Presentazione del volume di Christine Hamdoune Ad fines Africae Romanae.

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Scritto da Administrator | 11 Novembre 2018

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Attilio Mastino
Presentazione del volume di Christine Hamdoune
Ad fines Africae Romanae
Les mondes tribaux dans les provinces maurétaniennes, Ausonius Éditions Scripta antiqua 111,  (LabEx Archimède, Archéologie et histoire de la Méditerranée et de l’Égypte anciennes), Bordeaux 2018
Tunisi, 7 dicembre 2018

Cristine Hamdoune professoressa emerita all’Université Paul-Valéry di Montpellier 3 raccoglie in questo documentatissimo volume i risultati di una feconda attività di ricerca quasi trentennale iniziata sui MEFRA nel 1993 con l’articolo dedicato a Tolomeo e alla localizzazione delle tribù della Tingitana, momenti che in parte abbiamo condiviso già in occasione del nostro viaggio di studio nella Volubilis di Edemone vent’anni fa oppure in tante altre circostanze, come per il XIV convegno de L’Africa Romana svoltosi a Sassari nel 2000, dove ha sintetizzato il tema delle controverse relazioni tra la Mauretania occidentale e la Mauretania orientale; oppure per il XV congresso di Tozeur sui processi di acculturazione delle l’acculturation des “gentes”della Cesariense.

Per il XVI congresso di Rabat nel 2014 aveva messo a frutto il tema dei movimenti di popolazione nei carmina funerari africani. Sempre con la capacità di rielaborare la lezione dei suoi maestri come Jean-Marie Lassère (Ubique amici nel 2001) e  mettendo a frutto i risultati delle indagini archeologiche condotte a Banasa, a Tingi, a Volubilis,in tanti altri luoghi delle Mauretanie.

Nel XIX Convegno ci aveva presentato il tema del potere all’interno dell’organizzazione tribalke in Cesariense  partendo da Ammiano Marcellino, tema che aveva ripreso ad Alghero per il XX convegno nel 2013, attenta alle discontinuità e alle trasformazioni, all’alternarsi dei momenti di continuità e di rottura, all’organizzazione delle comunicazioni, alle tematiche militari, al peso della geografia nella storia, agli aspetti istituzionali delle gentes e dei gentiles, dal viaggio di Massimiano fino Vandali e poi all’apertura all’Islam, in un mondo articolato e complesso diviso in regni locali fortemente vitali.

Christine aveva affrontato il tema delle Nationes in rapporto allo spazio provinciale, ovviamente tenendo conto della relazione che un populus aveva nei confronti di un luogo geografico di origine: le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma (nationes exterae), spesso chiamate a far parte degli auxilia di cui al volume del 1999. Altre volte il termine natio era usato per indicare popoli ostili alla Res pubblica oppure etnie definite etnocentricamente “barbare e arretrate”, rispetto alla cultura di cui i Romani si ritenevano portatori primi.

In epoca imperiale questa nozione era riferita soprattutto ai peregrini che abitavano ampie aree all’interno dello spazio geografico dell’impero con frontiere che vanno sfumandosi ai suoi margini e che conservavano le loro tradizioni e, se si vuole, una propria cittadinanza, in qualche caso alternativa alla cittadinanza romana: natio è dunque la comunità di diritto alla quale si apparteneva per vincolo di sangue, partendo dalla terra nella quale si era nati, dal luogo d'origine, di appartenenza o di provenienza. Il termine era utilizzato di frequente per indicare anche gli africani che abitavano fuori dall’impero romano e che avevano una propria lingua e tradizione.   In ambito provinciale la questione aveva importanti contenuti culturali e giuridici, in relazione al rapporto tra la cittadinanza romana e gli iura gentis, cioè le tradizioni giuridiche locali dei peregrini, che sopravvivevano all’interno di una provincia romana, come testimonia ad esempio la celebre tabula Banasitana per i Baquati. Quanto questo tema sia rilevante per le aree di confine, poste “dentro” e “fuori” rispetto a quei fines che segnavano l’impero, in particolare nei mondi rurali e marginali, è documentato dalle manifestazioni artistiche, ad iniziare dalle stele libiche come ad Abizar oppure dalle stele libico-romane come a Castellum Tulei in Kabilia della nostra copertina; dall’epigrafia, dalle fonti geografiche, dall’urbanistica, fino ad arrivare agli autori arabi che riescono a far trasparire, pur in un processo di profonda trasformazione, eredità multiple che incredibilmente sopravvivono nei secoli, per tanti aspetti diversi, con una sostanziale conferma nel tempo della percezione geografica originaria che ha determinato la nascita delle province e la formazione di cantoni e distretti differenti.

Naturalmente il punto di partenza è rappresentato dal volume di Y. Moderàn su Les Maures et l’Afrique romaine (IVe –VIIIe siècle), pubblicato a Roma nel 2003, con attenzione soprattutto per i “secoli oscuri” dei Mauri in Tripolitania, Bizacena, Proconsolare e Numidia: ma ora il discorso si sposta ad occidente verso la Tingitana e soprattutto rimette in discussione, attraverso le interpretazioni più recenti fino a Jehan Desanges, Philippe Leveau, Paul Albert Février, Claude Briand-Ponsard, David Mattingly, Jen-Marie  Lassère, Michel Christol, categorie e schemi troppo semplici e superati di una prospettiva romano-centrica che hanno influenzato la storiografia di età coloniale ma che in modo quasi sotterraneo arrivano quasi fino ai nostri giorni: il tema dell’incontro tra culture, il rifiuto di una egemonia assoluta della cultura romana, il superamento della tesi aprioristica della sottomissione dei Mauri, della fusione indistinta tra culture diverse o alla rovescia della resistenza alla romanizzazione, che tanto ci hanno appassionato, con la pretesa di irrigidire la realtà entro categorie anche nuove (il meticciato), che pure non si rivelano efficaci. Come diceva Marco Tangheroni nel suo volume postumo gli storici rischiano spesso di trasformare la storia in una disputa teologica, dimenticando l’oggetto stesso della ricerca, proponendo generalizzazioni che cercando di spiegare una realtà complessa. Ovviamente non possiamo rinunciare a stabilire connessioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizzazione del passato, per comprendere e spiegare: l’inquietudine sul proprio mestiere dovrebbe sempre accompagnare gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi. Dunque cosa conosciamo, come conosciamo, quali sono i limiti della nostra conoscenza, quali ne sono le fonti, elementi tutti che danno al mestiere dello storico un carattere artigianale e addirittura artistico e che rendono fondamentale la fase di apprendistato nella quale i maestri debbono seguire i loro allievi, con spirito laico e aperto, evitando gli schematismi e le generalizzazioni.

Questo volume è fortemente ancorato ai dati disponibili, al ruolo della geografia nella storia specie nelle regioni di frontiera, alle fonti, che erano consapevoli della estrema diversità delle popolazioni autoctone locali (500 tribù per Plinio operavano tra l’Atlantico e l’Egitto, innumerabiles gentes per Agostino) e non trascuravano il rapporto tra città e campagne e le relazioni pacifiche e non conflittuali che a seconda dei luoghi e delle circostanze storiche emergono chiaramente attraverso il tempo. L’A. ritiene che si è privilegiato per troppo tempo l’aspetto conflittuale delle relazioni tra Roma e i popoli libici organizzati in gentes, tanto da dare l’impressione di province fragili e poco pacificate, sottoposte alla violenza dei popoli collocati all’interno del limes ma anche alla spinta delle tribù nomadi provenienti dal Sahara. Insomma è necessaria ora una visione “plus nuancée” dei rapporti tra il governo romano in sede provinciale e i capi delle gentes rurali ma sedentarie, più o meno isolate, con un ridimensionamento delle dimensioni distruttive delle c.d. rivolte maure dei primi tre secoli; e con la consapevolezza che il governo imperiale ha operato <<pragmaticamente>> con una serie di controlli fiscali, amministrativi, di polizia, ideologici>> tali da consentire col minimo sforzo di conseguire obiettivi specifici (A. Ibba).

La prima parte del volume è dedicata a L’emprise du monde tribal sur un éspace géographoique contraignant, un miliéu geografico che favorisce tuttora le comunità agropastorali più o meno autosufficienti, con una grande differenziazione tra la Tingitana, la Cesariense occidentale e quella orientale; la geografia determina in qualche caso le forme di occupazione del territorio e fissa limiti precisi al nomadismo delle tribù, prevalentemente sedentarie. Nelle due Mauretanie emergono tutte le difficoltà dei Romani a dominare gli spazi, a sviluppare la colonizzazione, a concedere promozioni municipali, a estendere il fenomeno urbano, con la necessità di introdurre presidi militari a controllo delle comunità non urbane, le gentes tribali che sono caratterizzate da forme di mobilità che non sempre possiamo ricostruire nel tempo. Assistiamo ad una diseguale evoluzione delle gentes foederatae verso le civitates e addirittura in alcune aree verso i municipi o le colonie, ma con forme nettamente distinte dai processi ben noti in Africa Proconsolare, una dicotomia ufficializzata già attraverso la monetazione di Adriano che distingue le Mauretanie dall’Africa. E del resto già la decisione di Claudio di sostituire al regno di Giuba II e di Tolomeo due province distinte separate dal fiume Moulouya era ben giustificata, se poi emergeranno profonde differenze  tra la romanizzazione della Tingitana e la Cesariense: la Mauretania atlantica fu abbandonata quasi completamente già nel III secolo di fronte all’iperattivismo dei Baquati guidati dai principes constituti e poi dai reges, protagonisti dei conloquia con gli ultimi governatori provinciali, per quanto l’A. ritenga che i mondi tribali della Tingitana finiscano per essere più o meno periferici e non si evolvano realmente. Viceversa la Cesariense fu fortemente condizionata dalla vicina Numidia, progressivamente orientata con la nova praetentura severiana verso Sud, ben urbanizzata a dispetto dei disordini che conosciamo soprattutto nella seconda metà del III secolo tra il Monte occidentale Ouarsenis (in berbero Warsnis), la Piccola Kabilia (Béjaïa), i territori a S del Mons Aurasius, con le gentes spesso adtributae alle comunità urbane oppure externae, quae sub nulla sunt potestate Romana per Agostino. Eppue possiamo registrare profonde influenze culturali romane e del cristianesimo anche all’interno delle gentes che non per questo perdono la propria identità, inizialmente sotto il controllo dei praefecti gentis o nationis, più o meno legati al governo provinciale. Le fonti geografiche e letterarie latine e greche ci consentono di conoscere almeno i nomi di un limitato numero di populi che facevano uso di una scrittura locale, che riflette varie lingue autoctone fin qui poco conosciute; l’unità di scrittura non corrisponde ad un unico alfabeto a causa della totale assenza di normalizzazione linguistica e dell’esistenza di una varietà di linguaggi libici, imparentati tra loro e sicuramente collegati con il berbero parlato ancora oggi. E questo sia con riguardo alle tribù che vivevano a ridosso dei municipi e delle colonie romane, come quelle più eccentriche e marginali (Mazices e Quinquegentanei) o periferiche rispetto al limes provinciale come i Baquati o, in Cesariense, i Bavari.

La II parte del volume è intitolata Un cadre politique et culturel profondément modifié dans l’Antiquité tardive, a partire dall’aggregazione funzionale di quel che restava della Tingitana a Nord del fiume Loukkos e di Lixus alla diocesi delle Hispaniae con Diocleziano. Negli stessi anni, la nascita della provincia Sitifense a oriente della Cesariense segnala gli effetti principali delle politiche romane nelle aree collocate a ridosso della Numidia, più aperte alle influenze culturali centrali: densità ineguale della popolazione e degli insediamenti urbani e forme ben distinte della valorizzazione agricola dei fundi mauri, spesso a ridosso delle antiche proprietà imperiali, che finiscono per orientare l’insediamento. Le aree più vicine al confine della Numidia, se appaiono anch’esse conservare l’organizzazione tribale, risultano più integrate e meno isolate e le gentes finiscono per risultare profondamente cristianizzate, come i Mazaces della Numidia o i peregrini dell’episcopato Ceramusensis della Sitifense. Se è vero che i castella della regione di Sitifis sono rimasti costantemente in possesso di una forma significativa di autonomia, i contadini anche se romanizzati solo in parte, finirono per essere integrati nel sistema politico e giuridico romano, senza possedere un proprio ius gentis, ma riferendosi e agganciandosi alle colonie o ai municipi vicini o anche ai latifondi imperiali articolati in vici e castella, con villaggi che pur mantenendo alcune istituzioni tribali (principes, seniores), arrivano talvolta alla condizione municipale. Queste comunità sono talora divenute sedi vescovili rurali che si aggregano alla chiesa di Cartagine, dove si è andato sviluppando il culto dei martiri. Con una differenza sostanziale tra le regioni degli altipiani, dove l’organizzazione tribale sembra scomparire progressivamente, e le regioni montuose della Sitifense contigue alla Cesariense (Hodna) dove ritroviamo dei limites nei quali gli originari castella alla fine dell’età severiana erano pervenuti alla condizione municipale (Equizeto, Thamascani, Thamallula, Lemnellef), ma con qualche flessibilità se ad es. Sertei conserva l’organizzazione tribale all’interno dei praedia imperiali.

In Cesariense viceversa l’urbanizzazione meno intensa spiega la forza e la rilevanza dell’organizzazione gentilizia local , tanto che per difendere la pace all’interno della provincia i Romani finiscono per essere costretti ad appoggiarsi progressivamente sulle élites tribali maure, sui notabili locali, che adottavano comportamenti romani, assumevano titoli come quello di praefecti gentis e fornivano reclute per i distretti militari del limes.  La nuova interpretazione delle testimonianze archeologiche porta a ridimensionale il numero delle “forteresses romaines” e a riconoscere l’autonomia delle aristocrazie maure in possesso di estesi latifondi, che mantengono i segni esteriori del potere romano ma insieme ereditano valori tradizionali locali. La guerra di Firmo (figlio di quel Nubel velut regulus per nationes Mauricas potentissimus) iniziata nel 370, alimentata dalla dissidenza maura, testimonia i limiti di questa politica che comunque giunge sino al momento dell’arrivo dei Vandali, con un progressivo distacco dall’autorità centrale preceduto dalla rivolta di Gildone. Una straordinaria espressione attribuita al primate d’Africa Aurelius anni dopo in occasione del Concilio di Cartagine del 397 testimonia l’isolamento progressivo delle Mauritaniae, positae in finibus Africae e troppo contigue al Barbaricum, che non dovevano pretendere una visita pastorale da parte del vescovo di Cartagine come non lo facevano gli Arzuges a Sud della Tripolitania e della Bizacena, anche perché per i Mauri forse era più semplice mantenere un rapporto con la sede apostolica romana. Si arriverà ad Agostino che sostiene che la Mauretania Cesariense rifiutava di appartenere all’Africa (nec Africam se vult dici), ma forse Claude Lepelley aveva ragione a parlare di “snobisme carthaginois” nei confronti delle aree più periferiche e lontane dalla capitale. Del resto si tratta di processi che si sviluppano progressivamente nel tempo, tanto che con l’invasione vandala emergono potentemente i regni mauri autonomi che si liberano della tutela vandala e che ormai gravitano più che sul Mediterraneo verso le aree sahariane; l’occupazione bizantina non modifica questo quadro, con l’eccezione di Sitifis fortemente presidiata dall’impero.

La terza parte del volume è dedicata proprio a Les temps des royaumes maures (Ve-fin di VIIe siècle): l’A. dimostra che l’organizzazione provinciale in qualche modo sopravvive con i Vandali e con i Bizantini, con una riorganizzazione per gruppi tribali allargati sottoposti a basileoi locali, senza che venga a cadere la latinità e il cristianesimo, pur con le profonde differenze tra la Mauretania occidentale e la Sitifense. L’A. ipotizza l’esistenza di più regni mauri che riuniscono popolazioni di origini diverse, in particolare un vero e proprio stato multietnico, quello dei Mauri “du premier cercle” a suo tempo riconosciuti da Roma che comprendeva anche i romano-africani fedeli alle tradizioni latine urbanizzati sotto il dominio dei Bavari del djebel Amour, pian piano capaci di controllare un regno multiculturale che dalla Moulouya arrivava fino all’Ouarsenis. E uno Stato “du deuxième cercle”, che comprendeva i Mauri installati nella provincia all’inizio del V secolo, che si è progressivamente affermato nella parte più occidentale della Cesariense. Viene affrontato il ruolo unificatore del cristianesimo, alla base di una cultura mista originale. Meno informazioni possediamo sul regno di Hodna, anche se da al-Nuwayrî sappiamo che il sovrano locale si appoggiava sui notabili mauri. Su scala più ridotta l’A. individua il regno degli Ucutamani. Tra l’antica Tingitana e la Mauretania occidentale si collocano i Baquati sull’Atlantico ed i Macurebi à Est tra la Kabilia e la vallata dello Chelif, eredi dei Mauri del primo cerchio, destinati però a perdere completamente i contatti con la latinità e poi con il cristianesimo nel corso del VI secolo, almeno per i Baquati. Si arriva all’VIII secolo per il crollo anche in Cesariense alla vigilia dell’arrivo degli Arabi, di fronte alla spedizione di Mûsa ibn Nusayr.  E’ ridimensionato il significato dell’origine maura del principe Awraba Kusayala.

Vengono esaminati i dati – per la verità abbastanza sintetici -, forniti dalle più antiche fonti arabe su quelli che ora vengono chiamati i Berberi, gli Imazighen dei nostri giorni, capaci di mantenere le loro strutture sociali più antiche in territori che continuano ad essere ben distinti: la Sitifense orientale più vicina alla Numidia è ora chiamata Zab, la Cesariense Sûs al-Adna e la Tingitana Sûs al-Aqsa: come se le differenze geografiche e culturali fotografate dall’organizzazione romana venissero ancora percepite in età araba.

Le fonti principali sono Ibn Khaldûn sui Beni Ifren e i Magrâwa, al-Ya’kûbî (IX secolo) sugli Anbiya del Sûs al-Aqsa (all’interno del più vasto popolo dei Şanhâdja, all’ovest dell’Hodna colloca i Banu Yarniyân lo stesso autore).  Inoltre il geografo persiano Ibn Khurdâdhbah. Si tratterebbe del popolo dominante nello Zab, le regioni meridionali della Sitifense.  Al-Nuwayrî precisa che esisteva un sovrano dello Zab, circondato da molti principi, che governava un ampio territorio collocato presso la città di Arba (a occidente dell’antica Tubunae), abitata ancora da Rūm e da Cristiani: la principale città dello Zāb, è talora indicata come Adna (Al Raqiq, Al Bakri), Adhna (Ibn Khaldūn), Arba (Al Nuwayri, Ibn al Athir) et Azba (Ibn Khaldūn). Più a ovest, abbiamo il vago ricordo di un numero notevole di Berberi ostili alla conquista araba. Come già in età bizantina, la Mauretania dei primi secoli dell’occupazione araba è una terra popolata da popolazioni africane, come i Berberi del Sûs al-Adna, un popolo senza religione che vivevano come selvaggi e non conoscevano il vero Dio.

A partire dal XIV secolo le notizie fornite dal massimo storico e filosofo del Maghreb Ibn Khaldûn (Walī al-Dīn ʿAbd al-Raḥmān ibn Muḥammad ibn Muḥammad ibn Abī Bakr Muḥammad ibn al-Ḥasan al-Ḥaḍramī) ricostruiscono a posteriori e con attualizzazioni la vicenda dei regni mauri al momento della conquista con un’affidabilità davvero dubbia, sovrapponendo notizie appartenenti ad epoche differenti, tanto che dovremmo riconoscere la nostra ignoranza sul tema dell’organizzazione territoriale di Mauri alla fine del VII secolo.

Ultimo aggiornamento Domenica 11 Novembre 2018 19:50