti Contraenti si impegnano ad assicurare l'immunità dei beni culturali sotto protezione speciale astenendosi, a decorrere dall'iscrizione nel Registro internazionale, da ogni atto di ostilità. Recentemente Silvia Chiodi ha scritto nel volume sui Beni Culturali e i conflitti armati (Le sfide e i progetti tra guerra, terrorismo, genocidi, criminalità organizzata) che <<Il patrimonio culturale è di tutti, un raro caso in cui ogni essere umano dovrebbe essere consapevole che omnia sunt communia. A tutti appartengono il patrimonio italiano, quello cambogiano e quello siriano>>. Lasciamo da parte in questa sede la vicenda notissima dell’attentato al Museo Nazionale del Bardo di Tunisi del 18 aprile 2015: le ferite sono ancora sanguinanti e il Museo è di nuovo chiuso. Ma <<la Tunisie restera debout>>. Tra le regioni che più hanno sofferto c’è sicuramente il Libano, che soprattutto durante la guerra civile, ha subito saccheggi e spoliazioni; più in generale, tutto il Vicino Oriente, gli scavi clandestini e l'alimentazione del mercato antiquario con cimeli di dubbia provenienza rappresentano una piaga diffusa. Ma come dimenticare Betlemme, il muro, le tracce della sparatoria nel chiostro della chiesa francescana, la sofferenza dei palestinesi ?
Devastazioni abbiamo osservato in Iraq ad Hatra, a Mossul nel Museo, dal 2003. Ancora in Iraq il saccheggio e la devastazione del museo di Baghdad durante l’operazione Antica Babilonia e la seconda guerra americana del Golfo. La storia e la ricchezza culturale della Siria, Palmira, Dura Europos e Aleppo, rivelata al mondo anche grazie all’impegno di centinaia di archeologi, ricercatori e viaggiatori, rischia ora di scomparire: nonostante il conflitto armato e i pesanti danni, la comunità civile e gli esperti locali hanno provato a salvare lo straordinario patrimonio archeologico siriano e continuano quotidianamente a farlo nelle aree a rischio di saccheggio. Ci sono associazioni che tentano di promuovere la cultura per contribuire alla tutela dei siti di interesse archeologico; formare personale qualificato per la tutela dei beni culturali; avviare collaborazioni intrernazionali. Proprio uno dei siti UNESCO in Siria, Palmira, ha subito nel 2015 un affronto terrificante per mano dell’ISIS il teatro romano adiacente al tempio di Bel, fatto esplodere con la dinamite nel 2015 con altri templi, le tombe a torre, l’arco onorario. Vogliamo ricordare Palmira per il suo massimo archeologo ed epigrafista, Khaled al A’sad, decapitato il 18 agosto 2015 dopo un mese di terribili sofferenze. All’epigrafia latina è dedicato l’importante articolo di Kaled As’ad sulla “Revue des études anciennes” del 2002,, con 31 iscrizioni trilingui, in latino, greco, palmireno. L'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ha ricordato come l'uccisione di Khaled al-As’ad sia stata un'esecuzione pubblica, alla quale hanno assistito decine di persone. Poi i miliziani del DAESH hanno spostato il corpo dell'anziano archeologo, appendendolo a una colonna dell'antica capitale imperiale, perché non aveva voluto rivelare il luogo dove erano stati nascosti reperti romani del sito. Ci rimane nel cuore la sorte del nostro amico archeologo siriano nei primi giorni della “primavera araba”, dopo un mese di torture, magari per inseguire microscopici obiettivi di parte, tra speculazione, traffici illeciti, bieco affarismo. Il progetto dell’Isis nei confronti del patrimonio archeologico era chiaro: l’iconoclastia non è un fatto nuovo nella storia e non è sostenuta da alcuna motivazione sincera. Non c’è più oriente o occidente, romani o arabi, cristiani o musulmani, se ad esempio in Libia abbiamo potuto contare oltre cento siti islamici distrutti dal Daesh nello scontro tra sciiti e sunniti; ne abbiamo tratto un appello all’Unesco e all’Alecso. L’anno successivo l’orchestra del Teatro Marinskij di San Pietroburgo diretta da Valerj Gergiev ha tenuto un emozionante e indimenticabile concerto nel teatro devastato.
È passata molta acqua sotto i ponti e si è arrivati al riconoscimento dei beni collocati nel patrimonio dei beni mondiali immateriali, nella prospettiva dell’agenda 2030 e dello sviluppo sostenibile. Temi che in questa sede possiamo solo sfiorare, anche perché la guerra rischia ancora di cancellare l’uomo dalla storia, per usare le parole di Papa Francesco: scrivo nei giorni delle rinnovate preoccupazioni per i Musei di Leopoli o di Odessa, mentre osserviamo i cittadini portare in salvo le opere d’arte esposte ai bombardamenti, con un’interminabile guerra che non riesce a trovare le sue giustificazioni e allunga sempre più le sue ombre. Lev Dodin, il grande regista teatrale russo, direttore del Malyj Teatr, su Liberation ha scritto che <<La missione dell'arte e della cultura è sempre stata ed è ancora, soprattutto dopo tutti gli orrori del XX secolo, quella di insegnare agli uomini a prendere le disgrazie degli altri come proprie, a capire che non c'è una sola idea, anche la più grande e la più bella, che valga una vita umana. Possiamo già dire oggi: ancora una volta, la cultura e l'arte hanno fallito la loro missione>>. Il 21 agosto scorso in un attentato a Mosca, sotto gli occhi del padre, è stata uccisa Darya Dugina, la figlia dell’idelogo di Putin Alexandr Dugin. Sull’altro versante il direttore del Kherson Music and Drama Theatre di Kherson Yuriy Kerpatenko è stato ucciso dai militari russi il 14 ottobre per non aver concesso un concerto agli occupanti. Per non citare il filologo ucraino Olexander Kisliyk, il primo caduto, nel marzo scorso.
Se solo i belligeranti in questi mesi arrivati fino alla centrale atomica di Zaporizhzhia potessero rinsavire, la lettera Z dipinta sui carri armati che evoca Za pobedu potrebbe trasformarsi nella vittoria di tutti, non in senso militare ma per la diplomazia internazionale, la ragione e l’umanità. Ma ancora non si arriva al cessate il fuoco. Eppure ci sarebbero tante ragioni per un Mediterraneo, che comprenda anche la Russia.
Il Presidente Mattarella alla Comunità di Sant’Egidio il 21 ottobre ha affermato: «La sciagurata guerra mossa dalla Federazione Russa contro l’Ucraina rappresenta una sfida diretta ai valori della pace, mette ogni giorno in grave pericolo il popolo ucraino, colpisce anche il popolo russo, genera drammatiche conseguenze per il mondo intero. Quell'aggressione stravolge le regole, i principi e i valori della vita internazionale». E la martoriata Ucraina di Papa Francesco, che pure aveva denunciato l’abbaiare della NATO alle porte della Russia. Le camere di tortura: gli ucraini vittime di una «aggressione inaccettabile, ripugnante, insensata, barbara, sacrilega», il 17 ottobre scorso. Nessuna motivazione politica ideologica anche alta può giustificare l’uccisione di civili: <<Chiedo in nome di Dio che si metta fine alla follia crudele della guerra. La sua persistenza tra noi è il vero fallimento della politica. Il commercio internazionale di armi>>. Venga estirpata dal pianeta l'arma atomica: <<L'esistenza delle armi nucleari e atomiche mette a rischio la sopravvivenza della vita umana sulla terra. Non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta. Non c'è mai posto per la barbarie bellica. La guerra è anche una risposta inefficace: non risolve mai i problemi che intende superare>>. Il Pontefice indica la via della soluzione: <<servono dialogo, negoziati, ascolto, abilità e creatività diplomatica, e una politica lungimirante capace di costruire un sistema di convivenza che non sia basato sul potere delle armi o sulla dissuasione>>.
Lasciatemi tornare ad Alghero alla fine di questo intervento: accanto alla Casa del Fascio in Piazza San Marco a Fertilia sorge un monumento moderno di Mario Nieddu, pensando a Ferrara, ai profughi istriani, di Fiume e Dalmazia, a quelli della Libia, con scolpite le semplici parole di Gino Strada: SE AMI LA PACE, COSTRUISCI LA PACE.
Attilio Mastino