Convegno “Pellegrinaggi e luoghi santi nella Sardegna medioevale e moderna”
Cagliari 20 giugno 2025
Questo convegno su Pellegrinaggi e luoghi santi nella Sardegna medioevale e moderna ha una necessaria premessa: dobbiamo occuparci della fase tardo antica e bizantina, sulla quale spesso si sorvola per la paura di incorrere nei falsi, nei sancti innumerabiles barocchi, anche se la pratica religiosa ha radici profondissime, che è necessario tener presenti se si vuole davvero comprendere il tema della lunga durata e della rete di relazioniculturali che precedono l’età giudicale, senza la paura di affidarci ad una documentazione che arriva indietro in alcuni casi quasi all’età delle persecuzioni.
A Roma i cristiani celebravano l’eucaristia presso le tombe dei martiri, spesso situate nelle catacombe, veri luoghi sacri: qui il cielo e la terra si incontravano. Queste celebrazioni rafforzavano il senso di comunità e di continuità tra i vivi e i defunti nella fede; al momento della morte, i fedeli potevano farsi seppellire nelle vicinanze della tomba di un martire: il che finiva per esser considerato un privilegio speciale, che veniva ricercato fin dalle origini del cristianesimo, perché si accompagnava ad una promessa di sopravvivenza, garantendo effettivamente la vittoria sull’oblio dopo la morte, anche per la frequenza con la quale si celebravano le ricorrenze liturgiche per ricordare il martirio dei santi vicini, in qualche modo comites del defunto. Il credente poteva così sperare nell’aiuto miracoloso dei santi sepolti a breve distanza da lui, che in qualche modo si sarebbero potuti occupare della quies e della securitas delle ossa e della protezione della tomba, evidentemente destinata, quest’ultima, a divenire essa stessa luogo di devozione e di preghiera e dunque protetta dalla venerazione dei fedeli che frequentavano la necropoli privilegiata. Sono i santi vicini che intercedono presso il Signore in favore dei defunti sepolti con loro e che un domani, arrivata l’ora del giudizio finale, daranno al corpo l’impulso per rinascere nella risurrezione. La sepultura ad sanctos, [ad] martyres, ante specum martyrum, ad sanctorum locum, è una costante nell’epigrafia funeraria già dal IV secolo in tutto l’impero e anche in Sardegna, perché il defunto risorgerà assieme ai santi: resurrecturus cum sanctis, come a presso Carthago Nova, dove il prete Crispinus affida la tomba alla protezione dei martiri, [ut cu]m flamma vorax ve[n]iet comburere terras, ce[ti]bus s(an)c(torum) merito sociato resurgam, hic vite curso anno finito (affinché quando la fiamma vorace giungerà a bruciare le terre, io possa risorgere, meritatamente associato ai santi, qui, una volta terminato l’anno della mia vita).
Nella liturgia esequiale medioevale l’espressione In Paradisum deducant te Angeli; in tuo adventu suscipiant te Martyres, et perducant te in civitatem sanctam Jerusalem, con i verbiverbi incalzanti ducant-suscipiant-perducant, richiama il movimento verso quella realtà ultraterrena che è la santa Gerusalemme. Vedremo che queste espressioni sono tarde ma in parte ricorrono sei secoli prima a Turris Libisonis nel IV secolo per la Puella dulcia Ad[e]odata a sanctis marturibus suscepta, la dolce fanciulla Adeodata, accolta dai santi Martiri. Mentre era ancora promessa sposa, abbandonò la vita sul far dell’alba nel giorno mercoledì 16 dicembre. Ella visse circa 16 anni; morì vergine. Raimondo Turtas era convinto che l’espressione sarda sia non solo precedente ma anche autonoma dalla liturgia esequiale romana medioevale, evidentemente fondata su fonti comuni.
A partire dal IV secolo, forse già prima, a Roma le tombe dei martiri divennero mete di pellegrinaggio, e su di esse sorsero basiliche e santuari, i martyria. Alla vigilia del sacco del 410 da parte dei Visigoti, formulando quasi una premonizione, Girolamo scriveva nel 403 dalla lontana Palestina, nell’anno del trionfo di Onorio su Alarico osservando con dolore ma anche con speranza: «il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnatele hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le sono proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accorre alle tombe dei martiri», in particolare San Pietro e San Paolo: auratum squalet Capitolium; fuligine et aranearum telis omnia templa cooperta sunt; movetur urbs sedibus suis et inundans populus ante delubra semiruta currit ad martyrum tumulos. Per usare le parole che Agostino pronunciò con riprovazione l’anno dopo nell’omelia recitata nella basilica della nostra Thignica, il municipio africano dove abbiamo in corso gli scavi, era passata solo una generazione da quando tutti gli abitanti erano pagani e servivano i demoni. L’abbiamo ritrovato Agostino a Pavia e a Milano presso il Centro Ambrosiano e la Biblioteca rileggendo le Confessioni: <<Et veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum, in optimis notum orbi terrae, pium cultorem tuum, cuius tunc eloquia strenue ministrabant adipem frumenti tui et laetitiam olei et sobriam vini ebrietatem populo tuo>>. L’abbiamo ritrovato, Agostino di Ippona, nei nostri luoghi in Africa o in Sardegna, come a Thignica o a Carales, qualche anno dopo, con un’emozione che mi è ora davvero difficile descrivere.
Se torniamo proprio alla Sardegna, conosciamo non pochi fedeli morti nell’isola, lontano dalla propria patria, il cui corpo fu oggetto di venerazione prima e poi trasferito nelle catacombe romane: solo per fare alcuni esempi ricorderemo almeno il vescovo di Roma Ponziano e il presbitero Ippolito nell’età di Severo Alessandro, deportati in Sardinia, in insula nociva; in eadem insula adflictus maceratus fustibus defunctus est III kal. Novemb. L’arrivo del successore Fabiano e di un gruppo di chierici giunti in Sardegna per recuperare le salme si presenta come un vero e proprio pellegrinaggio ad martyres.
Le iscrizioni ci fanno conoscere anche il caso del messo pontificio Annius Innocentius, un attivissimo acol(uthus), che ob eclesiasticam dispositionem itinerib(us) saepe laborabit: infine morì in Sardegna; le sue ossa furono traslate alla metà del IV secolo a Roma, nel cimitero di Callisto: postremo missus in Sardiniam, ibi exit de saeculo; corpus eius huc usq(ue) est adlatum. Non escluderei che questa missione ufficiale in Sardegna, svoltasi poco prima del 366, secondo Ferrua «nel pieno delle traversie subite dalla chiesa romana da parte degli ariani», possa essere collegata con le posizioni assunte da Lucifero di Cagliari: a recuperare il corpo venerato di Annius Innocentius arrivò forse una delegazione da Roma, ancora una volta in una sorta di pellegrinaggio devoto.
Come nel resto dell’impero, anche in Sardegna fin dai primi secoli del cristianesimo, la memoria dei defunti — in particolare di coloro che avevano sacrificato la vita per la fede in Cristo — fu oggetto di profonda venerazione da parte dei fedeli. Addirittura in età adrianea sarebbe morto Antioco, che si vuole cacciato in esilio dalla Mauretania per la sua adesione alla dottrina cristiana ed approdato secondo una dubbia tradizione alla Sulcitana insula Sardiniae contermina a bordo di una parva navicula. Conosciamo la topografia del santuario di Sulci, ove risplende per i fedeli che percorrono il corridoio sotterraneo l’aula ubi corpus beati sancti Anthioci quiebit in gloria virtutis; i restauri decisi dal vescovo Pietro sono stati effettuati per arricchire l’edificio di culto cultu splendore, marmoribus, titulis, nobilitate fidei, evidentemente ad edificazione dei numerosi visitatori; tituli ha il significato tecnico di epigrafi. Ci resta una copia in marmo dell’iscrizione musiva originaria, il titulus metricoche Antonio M. Corda ritiene quasi una “didascalia” collegata ad un’immagine del santo nella gloria.
Gli studi sui Martyriae Sardiniae, i santuari dei martiri sardi, sono stati completamente rinnovati a partire dal 2000, dopo l’opera di Pier Giogio Spanu, che ha in copertina il titulus di Luxurius che proviene dal luogo dove effusus est sanguis beatissimi martyris Luxuri, completamente restaurato al tempo del vescovo Elia a Forum Traiani, la capitale bizantina dell’isola, presso le sorgenti calde delle Aquae Ypsitane, in passato votate ad Esculapio e alle Ninfe Salutari ed ora al culto salutifero di Lussorio: da qui provengono le monete d’oro, i tremissi di Liutprando con le quali sarebbe stato acquistato il corpo di Agostino a Carales, quello di Lussorio, di Cisello e Camerino a Forum Traiani-Crisopoli; le reliquie arrivarono fino a Ticinum, Pavia. Sempre al 2000 risalgono gli studi di Antonio Corda sulle iscrizioni paleocristiane della Sardegna e di Ramondo Turtas sulla Chiesa in Sardegna fino al 2000.
Voglio ricordare anche il volume del 2006 sui Culti, santuari, pellegrinaggi in Sardegna e nella penisola iberica tra medioevo ed età contemporanea curato per il CNR da Maria Giuseppina Meloni e Olivetta Schena, con numerosi interventi che trattano il nostro tema, anche se il punto di vista tardo antico è molto trascurato. Proprio da questo volume si sviluppa il filone dei pellegrinaggi in Sardegna in età medioevale e, con l’articolo di Ignazio Grecu, le segnalazioni delle “orme dei pellegrini” che avevano costituito il tema della mostra promossa da Giampietro Dore nel 2001, con il relativo catalogo, da Tergu a Bisarcio, da Fordongianus a San Paolo di Milis, a Zuri. Infine, il mio allievo Giuseppe Piras ha recentemente presentato il santuario di Balai a Porto Torres, con i segni epigrafici del passaggio di pellegrini.
Credo sia ora giunto il momento di fare un passo in avanti sul tema specifico del pellegrinaggio in età tardo antica e bizantina e dunque ci concentreremo soprattutto sulle nuove scoperte che testimoniano l’esistenza di una pratica religiosa legata alle tombe venerate così soprattutto a Carales per Leontius, per Saturninus e per Agostino, ad Olbia, presso la basilica del martire Simplicio, a Turris Libisonis presso il santuario di Monte Agellu.
Per questo intervento abbiamo scelto due immagini della lastra decorata di Maximus, sepolto a Cornus in un sarcofago, coperto da un lastrone calcareo al cui interno era inserita la lastra, che testimonia una storia di redenzione. Il sarcofago era collocato entro uno spazio tra due absidi della basilica cimiteriale, spazio accessibile attraverso una fenestella confessionis, frequentata dai fedeli; con tutta probabilità siamo negli anni successivi all’arrivo di cristiani dal Nord Africa al tempo di Fulgenzio di Ruspe, esiliato dai Vandali all’inizio del VI secolo: la colomba e la nave, con i monogrammi A e Omega. Come è noto la tomba è stata scoperta nel 1956; ho avuto l’onore di lavorarci alla fine degli anni 70 e di esser scelto dal vescovo Giovanni Pes per accompagnare il pellegrinaggio del Card. Jozef Glemp nell’estate 1981. La colomba di Cornus è stata oggetto di recente dello studio frontale di mons. Pietro Meloni, ma compare anche sulle tombe a mosaico di Turris Libisonis. Non possiamo non rimandare al volume di Anna Maria Giuntella, Giuseppina Borghetti e Daniela Stiaffini, Mensae e riti funerari in Sardegna, la testimonianza di Cornus, che è un testo esemplare per ricostruire l’interazione tra vivi e defunti attraverso il refrigerium. Analoghe situazioni riguardano le reliquie di martiri africani trasferite in Sardegna nella stessa occasione, che favorirono lo sviluppo di forme di pellegrinaggio legate alla collocazione degli esiliati e delle reliquie da essi introdotte nell’isola, destinate a nuova chiese; a parte Cornus, di cui si è detto, come non pensare a Speratus ad esempio, uno dei martiri scillitani di cui ci restano gli Atti del martirio e tanti altri nel Campidano ? E a Carales ad alcuni dei martiri di Abitina uccisi nel 304? Infine, a pur titolo di esempio, al santuario di Santa Filitica sul mare di Sorso, che farebbe pensare ad una reliquia di Felicita, martire a Cartagine ?
Le recentissime scoperte in corso di pubblicazione sulle origini della Chiesa di Turris Libisonis ancora inedite e presentate da Gabriella Gasperetti, Alessandra La Fragola, Alessandra Carrieri nella domus dei mosaici marini dimostrano ora un aspetto centrale di questo intervento, il ruolo dei porti – di Turris così come di Carales e di Olbia – per l’arrivo della nuova religione in Sardegna e dimostrano che le strutture religiose sulla collina di San Gavino di Porto Torres – il Mons Agellus – sono decisamente posteriori ai primi insediamenti. Arrivati dalla penisola e stabilitisi alla foce del Fiume Mannu presso il porto sul mare, i primi cristiani costruiscono un edificio al piede della collina: la domus presenta un mosaico con l’espressione “Deo gratias qui praestitit (vitam)”, ovvero “grazie a Dio che ridato la vita ai morti”, un’espressione che forse anticipa il De correptione et gratia, 11, 29.30, scritto nel 427 da Agostino. Anche in questo caso da qui si sviluppa col tempo la nuova urbanistica della città cristiana, che poi si organizza attorno alla tomba di Gavino a Turris, ma anche di Simplicio ad Olbia e di Saturnino a Carales giustiziato nei pressi del porto, per non parlare di Efisio a Nora o di Antioco a Sulci, presso le tombe venerate. Infine la temporanea sepoltura di Agostino sul porto di Carales.
Proprio a Porto Torres non possiamo non citare la “matassa” di scritte sulle pareti dell’ipogeo di Balai (sto facendo mia l’espressione di Margherita Guarducci – si parva licet – per la tomba di Pietro) : qui la Passio colloca il martirio di Gavino, Proto e Gianuario. Pier Giorgio Spanu ha documentato i segni dell’ininterrotto culto riservato ai martiri presso l’originario ipogeo al quale si addossa la chiesa di Balai, le cui pareti sono segnate da numerosi graffiti, coperti in parte dal nerofumo dei ceri collocati su mensole: il palinsesto delle iscrizioni, molte delle quali evidentemente votive, permette di accertare l’esistenza di graffiti antichi: in alcuni casi i solchi delle lettere presentano spesse incrostazioni e precedono lo strato annerito creato dal fumo, elementi questi che potrebbero essere sintomi di maggiore antichità di queste lettere e segni graffiti rispetto ad altri: una croce monogrammatica con occhiello semicircolare che si conclude inferiormente presso la sbarra orizzontale della croce, altre croci e una palmetta; ora Giuseppe Piras segnala l’incisione di due croci sul Golgota, (una nella parete nord). Sappiamo che si tratta in alcuni casi di grafiti attribuibili ai fedeli che visitavano il celebre santuario, luogo della temporanea deposizione dei martiri: ma che fossero pellegrini che avevano attraversato il mare è tutto da dimostrare. Il fenomeno del resto è notissimo e ben studiato da Werner Eck, Gaffiti nei luoghi di pellegrinaggio dell’impero tardoantico che cerca di circoscrivere alquanto – forse troppo – il concetto di pellegrinaggio chiedendo un approfondimento caso per caso e, riferendosi soprattutto alla Terra Santa: << Il termine moderno indica in genere gli stranieri che lasciano temporaneamente la propria città natale, la patria, per raggiungere un luogo particolarmente venerato>>: andrebbero invece esclusi i fedeli che visitano abitualmente un santuario.
Effettivamente il problema esiste ed è rappresentato dal fatto che il termine peregrinus (specialmente nei carmina), che troviamo almeno quattro volte nelle iscrizioni paleocristiane della Sardegna, è generico, varia nel tempo e si applica inizialmente ai nativi privi della cittadinanza romana, anche dopo la consititutio antoniniana de civitate del 212; nell’isola dunque i sardi non cives, che sono per così dire stranieri in patria. Ma il termine indica anche gli stranieri veri e propri, anche cittadini romani, richiamati ripetutamente sulle iscrizioni paleocristiane della Sardegna per essere assistiti assieme alle viduae, alle matres, agli orfani, ai poveri, con riferimento alle notissime prescrizioni della Bibbia e dei vangeli. Potremmo citare una molteplicità di passi scritturistici, che sono certamente un punto di partenza essenziale. F. Grossi Gondi definiva peregrinus il fedele che viveva o era di passaggio, in una comunità cristiana, diversa da quella a cui era stato aggregato a mezzo del battesimo: citava alcune iscrizioni come ad esempio i pii subb[entores et hospi]tes peregrinorum. I pellegrini venivano soccorsi dalla pietà dei fedeli e, in Africa essi avevano degli ospizi presso le chiese, come si rileva dall’iscrizione del municipium Turcetanum dove si ricorda che hac porta domus est ecresie patens peregrinis et pauperibus. Tra gli elogi dei defunti si incontra il susceptor peregrinorum et hospitum, come a Sorrento. E poi le virgines peregrinae, gli infantes peregrini o pellegrini ecc. Temi che ricorrono esattamente anche in Sardegna, dove conosciamo gli elogia per personaggi dell’aristocrazia che si sono distinti per aiutare i peregrini, i pauperes, le viduae, gli orfani accolti in xenodochia, come ad Olbia, a proposito di uno xenodochium realizzato ad peregrimorum hospitalitatem. Il cristianesimo e le istituzioni ecclesiastiche seppero creare una formidabile rete di assistenza per il soccorso e la cura dei poveri ammalati. Anche l’Occidente latino fu in grado di sviluppare strutture per l’accoglienza e il ricovero dei poveri che si trasformarono in ospedali per ammalati. Mentre in oriente e in particolare in Egitto si distinguono i nosokomeia (ospedali), gli xenodocheia (luoghi di accoglienza) sino ai lochomeia (residenze per donne/maternità) o ad esempio i lebbrosari (kelyphokomeia), il lessico per designare i luoghi di cura in Occidente fu xenodocheion, termine generalmente usato per designare la struttura ospedaliera. Andrebbero riesaminati in questo senso il lessico epigrafico e i formulari cristiani nei quali spesso ci si imbatte in espressioni, talvolta superficialmente ritenute convenzionali e retoriche, come inopum refugium, peregrinorum auxilium oppure fautor che potrebbero piuttosto far riferimento alla presenza di xenodocheia citati in Sardegna da Gregorio Magno. Certo ilmeccanismo assistenziale, il concorso di strutture di accoglienza e le elargizioni di beni materiali, insomma in generale l’opera caritativa più o meno istituzionalizzata non erano alieni da disfunzioni.
A noi sembra evidente che il termine tardo antico e medievale latino di peregrinus non si sovrapponga a hospes, alienigena, àdvena, extraneus, barbarus o altro; esso è alla base anche del nostro pellegrino, che indica i fedeli devoti ad un personaggio venerato, ad un luogo sacro, ad un santuario, ad una memoria. Alcune testimonianze ci assicurano che peregrini sono coloro che, singoli o in gruppo, lasciano la propria comunità nativa per motivi religiosi, per recarsi in un luogo diverso, sacro: in alcuni sarebbe implicita la volontà di tornare in patria, per altri è essenziale l’abbandono della comunità nativa per motivi religiosi, la distanza di luogo rispetto al porto di sbarco in Sardegna. Per Eck, se si vuole stabilire la necessaria chiarezza definitoria che dovrebbe essere alla base di ogni lavoro storico, allora proprio la distanza spaziale tra la patria del “pellegrino” e il luogo di culto diventa il nodo per capire se noi abbiamo a che fare con il graffito di un pellegrino o solo con il graffito di un altro visitatore del santuario.
Se guardiamo al mondo romano, Lietta De Salvo ci ha insegnato in un contesto geografico preciso, quello della Gallia della seconda metà del VI secolo, che i pauperes, malati, che si recavano alla basilica di Tours, per invocare la grazia presso la tomba di san Martino (secondo la statistica di Luce Pietri circa il 70% sul totale dei pellegrini che si recavano a Tours) dovevano per la maggior parte essere modesti agricoltori, artigiani, pastori, servi e schiavi accomunati da scarsa o inesistente capacità economica e in molti casi da insufficienze alimentari a loro volta fonte di malattia. I pauperes spesso possono essere pellegrini sebbene non tutti i pellegrini siano pauperes in quanto, nel caso di Tours, conosciamo l’eterogeneità sociale dei pellegrini. Abbiamo detto che nelle nuove iscrizioni paleocristiane della Sardegna la parola peregrinus va tradotta pellegrino o straniero e compare almeno quattro volte spesso in associazione con pauperes.
Sarebbe utile stabilire, almeno indicativamente, l’affermarsi a livello epigrafico del parallelismo lessicale tra pauperes e peregrini: per la Sardegna ancora nella prima metà del IV secolo è attestato piuttosto il parallelismo peregrini-inopes, come si ricava dall’iscrizione di Matera, da Turris Libisonis con la lunga laudatio metrica della defunta, con l’espressione auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulgus, datata ora verso il 350 d.C. Per Matera ci troveremmo allora di fronte ad una tomba della metà del IV secolo, che conserva il corpo di una defunta vissuta 70 anni, nata dunque attorno al 280 d.C., lodata dal marito, dal populus e dal vulgus di Turris Libisonis; essa non ha avuto paura della morte (exitium nec timuit sed vicit omnia in Chris(to), cui lux erit perenni circulo fulcens)». Che ci muoviamo in pieno IV secolo è testimoniato dalle due vicine iscrizioni datate con anno consolare, l’epitafio di Musa del I giugno 394 e l’epigrafe del puer Victorinus del 25 ottobre 415, entrambe più tarde di alcuni decenni. I recenti scavi hanno dimostrato una la serrata sequenza stratigrafica, aperta con i mosaici funerari di Turritana e Pelagius [forse anche Pascasia ricordata dal genitor] e chiusa con l’epitafio di Musa datato con anno consolare al I giugno 394: prima di questa data dovremmo collocate nell’ordine la tomba di Matera (nr. 16), quella di Adeodata a sanctis marturibus suscepta, come si è visto con un esplicito riferimento ai martiri (tomba nr. 17) e infine di Musa (nr. 19).
Per Matera ci troveremmo allora di fronte ad una tomba della metà del IV secolo, che conserva il corpo di una defunta lodata dal marito, dal populus e dal vulgus di Turris Libisonis; essa non ha avuto paura della morte (exitium nec timuit sed vicit omnia in Chris(to), cui lux erit perenni circulo fulcens).
Una recente traduzione del testo:A Matera di buona memoria. Lei che spesso il popolo (vulgus) considerò soccorritrice degli stranieri (peregrini). Con il fulgido esempio della sua vita terrena dimostrò anche coraggiosamente alla sua stessa gente (populus dei cives) che tutti considerava come figli. Non ebbe paura della morte violenta ma superò ogni prova (confidando) in Cristo; a gloria di lei la luce risplenderà con un’aureola perenne; lei che Cristo stesso aveva destinato come genitrice delle vedove (matrum) e degli indigenti (inopum parentem). Per ciò il consorte racconta tali cose della dolce compagna. È vissuta 70 anni, 3 mesi, 15 giorni. Lei che è morta il 22 aprile.
Non possiamo escludere del tutto che i peregrini di cui si parla siano gli stranieri che visitavano il santuario martiriale poco dopo la morte di Gavinus, perché il nostro testo sembra conservare il ricordo della persecuzione, se abbiamo inteso bene l’anastrofe exitium nec timuit sed vicit omnia in Christo. E’ vero che Vincenzo Fiocchi Nicolai in occasione dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Cagliari, 2014) interpreta l’exitium nec timuit del testo, non come un accenno alla “morte non temuta” della donna durante la persecuzione di Diocleziano, ma più semplicemente come un riferimento alla concezione, tipica dei cristiani, della morte come evento ”da non temere”, in quanto passaggio alla vita ultraterrena; viceversa Paolo Cugusi ha accolto la suggestione (fin qui molto contrastata) di interpretare exitium del v. 4, come la morte violenta, come un collegamento al martitrio di Gavinus («exitium, scil. ‘martyrii’»). Fiocchi Nicolai non vedrebbe, invece, in Matera una donna scampata al martirio durante la persecuzione dioclezianea. Eppure il rapporto coi martiri sembra certo ed è rafforzato dalle recenti osservazioni – sul piano più strettamente archeologico e stratigrafico – di Franco G.R. Campus, che ricostruisce la nascita del culto di Gavinus e dei suoi compagni, spostando il luogo del supplizio a Balagai-Balai come già Giuseppe Piras, mentre il Mons Agellus (dove pure è documentata la continuità tra la necropoli pagana e quella cristiana) avrebbe ospitato i corpi santi solo in un secondo momento, secondo la versione che ormai sembra prevalere tra gli studiosi.
L’attributo auxilium peregrinorum è ben confrontato in Sardegna con l’epitafio di Secundus di Olbia ritrovato presso il martyrium del vescovo Simplicio CIL X 7995, inviato al Regio Museo di Antichità di Torino nell’Ottocento, oggi non reperibile anche se abbiamo affidato alla direttrice Elisa Panero un’indagine in proposito (Il dedicante si commuove ricordando come il defunto sia stato in vita inopum refugium e peregrinorum fautor): Alla buona memoria di Secundus, degno e dolcissimo per i suoi meriti, uomo di grande integrità, padre degli orfani, rifugio dei poveri, soccorritore dei pellegrinipatri orfanorum inopum refugium peregrinorum fautor), religiosissimo e impegnatissimo nel rigore davvero severo, egli che è vissuto all’incirca 70 anni. A lui che l’ha meritato Paolina sua moglie e Gianuario suo figlio fecero (riposi) in pace.
Nell’epitafio di Matera i termini populus e vulgus non sembrano sovrapporsi tra loro, se il primo indica forse i soli cives della colonia e il secondo i peregrini immigrati o i pellegrini, devoti che visitano il santuario. Il tutto va confrontato con plebs dell’iscrizione turritana che cita almeno un martur; la stessa espressione plebs in un testo metrico forse caralitano che fa riferimento alla venerazione dei visitatori nella necropoli di Sant’Avendrace: i visitatori sono la plebs semper venerans, cioè ‘plebs (populus, vulgus) laudans et deflens mortuum’, il defunto forse un Leontius, la cui anima è arrivata in cielo: [corpus ter]ra tegit, anima [ad astra volat] (?).
Per il resto, abbiamo già messo in evidenza il fatto che il nome femminile Matera è raro e che sembra evidente un lusus nominis, effettuato giocando con il contenuto dell’epitafio (quem matrum aut inopum decernerat ipse parentem). Ci sarebbero elementi per pensare ad un personaggio inserito nella classe sociale dei ricchi possessores: Matera, «munifica in pauperes» appare come un esponente di spicco della comunità turritana, una ricca proprietaria, un’aristocratica sicuramente in grado di far fronte con i propri mezzi ad un’azione caritativa a favore di un ambiente sociale degradato, che avrà avuto anche precisi costi economici. I commenti più recenti hanno messo in rilievo tra l’altro: la dedica originaria della lastra, che era agli Dei Mani in ambito pagano, poi corretta all’uscita dall’officina in B(onae) m(emoriae), quando fu inciso l’epitafio; gli aspetti metrici del carmen che sono estremamente significativi (dattili poco curati, parum boni); una serie di interpunzioni sembrano indicare la fine di ogni verso. Il giudizio finale di P. Cugusi è davvero importante: sed re vera fortasse novi generis, ut dicam, versus esse videantur, maxime in clausulis. Significativo il riferimento alla luce della vita eterna (lucendo al v. 2), che torna al v. 5 con la spiegazione di Cugusi (cui lux erit perenni circulo fulcens: scil. “illi (Materae) lux erit splendens in aeterno circulo”, i.e. “semper relucenti corona circumdata erit” pro meritis); il confronto più immediato con i gaudia lucis nobae di CLESard. 22non da Olmedo ma da Cagliari; si veda anche felici condita luci per l’Emerita forse di Carales. Al v. 6. viene commentata l’espressione inopum… parentem, che trova confronti in Sardegna e in tutto l’impero: «Matera fuit ‘mater pauperum’, ut Karissimus fuit ‘pauperum mandatis serviens’ in 2307 (prope Tharros), ut Flavia Cyriaca ‘rem sua[m pauperibus] linquit’ in 2309 (Turris Libisonis, item ad Sanctum Gavinum) utque Secundus quidam fuit ‘pater orfanorum, inopum refugium’ in Olbiensi, itaque Christianis pauperum auxilium maximae curae fuit in Sardinia».
Abbiamo osservato in passato che sarebbe poco credibile che tutto ciò possa essersi sviluppato senza la presenza di un episcopus, di un pastore e di una guida fornita di autorità: ne potrebbe derivare l’ipotesi di una maggiore antichità della sede diocesana, che è attestata sicuramente per la prima volta un secolo dopo, in età vandala, in occasione del concilio di Cartagine del 484 con il vescovo Felix de Turribus, quando la provincia ecclesiastica comprendeva ormai la Sardegna, la Corsica e le Baleari; forse in questo IV secolo e nel successivo vissero gli episcopi turritani Gaudentius, Florentius, Iustinus, Luxurius, di un incerto titulus epigrafico su mosaico, che la tradizione vorrebbe sepolti proprio sulMonte Agellu.
Ancora a Turris Libisonis bisogna ricordare un terzo testo su un mosaico decorato con un’elegante coppa, che copre la tomba del vir spectabilis Pascalis peregrina morte raptus: è evidente che siamo di fronte a un personaggio di altissimo rango morto in Sardegna, lontano dalla patria: si tratta di un senatore di Roma o Costantinopoli. Un caso analogo è quello ricordato da Gregorio Magno per il defunto vir spectabilis romano, sepolto in Sicilia nel 591, di cui si dovevano recuperare gli schiavi.
AE 2006, 527: Tomba del senatore Pascalis: qui giace strappato via da una morte in terra straniera (p[e]regrina morte raptus), un cittadino rende a lui onore degno per aver ben meritato, visse sessant’anni riposa cristianamente in pace.
Infine è dubbio se l’epigrafe perduta di San Saturnino a Carales (Corda 55) ricordi un Peregrinus oppure citi uno straniero: per usare le parole di Antonio Corda <<indichi <<uno stato sociale (peregrinus) oppure, ancora, più difficilmente “pellegrino”>>.
Il tema è dunque quello di capire chi fossero i peregrini aiutati da Matera e da Secundus, mentre per il vir spectabilis Pascalis sembra un personaggio morto lontano dalla patria, ma per il quale viene dedicata una elegante tomba privilegiata presso il luogo ove erano sepolti i martiri di Turris. Analogamente Cugusi segnala il fatto che per la vergine trentenne Ammia del IV secolo morta a Carales e proveniente dalla Frigia, sepolta presso San Saturnino «è copertamente adombrato il tema della ‘morte in un luogo straniero’».
Che esistessero presso il santuario di un martire degli xenodochia per ospitare gratuitamente i pellegrini è testimoniato dalla celebre iscrizione di Calama di inizio V secolo che nell’età di Onorio e Teodosio II ricorda l’intervento del curator rei publicae cittadino per restaurare l’edificio crollato, ad peregrinorum hospitalitatem. Negli stessi anni Sant’Agostino parlava nel XXII libro della Città di Dio di un sacerdote di nome Eucario che viveva ancora a Calama e che era stato guarito miracolosamente grazie alla reliquia del martire Stefano, che il vescovo Possidio aveva trasportato fin dove abitava. Colpito da un male molto grave, Eucario giaceva come morto sicché gli stavano già legando i pollici. Egli risuscitò per l’intercessione del martire quando gli fu riportata a casa, dal luogo ove era la reliquia del santo, la tunica e posta sopra il suo corpo disteso.
Siamo assolutamente convinti dell’esistenza di forme di pellegrinaggio oltre che ad Olbia e Turris Libisonis, presso i rispettivi approdi marittimi, anche per Sant’Efisio a Nora e San Saturnino a Carales: un pellegrino devoto arrivato dal Nord Africa fino al martyrium di Saturninus possiamo considerare anche il celebre nobile vescovo Fulgenzio di Ruspe, nel suo secondo esilio in Sardegna per volontà del re vandalo Trasamondo: lasciato il primo monastero collocato presso il porto di Carales in una posizione urbanistica centrale, dove aveva vissuto per una decina d’anni e dove forse aveva sepolto le reliquie di Agostino ora conservate a Pavia, Fulgenzio nel 517, aiutato dal vescovo Brumasio, costruì il secondo monastero presso la tomba monumentale di Saturninus che era stato sepolto due secoli prima in periferia, in un luogo ben distante dal porto, più isolato e silenzioso rispetto al centro cittadino. Il secondo monastero si trovava infatti secondo il discepolo Ferrando procul a strepitu civitatis, alla periferia orientale di Carales. Questo monastero segnò un salto di qualità nello sviluppo dell’esperienza monastica, che doveva rappresentare per l’isola un momento di straordinaria fioritura culturale e di profonda spiritualità con un costante richiamo all’insegnamento di Agostino nella chiesa sarda, almeno fino al definitivo ritorno in Africa di Fulgenzio e degli altri vescovi esiliati, per volontà di Ilderico. Mi sembra se ne debba dedurre che presso il martyrium di San Saturninus a Carales doveva essere un ambiente protetto, senza il chiasso dei devoti arrivati da ogni dove attraverso il porto di Carales. Da qui proviene la lastra perduta che abbiamo visto citare in età paleocristiana un peregrinus.
Attorno al 725 d.C. proprio al porto vediamo approdare secondo una tarda tradizione agiografica in pellegrinaggio i monaci inviati da Liutprando da Ticinum attraverso Genova fino a Carales, per comprare il corpo di Agostino conservato nell’ipogeo dell’attuale Carlo Felice (sotto Palazzo Accardo), con l’acqua prodigiosa e il saluto al visitatore che rimangono: in età moderna un’epigrafe invitava il viandante a sostare e venerare il sepolcro di sì gran padre. Lascerei da parte il solenne pellegrinaggio che si ripeterà nelle prossime settimane fino alle campagne di Sedilo sul Tirso, con S’Ardia , la corsa cerimoniale a cavallo, sicuramente introdotta al confine con il Barbaricum in età bizantina.
Infine vorrei tornare al le stratificazioni del culto di Lussorio a Forum Traiani, con la complessità del martirium e con le sue singolari succursali, come nella grotta di Romana, una bilocazione che gli agiografi spiegano in modo alquanto contraddittorio: il numero dei pellegrini ancora nell’Ottocento era tale che i fedeli che frequentavano questo rozzo luogo di culto a Romana hanno potuto pagare parzialmente la ricostruzione della cattedrale di Bosa.
Vogliamo solo sfiorare in questa sede il tema dello specifico isolano, cioè della permanenza in uno stesso luogo di antichissimi culti nuragici, rifunzionalizzati e reinterpretati in età imperiale in ambito pagano e poi cristiano, almeno fino al IV secolo: ad Alghero è il caso del pozzo sacro della Purissima, dove è conosciuto uno dei tanti casi di sanatio (come testimoniano gli ex voto di mani, piedi, gambe, lucerne), ottenuta attraverso l’invocazione ad un dio, da ultimo alla Madonna da parte dei fedeli ammalati, come testimonia la lucerna cristiana, prima che qualche autorità decidesse di distruggere il santuario. Ma pensiamo ai graffiti dell’ipogeo di San Salvatore di Cabras, con una continuità che da età preistorica, attraverso il mito di Eracle, arriva sino al luogo di culto cristiano. Oppure al tempio del Sardus Pater-Babai ad Antas, luogo di pellegrinaggio antichissimo, ma anche vicino alle miniere dove fu esiliato Callisto e gli altri cristiani romani. Ancora i santuari salutari pagani come quelli dedicati ad Esculapio e alle Ninfe, che hanno una storia nella fase tardo-antica cristiana. Infine rimane anche il tema dei visitatori che violavano le tombe, per recuperare amuleti o oggetti di culto: tanto che si invocava il destino di Giuda il traditore o l’intervento del demone Abraxas, quasi l’Anticristo. Nel luogo che ricorda il martire Efisio ad Orune in Barbagia gli ultimi scavi hanno fatto emergere nel IV secolo una lampada vitrea con l’elegante scena di traditio legis, Cristo che offre il rotolo della legge a 6 discepoli.
Concludendo, numerose fonti segnalano nella Sardegna tardo antica forti differenze sociali per la presenza di poveri, orfani, vedove, ciechi, prigionieri, oppressi, stranieri. Quanto di queste espressioni è riferito alla situazione reale della provincia Sardegna e quanto deriva dalle notissime fonti bibliche ed evangeliche, adattate per indicare la povertà e la malattia dei pellegrini che visitavano un santuario ? Ovviamente l’impegno verso gli stranieri è in primo piano per i cristiani, con varianti che però sono significative. Per gli stranieri il latino usa il termine peregrinus, che è stato inteso in passato con riferimento alle folle che visitavano le tombe dei martiri. Dobbiamo ammettere che il termine è generico ed indica gli stranieri di passaggio ae nche i non credenti, i forestieri, gli immigrati, gli esuli, le persone sradicate dalla propria terra a causa di guerre o carestie: Zaccaria 7,9 ricorda un precetto del Signore degli eserciti: Praticate la giustizia e la fedeltà; esercitate la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo. Non frodate la vedova, l’orfano, il pellegrino, il misero e nessuno nel cuore trami il male contro il proprio fratello, con il termine προσήλυτον tradotto in italiano pellegrino; nel Salmo 146, 9 si ricorda che il Signore protegge lo straniero (τὸν ἀλλογενῆ), egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi. Geremia 7,5 promette: se non opprimerete lo straniero (il sopravvenuto, il forestiero: προσήλυτον), l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre. Il tema torna in Levitico 19,34 e nel Deuteronomio 10, 19 nel VI secolo a.C.: Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Nella versione dei Settanta: καὶ ἀγαπήσετε τὸν προσήλυτον, προσήλυτοι γὰρ ἦτε ἐν γῇ Αἰγύπτῳ. Diversamente nell’Esodo 22:21 e 23,9: Non opprimere lo straniero (ξένος); voi conoscete lo stato d’animo dello straniero, poiché siete stati stranieri nel paese d’Egitto.
Sorprende positività di queste raccomandazioni, che tornano nei vangeli come in Matteo: Gesù si identifica con lo straniero bisognoso (ξένος, in latino hospes): Ero forestiero e mi avete ospitato… (Matteo 25, 35): in latino: hospes eram, et collegistis me: nudus, et cooperuistis me: infirmus, et visitastis me: in carcere eram, et venistis ad me.Sorprende positività di queste raccomandazioni, che tornano nei vangeli come in Matteo: Gesù si identifica con lo straniero bisognoso (ξένος, in latino hospes): Ero forestiero e mi avete ospitato… (Matteo 25, 35): in latino: hospes eram, et collegistis me: nudus, et cooperuistis me: infirmus, et visitastis me: in carcere eram, et venistis ad me.